Favola di un genio matematico indiano – [ 4 ] E Hardy disse di si
La storia di Ramunajan, genio matematico indiano, che Rabatana sta raccontando come una favola è tratta da un voluminoso libro zeppo anche di equazioni, radici quadrate e formule trigonometriche. Matematica e favola s’intrecciano nella vita già raccontata e nella breve vita che resta a Ramunajan, come pure nel quesito da lui posto nell’articolo pubblicato sul «Journal» della Mathematical Society: cosa accade se n = infinito? Come può un qualsiasi numero essere uguale a infinito? L’infinito non è un luogo che si possa raggiungere, nemmeno una quantità che si possa inserire in un’equazione: non c’è un numero finale. Perciò, capire come si comportasse un’espressione matematica all’infinito, significava esplorare un territorio inafferrabile e misterioso ben oltre qualunque capacità di comprensione. E nessuno esplorò questo territorio con più ardore né lo conobbe più intimamente di Ramanujan.
Nel citato articolo, come in tutta la sua opera, Ramanujan trovò rapporti tra cose che sembravano senza rapporto. In seguito altri matematici avrebbero dimostrato che per la maggior parte erano validi: Ramanujan, però, normalmente non forniva dimostrazioni, dando a volte i risultati più provocatori senza uno straccio di prova. E tuttavia la fiducia di Ramanujan in se stesso era del tutto giustificata. Nei suoi articoli, nei quaderni, nella corrispondenza matematica, con sbalorditiva costanza, aveva ragione. Ramanujan entrava finalmente nella mappa matematica mondiale, anche se nascosto in un suo angolo oscuro. Stava cominciando a farsi notare. Un amico gli disse: «Ramanju, ti definiscono un genio.». «Ma che genio» rispose Ramanujan. «Guarda il mio gomito. Questo ti racconterà la storia.» Era ruvido, sudicio e nero. Quando lavorava con la sua grossa lavagna, in preda all’eccitazione del lavoro, trovava molto più veloce il rapido passaggio dalla mano per scrivere al gomito per cancellare, che non la ricerca di uno straccio. «Il mio gomito sta facendo di me un genio» disse. «Perché non usi la carta?» «Non posso permettermela» rispose Ramanujan. Riceveva il denaro di Ramachandra Rao, ma quello bastava fino a un certo punto. Carta? Avrebbe avuto bisogno di quattro risme al mese.
Un altro amico ricordò pure l’«enorme appetito» di Ramanujan per la carta. Un altro ricordò che, per mancanza di carta, a volte Ramanujan scriveva con l’inchiostro rosso su carta già utilizzata.
Mezzo secolo dopo la morte di Ramanujan, lo sponsor di uno dei tanti memoriali in suo onore fu una ditta di carta per stampa e scrittura di Erode, la città natale di Ramanujan. «La carta rende immortali» era intitolato l’annuncio pubblicitario di un’intera pagina. «La carta buona» continuava «ha contribuito a preservare e a diffondere i grandi pensieri dell’Uomo.» Fu un adeguato tributo.
Ramanujan avrebbe dovuto necessariamente confrontarsi con il grande abisso che divideva nettamente l’India dai colonizzatori inglesi. L’Occidente era avanti nell’elaborazione della matematica, e i funzionari inglesi erano il prodotto delle migliori scuole pubbliche, laureati a Cambridge e a Oxford. Avevano superato esami difficilissimi e, nel tempo libero, traducevano opere dal sanscrito, decifravano iscrizioni nei templi, scrivevano manuali di grammatica e compilavano dizionari. Erano uomini che, come fu scritto in seguito in un rapporto, «amavano pensare a se stessi come ai governanti ideali di Platone». Educati a nobili valori, e con inculcato un senso di coscienziosità e di responsabilità pubblica, avevano una reputazione fondata sulla dedizione e sull’equità. C’era tuttavia in loro un altro aspetto: un insopportabile compiacimento e un senso smisurato di superiorità morale.
