IL PARCO DELLE NUVOLE

Se non fosse per il richiamo alto di una donna che esorta un bambino a rincasare, si direbbe che a Valsinni esiste un’ora un po’ magica che avvolge ogni cosa, avvolge gli uomini, le strade, le case con le porte socchiuse. É il mezzogiorno, l’ora più casalinga, e il paese per qualche tempo si ferma tra il verde degli alberi – alberi che non producono nulla – e una cascata di case che scende dolcemente verso il fiume.

Ho appena lasciato, sospeso nell’aria, in balia dello scirocco (il mare é a un volo di passero da qui), il profumo degli aranceti in pieno rigoglio nella piana di Tursi, tra i bacini del Sinni e dell’Agri, i fiumi della Magna Grecia. E mi domando se per caso a fare la storia non fossero soltanto gli uomini ma anche i fiumi.

Suggestionato dal luogo, mi sembra di aprire un ideale colloquio con Isabella, la sfortunata poetessa che dialogò proprio col suo fiume, il “torbido Siri”, che sempre più raramente si fa tumultuoso.

Chi mi accompagna, addestrato alla guida, sicuro, quasi disinvolto nell’affrontare tornanti che collegano tra loro questi antichi paesi lucani, mi stimola a raccontare la fine tragica di Isabella per mano dei fratelli, una storia raccapricciante, e anche per quegli anni, periodo convulso del Vicereame nel turbinio delle conquiste e delle dominazioni, inconcepibile.

É una storia che coltivo con grande pietà, con poetica tenerezza.

Confinata nel castello di famiglia, che sto per rivisitare dopo anni di assenza, Isabella visse “tra gente irrazional, /priva di ingegno”, come confessa in una poesia in cui prende coscienza della sua difficile condizione, di donna e di intellettuale. Aveva solo venticinque anni – era il 1545 – quando fu travolta nell’eccidio organizzato da fratelli e parenti “che il luogo agreste aveva educati feroci e barbari”.

Fu pugnalata a morte Isabella, per aver idealizzato, più che vissuto, una improbabile, impossibile storia d’amore con il nobile spagnolo don Diego Sandoval de Castro, poeta colto, brillante conversatore.

Nello sguardo dell’amico leggo una punta di malizia. Fu un amore in trasparenza, preciso, tenuto sul piano del rapporto ideale. Bastò il sospetto a scatenare la violenza dei fratelli. Con torture e morte violenta pagò anche il pedagogo al quale Isabella aveva affidato i messaggi per l’amico castellano. Un anno dopo, in un agguato, fu giustiziato don Diego col quale la poetessa aveva stabilito una corrispondenza epistolare con lo scambio di versi, di confidenze e confessioni.

Da un ristretto belvedere, che serve anche da parcheggio, mi fermo a guardare la valle del Sinni. Il fiume é quasi prosciugato per via degli sbarramenti: la diga di Senise a una ventina di chilometri é la più importante d’Europa in terra battuta. Ma il primato non ha mai inorgoglito gli abitanti della zona. Sulla superstrada che dallo Jonio porta al Tirreno il traffico non crea problemi. Sarà per l’ora?

Lungo gli esili fili d’acqua che lo tengono in vita e gli consentono di restare ancora nelle carte, “il fiume di Isabella” si porta al mare il tormento di una ragazza innamorata che proprio nel fiume rintracciava una significativa immagine di fraternità col proprio dolore.

Tutto il dramma della Morra ti accompagna anche sull’onda del racconto popolare. Uno scolaro si improvvisa guida sul campo; una donna anziana con un’espressione di pietà sostituisce la storia con la favola. Ed è lo scolaro che consiglia di lasciare l’automobile se vogliamo visitare “la cittadella”, la parte più antica di Valsinni, il borgo un tempo abitato dai più poveri del paese. Non vi sono alternative, bisogna muoversi a piedi tra vicoli e stradine indicati da una toponomastica orgogliosa e irredentista. Apre il percorso via Giuseppe Garibaldi, lo completano i vicoli dedicati a Cavour, Poerio e Carignano.

Si comincia a salire per poter raggiungere a luce piena il castello, che sovrasta case e vicinati. Ma sono indispensabili soste e momenti di riflessione: un pretesto per prendere fiato. E riesco appena a immaginare il sacrificio che dovette fare Benedetto Croce quando affrontò questo percorso nel 1928.

Più che andare alla ricerca di nuovi documenti sulla “obliata poetessa del ‘500”, documenti che comunque non sperava di trovare (e infatti non trovò), volle visitare i luoghi dove visse e patì Isabella, “con un raccoglimento dell’animo e della mente, con un volo dell’immaginazione”.

