Komalatammal, la madre di Ramanujan, intravide una possibile moglie del figlio in Janaki, una bambina di nove anni, figlia di un lontano parente. Chiese informazioni sulla combinazione astrale della ragazza, in sostanza il primo passo per tutti i matrimoni combinati in India, tracciò la combinazione astrale del figlio su una parete di casa, lo confrontò con quello della ragazza e arrivò alla conclusione che sì, sarebbero stati una bella coppia. Seguirono le trattative per il matrimonio tra Ramanujan e Janaki, che all’epoca aveva circa nove anni.  Era per molti versi una giusta accoppiata, tra due persone di eguale povertà.

La famiglia di Janaki attraversava situazioni difficili, poteva offrire solo una dote modesta, forse pochi vasi di rame lucidato, non potevano permettersi di fare troppo i difficili nella scelta di un marito, specie perché Janaki aveva quattro sorelle (e un fratello). Ramanujan, invece, non era un buon partito. A quel che appariva, era un fallimento totale, senza un diploma, né un lavoro, né prospettive. Ma avevano sentito Komalatammal pubblicizzare il figlio come un genio della matematica.

Le nozze indiane duravano oltre quattro o cinque giorni, erano un tripudio di colori e decorazioni, di musica e di cerimoniale. L’intera economia era influenzata dal livello e dalle spese di questi grandi eventi, per i quali si poteva gettar via il guadagno di sei mesi senza pensarci troppo. Persino le famiglie più povere si facevano carico di tutti gli oneri senza  battere ciglio, mettendo da parte ogni rupia risparmiata e anche indebitandosi con gli usurai del posto.

Il matrimonio di Ramanujan ebbe inizio con l’accoglienza della sposa. Poi venne la cerimonia del Kasi Yatra, in cui lo sposo finge di rinunciare ai piaceri domestici, e si avvia addirittura verso Varanasi, la sacra città del Nord, per divenire un samnyas (La samnyasa, nella tradizione induista, è il culmine e lo stadio finale della vita, in cui occorre rinunciare ai beni materiali e dedicarsi interamente al proprio cammino spirituale). Percorre forse una novantina di metri prima di essere fermato dalla famiglia della sposa, che gli lava i piedi in segno di supplica e lo implora di tornare. Finalmente, il 14 luglio 1909, Janaki fece il saptapadi, cioè i sette passi, che rendevano il matrimonio irrevocabile.

All’inizio, il matrimonio di Ramanujan non portò alcun cambiamento, almeno esteriormente. Janaki non si sarebbe effettivamente unita a lui prima di tre anni, fino a quando non avesse raggiunto la pubertà. Dopo un breve periodo trascorso con la famiglia di lui a Kumbakonam, tornò dalla sua a Rajendram, per lavorare con la madre in cucina, imparare a cucinare e a sbrigare le faccende domestiche, e apprendere ancora qualcosa nelle arti dell’obbedienza e del rispetto verso i suoceri e verso il marito.

Ma per quanto la situazione esteriore fosse cambiata poco, Ramanujan era comunque entrato in un nuovo stadio dell’esistenza. Ormai era un grihasta, e pur di malavoglia, rinunciò a quel deserto sociale in cui si era cacciato per la matematica. Non cercava una borsa di studio, e nemmeno l’opportunità di fare il matematico, ma solo un lavoro e la possibilità di un futuro, di una nuova vita. Per i due anni successivi, la totale disperazione in cui versava il suo destino lo spinse in giro per l’India meridionale. Non aveva una vera e propria casa, per lo meno agli inizi di questo periodo, ma si accampava piuttosto all’aperto con gli amici, uscendo ogni mattina in cerca di studenti cui dare lezioni private. Ma la sua reputazione lo precedeva e rimediava pochi studenti.

Fu un periodo emotivamente fragile e la sua salute ne risentì. Aveva bisogno di cure costanti e che fosse ben nutrito. Un amico lo accompagnò alla stazione, pagò il biglietto e lo mise su un treno per rimandarlo dalla sua famiglia a Kumbakonam. Ma prima che partisse, in un attimo che il suo amico avrebbe ricordato per sempre, Ramanujan si voltò verso di lui e disse: «Se muoio, per favore dà questi al professor Singaravelu Mudaliar [del Pachaiyappa’s College] o al professore inglese Edward B. Ross, del Madras Christian College», cui era stato presentato da poco. Detto questo, Ramanujan gli porse due grossi quaderni stracolmi di formule. I quaderni non erano più per Ramanujan un semplice resoconto privato del suo pensiero matematico. Come lascia intendere l’episodio appena raccontato, erano la sua eredità. Ed erano un documento smerciabile, il suo passaporto per un lavoro: «la prova che non era l’incorreggibile fannullone che le sue bocciature sembravano suggerire». Spinto dalla necessità, aveva cominciato a far visita a uomini influenti che secondo lui avrebbero potuto dargli  un lavoro. E mentre faceva queste visite, si portava sotto braccio i suoi quaderni, proprio come i rappresentanti di commercio i loro campionari. Ramanujan era diventato, nei diciotto mesi successivi alle sue nozze, un venditore porta a porta. Il suo prodotto era se stesso. I suoi quaderni erano le sue uniche credenziali in una società in cui, ancor più che in Occidente, le credenziali avevano importanza, in cui i titoli accademici di solito comparivano nelle intestazioni delle lettere ed erano citati come parte di qualsiasi presentazione, e in cui, quando non lo erano, si faceva in modo di tirarli fuori nel corso della conversazione. Un uomo era sempre ciò che il suo titolo faceva di lui, e gli unici titoli di Ramanujan erano disoccupato e bocciato. Un eminente professore di matematica gli disse chiaro e tondo che senza alcun titolo non sarebbe mai stato qualcuno.