A livello distrettuale, il rappresentante del governo era chiamato esattore ed esercitava il potere di un principe. L’esattore e il suo personale inglese difficilmente hanno mai imparato il vernacolo. I nativi li guardavano con timore, non con affetto. L’esattore era separato da un abisso insormontabile dalla popolazione del Paese. Agli occhi di un indigeno, il funzionario inglese era un essere incomprensibile, inaccessibile, egoista, arrogante, e invincibile.
Normalmente un inglese aveva il proprio servitore, che viveva nella sua proprietà ed era una sorta di sua proprietà privata. Dopo aver trascorso abbastanza tempo in India, l’inglese si dimenticava anche solo come spazzolarsi e ripiegarsi i vestiti. Quando finalmente prendeva la nave a vapore per tornare a casa, restava interdetto nel vedere uno steward inglese chinarsi per servirgli il tè. In effetti, anni dopo, quando nell’ ambito di un’inchiesta venne chiesto agli studenti provenienti dalle colonie asiatiche e africane cosa li colpisse maggiormente riguardo all’Inghilterra, la risposta era invariabilmente il fatto di vedere uomini bianchi fare lavori manuali.
Gli inglesi stessi erano ansiosi di ammettere che ci fosse un incolmabile divario tra loro e gli indiani. «L’Oriente è l’Oriente e l’Occidente è l’Occidente, e i due non s’incontreranno mai» scrisse Kipling. «Gli indiani possono lavorare e persino vivere con te nel tuo stesso bungalow» scrisse l’indianista Herbert Compton, ma alla fin fine non c’è assimilazione tra bianchi e neri. Sono, e devono sempre rimanere, razze estranee l’una all’altra per sentimenti, simpatie, sensazioni e abitudini. Tra noi e un amico indigeno esiste un grande abisso che nessuna intimità può superare: l’abisso della casta e del costume. La fusione è assolutamente impossibile se non nel senso più superficiale, e l’affinità è fuori questione.»
Era chiaro che, per realizzare quanto prometteva, Ramanujan avesse bisogno di avere gli inglesi saldamente al suo fianco, che questi fossero convinti che Ramanujan aveva qualcosa di straordinario da offrire al mondo, che comprendessero quali erano la natura e la portata del suo genio, se di genio si trattava.
D’altra parte già da qualche tempo in molti avevano avvertito Ramanujan del fatto che nessuno in India lo comprendesse, che lì non sarebbe stato in grado di trovare la preparazione e l’incoraggiamento di cui aveva bisogno, e che avrebbe dovuto, invece, mandare lettere a Cambridge, o da qualche altra parte dell’Occidente, per chiedere aiuto. Gli eventi avevano cospirato per dirgli che, in effetti, era troppo bravo per la matematica indiana, e che sarebbe stato ascoltato con maggiore cognizione di causa dai matematici europei. L’India distava dall’Europa un quarto di circonferenza terrestre, ma la posta era economica, affidabile e, molto prima che la posta aerea accorciasse le distanze, sorprendentemente veloce: la gente brontolava se le lettere per l’Inghilterra impiegavano più di due settimane. E così, tra la fine del 1912 e gli inizi del 1913, Ramanujan si rivolse alla corrispondenza internazionale. Cominciò a scrivere lettere e le inviò a importanti matematici dell’Università di Cambridge, accludendo alle lettere esempi del suo lavoro.
Scrisse a H.P. Baker, che aveva ricevuto una lunga serie di alte onorificenze, incluso il titolo di membro onorario della Royal Society, e che era stato presidente della London Mathematical Society fino a due anni prima. Poteva Baker offrirgli aiuto o consigli?
Fatto sta che Baker disse di no!
Scrisse a E.W. Hobson, matematico altrettanto eminente, anche lui membro della Royal Society, e titolare della cattedra sadleriana di matematica pura di Cambridge.
Anche Hobson disse di no!
Il 16 gennaio 1913 Ramanujan scrisse a un altro matematico di Cambridge, G.H. Hardy, che a trentacinque anni, di un’intera generazione più giovane rispetto agli altri due, stava già chiamando all’ascolto il mondo matematico dell’Inghilterra. Hardy poteva aiutarlo?
E Hardy disse di sì!
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