Una lapide, posta assai tardivamente accanto al portone d’ingresso del castello datata 1951, ricorda il “pellegrinaggio” del filosofo, che in quella occasione incontrò le autorità del paese. Gradì, malgrado la fama di mangiapreti che lo precedeva, anche l’ospitalità del parroco, parlò con la gente e si rese conto che nella fantasia popolare Isabella apparteneva al mondo della leggenda e ai territori della poesia, più che a quelli dell’onore e della politica. Non a caso affermò che “qualcosa di simile a un culto si è acceso in questi ultimi anni intorno alla risorta immagine della poetessa, presso i suoi concittadini”.

“Isabella, povera figlia!”, dice con voce accorata Eleonora, moglie dell’ultimo scalpellino di Valsinni, che mi invita nella sua casa. Mentre affetta salame e riempie bicchieri di uno squillante rosato che lascia nostalgie nel palato, la mia ospite indica, dall’alto di una minuscola finestra, il fiume che si restringe e si fa muto in fondo alla valle; laddove un gregge pascola in lontananza e attorno vi si affanna un pastore.

I pensieri, i sogni, la disperata poesia di Isabella nascevano proprio in questi angoli remoti e dimenticati della Lucania. “Quella ch’è detta la fiorita etade, /secca ed oscura, solitaria ed erma / tutto ho vissuto qui cieca ed inferma, /senza saper mai pregio di beltade”.

Un felice spunto questi versi del disamore. Nel percorso che conduce al castello emerge il grigio delle case (qua e là squilla il rosso dei tetti), il grigio del tempo, il grigio di una terra segnata dalle erosioni, dai terremoti, dai violenti scrosci della pioggia. Ed é grigia la pietra arenaria sulla quale Amalio, il marito di Eleonora, sta definendo, con martello e scalpello, una improbabile effigie di Isabella, un vistoso souvenir che affiderà alla curiosità e all’interesse di qualche visitatore: il prezzo é trattabile. Anni fa realizzava portali e davanzali su precise istruzioni del suo maestro, un caposcuola morto alla bella età di ottantasette anni, a dispetto della silicosi.

La pietra arenaria, una sottospecie di marmo bianco, vecchia gloria dell’architettura locale, si estrae da una secca del Sinni. E la tradizione popolare vuole che su quella secca, quando il Sinni si placava dopo una piena, Isabella andasse a dialogare col suo fiume, stanca di sperare e di illudersi.

“Io penso, nella mia povera cultura, che la rondinella usciva spesso e di nascosto dal nido, e i fratelli furono costretti a difendere l’onore della famiglia. Era sempre figlia di un barone. E poi a quei tempi … o mi sbaglio?”.

Ma come si fa a far capire ad Amalio che la sua non è altro che una insinuazione, che “a quei tempi” non era tollerata neppure una semplice affinità intellettuale tra uomo e donna? Basta dare uno sguardo al castello per capire in quali affanni vivesse Isabella.

Ho appena superato la rampa di scale lastricata di pietra arenaria e non posso trattenere un’esclamazione insieme di stupore e di pietà davanti alla loggetta, a strapiombo su un dirupo, dalla quale Isabella inviava i suoi pensieri all’amico poeta lontano. Mi sporgo da un davanzale, con una fenditura aperta come un’occhiaia, e lo sguardo cade giù a precipizio tra spuntoni di roccia. Devo anche dominare un leggero capogiro.

“Qui attorno è tutta una pietra” mi ha appena detto un contadino, con l’aria rassegnata che hanno i vecchi quando non si ritrovano accanto neppure un figlio, essendo tutti andati altrove, e già da molti anni, a cercare lavoro. Vive, con la moglie, in una piccola casa che pare scavata ai piedi del maniero del quale, quando ogni festa é finita, alla fine dell’estate, diventa un tacito custode.

Da alcuni anni Valsinni ha individuato un filone culturale che vuole la conoscenza più approfondita del suo personaggio più illustre. E nata “L’estate di Isabella”, e poi il “Parco letterario”, un progetto che tiene d’occhio l’offerta turistica con la valorizzazione del patrimonio culturale e storico del paese.