Eppure, paradossalmente, proprio la sua mancanza di sensibilità sociale gli conferiva una specie di fascino, perché l’altra  faccia della medaglia era un’innocenza e una sincerità che tutti quelli che lo conoscevano immancabilmente notavano. «Ramanujan era un’anima talmente semplice che nessuno poteva mai essergli ostile» ricordò N. Ranghunathan, un compagno di classe delle scuole superiori divenuto egli stesso professore di matematica. Era difficile che non piacesse.

Il suo infinito peregrinare da tizio a caio fu, comunque, umiliante e deludente: non trovava lavoro, i matematici non comprendevano le sue formule, ogni volta veniva rimandato per la sua strada con nuove lettere di presentazione.

Alla fine, allo scadere del 1910 un matematico, che si chiamava Ramachandra Rao, comprese che non si trovava di fronte un eccentrico, ma un valido matematico, e gli chiese cosa volesse. Ciò che voleva, rispose Ramanujan, era una misera somma con la quale vivere e lavorare. O, come disse in seguito Ramachandra Rao, «voleva un po’ di agio (leisure era la parola), in altre parole che gli venisse semplicemente dato un po’ di cibo senza sforzo da parte sua, e che gli venisse consentito di continuare a sognare».

La parola ha da allora modificato il suo significato. In realtà la parola risale al termine  del Medio Inglese leisour, che significava libertà o opportunità.  E come spiega l’Oxford English Dictionary, è la libertà «non dal» ma «di fare qualcosa di specificato o di sottinteso». Così, E.T.  Bell scrive di un famoso matematico francese del XVII secolo, Pierre de Fermat, che trovò al servizio del re «plenty of leisures» cioè tanto tempo libero per la matematica.

Lo stesso valeva per Ramanujan. Egli cercava piuttosto la libertà di impiegare le sue doti. Ramanujan rivendicava l’appartenenza a un’aristocrazia dell’intelletto. Nel chiedere «agio» non cercava niente di più di ciò che migliaia di persone nate in condizioni elitarie in tutto il mondo si prendevano in quanto loro dovuto. Ed eccezionalmente, affermando la sua ostinazione tanto  quanto il suo cervello, lo trovò. Forse contribuì che fosse un brahmano. Ramanujan era povero, e veniva da una famiglia cui spesso mancava il necessario per mangiare. Ma in India il livello economico contava meno della casta. Il fatto di essere un brahmano gli dava accesso a circoli a lui altrimenti preclusi. In effetti, praticamente tutti quelli che Ramanujan incontrò in quegli anni erano brahmani. Da quel momento in poi, Ramanujan iniziò a ricevere ogni mese un assegno di venticinque rupie. Non era molto, ma era abbastanza da liberarlo dalle preoccupazioni economiche. La vita gli spalancava le sue porte. Adesso, più determinato che mai, si lasciò alle spalle la Kumbakonam della sua giovinezza e per tre anni, a cominciare dagli inizi del 1911, entrò nel più vasto mondo della capitale dell’India meridionale: Madras. Madras era la quinta città dell’impero britannico per grandezza e, dopo Calcutta e Bombay, la terza del subcontinente. Alcuni facevano risalire il suo nome alla leggenda di un pescatore di nome Madarasen, altri a una deformazione di Mandarajya, che significa regno degli stupidi, o addirittura all’espressione portoghese Madre de Dios.

Alleggerito del carico che la generosità di Ramachandra Rao gli aveva tolto dalle spalle, Ramanujan era felice, o qualcosa di molto simile. Adesso, dopo quei due anni incerti e angosciosi seguiti al suo matrimonio, era circondato da amici, e faceva quello che gli piaceva, allegro e spensierato. Il 1911 fu un anno positivo e promettente. Fu l’anno in cui la capitale dell’India fu trasferita, con grande pompa e cerimonia, da Calcutta a Delhi. L’anno in cui fu installata a Madras una nuova rete fognaria, completa di condotti sotterranei, filtri a sabbia e pompe. L’anno in cui le lampade a olio per le strade cominciarono a cedere il passo all’illuminazione elettrica. E fu l’anno in cui il primo articolo di Srinivasa Ramanujan fu pubblicato nel «Journal of the Indian Mathematical Society», la rivista dell’associazione matematica di recente istituzione, il che rappresentò il primo passo per salire sul palcoscenico della matematica indiana e alla ribalta della scena internazionale.

Gli indiani praticavano la matematica già mille anni prima dell’arrivo degli inglesi. Prima del VII secolo, mentre l’Occidente era ancora impantanato nei goffi numeri romani, l’India aveva introdotto i numeri che utilizziamo oggi. Lo zero, un simbolo che esprime il nulla, rappresentava un particolare trionfo. Molti dei contributi dell’India alla matematica erano stati stimolati dalla necessità di conoscere, sulla base di fattori astronomici, le epoche esatte per le cerimonie vediche. In questo modo algebra, geometria e trigonometria ne erano uscite tutte arricchite. Era una tradizione ricca, ma del tutto diversa da quella della Grecia, la culla della matematica occidentale.

Ma ormai quella era, veramente, storia antica. Negli ultimi secoli l’India aveva contribuito ben poco al progresso matematico mondiale. La nascita della Mathematical Society non assicurava una rinascita della matematica indiana, ma i suoi fondatori, assetati di legami con l’Occidente e orgogliosi dell’eredità del loro Paese, se pure ragionevolmente consapevoli del fatto che la venerazione del passato non potesse sostituire un successo presente, di sicuro speravano il contrario. Fu in questo mondo nascente che Ramanujan saltò fuori, per così dire, come matematico nel 1911.

 

 

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