Favola di un genio matematico indiano – [ 2 ] La matematica, Dio e la dea Namagiri
Ramanujan nacque il 22 dicembre 1887 a Erode, una sede di contea che contava circa quindicimila abitanti situata alla confluenza del fiume Cauvery con uno dei suoi affluenti, la Bhavani, circa quattrocento chilometri a sud di Madras. La calda Madras all’epoca di Ramanujan costituiva una delle tre principali unità politiche e amministrative dell’impero britannico in India, insieme a quelle di Boambay e di Calcutta. Erode significa «teschio bagnato», in ricordo della leggenda indù secondo la quale l’infuriato Shiva strappò una delle cinque teste del dio della creazione Bahma. A Erode vivevano i genitori della madre di Ramanujan, dove, secondo la tradizione, lei si era recata per prepararsi alla nascita del figlio che aspettava. Al bambino fu dato il nome di Srinivasa Ramanajudan Iyenar. Srinivasa era il nome del padre, imposto automaticamente e usato raramente, atrofizzato in S. nei documenti ufficiali. Iyenar era il nome di casta, che si riferiva alla particolare branca dei brahmani dell’India meridionale cui lui e la sua famiglia appartenevano. Così, solo Ramanujan era nome suo e nella vita fu semplicemente Ramanujan.
Il rapporto di Ramanujan col padre era quasi inesistente. Quando si trovava in Inghilterra scrisse a suo padre soltanto una lettera, per raccomandargli di badare alla casa e di non lasciare che la grondaia straripasse, mentre a sua madre scriveva ampi resoconti sulla seconda guerra mondiale scatenatasi in Europa, riferendo dettagli riguardanti il numero dei combattenti, l’estensione del fronte, l’uso degli aerei in combattimento e il contributi dei ragià indiani all’impegno bellico britannico.
La madre, donna grandemente corpulenta, si chiamava Komalutammal. In India la forza del legame tra madre e figli è entrata nel mito, e tuttavia il rapporto tra Ramanujan e la madre deve essere stato talmente forte che persino i biografi indiani hanno immancabilmente ritenuto opportuno commentarlo. La madre, devotissima, possedeva uno straordinario repertorio di racconti mitologici e se ne serviva per narrare storie tratta da antiche leggende. Da sua madre Ramanujan assimilò la tradizione, imparò la dottrina della casta, imparò a partecipare ai riti di devozione, imparò a mangiare il cibo giusto e a rinunciare al cibo sbagliato. Apprese, in sostanza, ad essere un bravo brahamano (b. fu denominazione generica degli appartenenti alla casta sacerdotale, la prima in ordine d’importanza nel sistema castale indiano; oggi vi appartengono anche molti laici delle più svariate professioni).
Sarebbe interessante, per capire che cosa significa essere un bravo brahamano, descrivere il sistema castale in India, che ha regolato la vita di Ramanujan. Lo spazio non me permette e dirò solo due cose, certamente secondarie: la prima, sulla fronte, talmente rasata da sembrare prematuramente calva, risaltava il marchio della casta (per Ramanujan, una grande U rossa intersecata da una lineetta verticale bianca); la seconda, sempre per ragioni castali Ramanujan mangiava esattamente come a un bambino occidentale viene insegnato a non mangiare: con le dita.
La lingua madre di Ramanujan era il tamil, ammirato dagli studiosi europei per la sua logica precisa: «una lingua fatta dagli avvocati e dai grammatici».
Le doti di Ramanujan e il suo interesse per la matematica si manifestarono subito. Divenne una sorta di piccola celebrità. In una cerimonia del 1904, quando a Ramanujan fu assegnato il premio per la matematica, il preside lo presentò al pubblico come uno studente che, se fosse stato possibile, avrebbe meritato più dei voti massimi previsti. Ma, in effetti, egli manteneva un equilibrio difficile e fragile, che presto non avrebbe più retto, e Ramanujan sarebbe stato condotto in un mondo nuovo e destabilizzante, fatto di passione intellettuale e di uno spietato e inflessibile fervore che avrebbe dominato il resto della sua esistenza. Scorreva in lui una vena intuitiva e addirittura irrazionale che la maggior parte dei suoi amici occidentali non avrebbe mai capito, ma alla quale egli si sentiva a proprio agio. Era profondamente devoto e rigorosamente vegetariano, frequentava i templi del luogo, partecipava in casa a cerimonie e rituali, si recava in pellegrinaggio in luoghi sparsi in tutta l’India meridionale, invocava regolarmente il nome della dea domestica, la dea Namagiri di Namakkal, e fondava le sue azioni su quelli che riteneva fossero i desideri della dea. Attribuiva agli dèi la capacità di navigare tra le insidie dei testi matematici scritti in lingue straniere. Aveva un debole per l’interpretazione dei sogni, una predilezione per i fenomeni occulti e un’inclinazione mistica, che i suoi amici indiani criticavano immancabilmente. Molti aneddoti sono ricordati di lui, che raccontano come si perdesse in monologhi filosofici e mistici, faceva bizzarri e fantasiosi salti con l’immaginazione, che i suoi amici non comprendevano, ma che trovavano comunque affascinanti. Una volta, a casa di un insegnante, si fece trascinare dalla conversazione e ben presto iniziò a spaziare fino ai legami, che secondo lui esistevano tra Dio, lo zero e l’infinito, al punto da tenere tutti incantati fino alle due del mattino.