Scrittori, pittori, registi di cinema e di teatro, attori famosi hanno arricchito di voci e di suggestioni i versi della Morra. Nella primavera del 1975 giunse a Valsinni, per un incontro di studio sull’opera della poetessa, il commediografo francese André Piere de Mandiargues del quale si stava rappresentando a Parigi un sontuoso dramma sulla “dolorosa storia di Isabella Morra”. L’opera, che restò in cartellone per diversi mesi, era ambientata ai tempi nostri. I fratelli della poetessa, nel tetro abbigliamento dei centauri, per mettere in atto il loro progetto scellerato, irrompevano sulla scena a bordo di potenti moto. Una trovata spettacolare che accresceva la drammaticità dell’azione, la crudeltà del fratricidio. Anche de Mandiargues, come Croce decenni prima, sali al castello con l’animo del pellegrino. Alto e asciutto, sorridente e aristocratico, si fece fotografare in ogni angolo del castello, sotto un sole abbagliante che allungava a dismisura la sua ombra sul pavimento lastricato. Andava forse alla ricerca di nuove emozioni sulla vita e sull’opera di una poetessa che, disse, ha cantato con più aspra intensità la condizione misera della donna nel mondo degli uomini.

Oggi il paese, nel quale l’ospitalità non è un’eccezione, è tornato a vivere i giorni della normalità dopo le incursioni estive non solo di emigrati ma anche di artisti e letterati. Il portone del castello si è richiuso e il silenzio è tornato padrone della scena.

Triste destino quello del castello, che non dev’essere stato particolarmente festaiolo con quegli abitanti piuttosto riservati e turbolenti. Con la soppressione della feudalità cadde nell’abbandono più assoluto. Famiglie di pastori lo utilizzarono come ovile e soltanto nel 1920 poté riscattarlo un cittadino di Valsinni che lo rese in parte abitabile.

Da ogni angolo dell’antico edificio si può vedere il profilo del monte Coppolo, novecento metri di altitudine, dove attende di essere portato alla luce un patrimonio archeologico che si annuncia prezioso. Di lassù Isabella scrutava il mare, l’onnipresente Jonio, e si struggeva di nostalgia per il padre esule in Francia perché nemico degli spagnoli.

Nella luce autunnale che si attarda oltre il profilo sinuoso delle colline che degradano verso il mare, cerco di immaginare il volto della ragazza, i suoi occhi, il suo sorriso. Ma posso soltanto evocare fantasmi. Nessun cronista, nessun parente, neppure il nipote della Morra che per primo nel 1629 riferì sull’eccidio di Favale, ci ha lasciato una pur minima indicazione sulla fisionomia di Isabella, sulle sue abitudini di vita. Patiti di scienze occulte avrebbero scomodato gli spiriti familiari dei Morra per conoscere più particolari su una vicenda che commosse e indignò anche il re di Francia.

Secondo la tradizione popolare il sepolcro di Isabella si troverebbe nella valle del Principe, una località distante, in linea d’aria, circa un chilometro dal castello. In quella valle sono sparsi i ruderi di una cappella basiliana che nel 1700 risultava ancora appannaggio di Favale e, quindi, di proprietà dei Morra. Costretta a vivere in solitudine tra slanci religiosi, Isabella si dovette recare di frequente in quella chiesa lontana dagli occhi della gente. E là, forse, cadde nell’agguato tesole dai fratelli.

Fin qui la tradizione orale. Ma di ricerche, che ravviverebbero l’interesse degli studiosi, di qualche pur minima esplorazione tra i ruderi della cappella basiliana o nei sotterranei del castello, non si ha notizia. E c’è chi insinua che non si saprebbe neppure da dove cominciare.

La tomba di Isabella rimane un’idea.

Lasciato il paese che si sta chiudendo alla luce del tramonto, una luce che pare trattenga il respiro, ci si sente a disagio nel coordinare fatti e impressioni, come se si stesse abbandonando un’altra terra, un mondo sconosciuto.

Scendendo verso la valle del Sinni si fa sempre più imponente la rupe di Colobraro, con poche case che si affacciano sull’abisso.

Dopo un lungo silenzio l’amico che guida l’automobile dice a bassa voce: “Quello è il paese del malocchio”. E ammicca, cercando di coinvolgermi. Tenta uno scongiuro. Gli sorrido con indulgenza, lasciandogli capire che si tratta soltanto di una stupida credenza. Ma lui insiste.

 

One Response to Mario Trufelli, L’OMBRA DI BARONE – III. Il Parco delle Nuvole

  1. Gilberto Marselli ha detto:

    Veramente grazie a te, Antonio, ed al simpatico Trufelli se mi avete fatto tornare indietro agli inizi degli anni ’50, quando anche io frequentavo Valsinnie tutti i bei paesi della Media Valle del Sinni…..Descrizione fedelissima e sempre ricca di nuove suggestioni..Grazie.

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