Nella famiglia di Ramanujan – come già detto – la divinità domestica era la dea Namagiri, consorte del dio leone Narasimba. Il nome della dea affiorava in ogni circostanza della vita domestica e innumerevoli si ricordavano gli interventi salvifici della dea. Ramanujan avrebbe mormorato il nome di Namagiri per tutta la vita, per invocare la sua benedizione e cercare il suo consiglio. Raccontava agli amici che doveva alla dea Namagiri le sue doti matematiche. Era Namagiri a scrivere le equazioni sulla sua lingua, sempre Namagiri gli elargiva in sogno intuizioni matematiche.
Questo raccontava agli amici. Ma ci credeva?
Perse interesse per ogni ambito della vita che richiedesse l’impegno delle sue energie e del suo tempo, che non fosse la matematica. Fu irretito dalla matematica. Bocciato a scuola, gli fu tolta la borsa di studio, fu ritenuto carente persino come insegnante della materia che amava di più. Eppure, vista diversamente, vista dal suo punto di vista, aveva tutto. Infatti, non c’era nulla che lo distraesse dai suoi quaderni: quaderni stracolmi di teoremi, che si facevano sempre più gonfi di giorno in giorno. I quaderni spaziavano in campi molto vasti, ma quei campi erano praticamente tutta materia pura. Qualunque uso se ne sarebbe potuto fare un giorno, Ramanujan non pensò minimamente alle loro applicazioni pratiche. Ramanujan era un artista. I numeri, insieme al linguaggio matematico che esprimeva i loro rapporti, erano il mezzo della sua arte. Non c’era nulla di sbagliato in ciò che faceva: era solo strano. Non era in contatto con altri matematici, non leggeva i loro lavori, era come una specie distaccatasi dalla principale linea evolutiva arrivata a occupare una nicchia biologica tutta sua.
Secondo il pensiero indù, la vita attraversa quattro stadi. In qualità di brahmacharin, si è studenti che imparano i fondamenti spirituali e intellettuali. Nella fase da grihasta, che è la più lunga, si è capofamiglia, con responsabilità nei confronti della casa e della famiglia. In qualità di uanaprastba, che significa abitante delle foreste, si comincia a liberarsi dagli affanni della vita famigliare e si cerca la solitudine, la calma introspettiva. Infine, nella fase da samnyasin, si abbandona tutto, famiglia, possedimenti, affetti, alla ricerca di un appagamento spirituale.
Fuori della scuola, senza un diploma, senza un lavoro, disinteressato dei bisogni pratici della sua famiglia, che, per i livelli della casta di appartenenza era sull’orlo della miseria, sopportato dalla famiglia. Questo fu Ramanujan. Ma alla fine anche i suoi arrivarono al limite. Quando è troppo è troppo, stabilì sua madre. Capì che, per combinare qualcosa, il figlio doveva tendere la mano al mondo, e il matrimonio lo avrebbe costretto a farlo. E verso la fine del 1908 procedette decisa ad attuare quella che un grande psicologo indiano definiva «psicoterapia indiana collaudata nel tempo»: un matrimonio combinato.
I matrimoni combinati, senza che né la sposa né lo sposo potessero dire la propria, erano una pratica assolutamente diffusa in India, come era la consuetudine delle spose bambine: la maggior parte delle ragazze si sposava prima della pubertà, anche se non vivevano effettivamente con i mariti, e consumavano il matrimonio solo molto tempo dopo. Questa usanza appariva ripugnante alla maggior parte degli europei, ma gli inglesi, rispettosi dei costumi locali, non fecero nulla per cambiarla. Nel 1894 lo Stato di Mysore aveva approvato una legge che vietava il matrimonio di ragazze di età inferiore agli otto anni e un simile provvedimento era stato bocciato a Madras. Più avanti nel tempo e nei costumi, una legge del 1929 proibiva i matrimoni in età inferiore ai 18 anni per le donne e ai 21 per gli uomini. Erano previste pene detentive, ma la sanzione era raramente applicata. Il matrimonio combinato continuava ad essere prevalente rispetto al matrimonio d’amore ed ancora frequente era il matrimonio di minorenni.
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