G.H. Hardy era uno dei matematici più eminenti della sua epoca. Fra i non appartenenti alla comunità matematica è noto per la sua “Apologia di un matematico”. Si tratta della dichiarazione d’amore di un grande matematico per la disciplina cui ha dedicato la vita. Libro di culto per tutti i matematici, l’Apologia è intessuta di humor, logica e malinconia: anche quando l’autore sembra conversare di cricket o di scacchi, della giovinezza o della vecchiaia, o quando racconta un teorema, il lettore viene sempre reso magicamente partecipe dell’intimo piacere che solo la creazione può dare. Graham Green ha scritto che «l’Apologia di un matematico» è, insieme con i «Taccuini» di Henry James, la descrizione più riuscita di cosa significhi essere un “artista creativo”. Delle cento pagine che compongono il libro soltanto la seconda metà è occupata dall’Apologia di Hardy. La prima metà è costituita dalla prefazione del suo amico Charles Snow che tratteggia uno splendido ritratto di Hardy e del mondo accademico universitario dell’epoca.

Snow ricorda qui le celebri collaborazioni che influenzarono tutta la vita di Hardy; quella con J. Littlewood e quella con Ramanujan, tanto che Hardy stesso scrive nell’Apologia: «Il momento più decisivo della mia carriera arrivò dieci o dodici anni più tardi, nel 1911, quando iniziai la mia lunga collaborazione con Littlewood, e nel 1913, quando scoprii Ramunajan. Tutto il mio miglior lavoro da allora è stato legato a loro, ed è innegabile che la collaborazione con loro sia stato l’avvenimento decisivo della mia vita. Ancor oggi, nei momenti di depressione, quando sono costretto ad ascoltare della gente pedante e presuntuosa, mi dico «Beh, io ho fatto qualcosa che voi non sareste mai stati capaci di fare: ho collaborato con Littlewood e Ramunajan su un piano quasi di parità». «È a loro che devo una maturità insolitamente tardiva: ho dato il meglio di me un po’ dopo la quarantina quand’ero professore a Oxford». Hardy rivela, inoltre, la presa che Ramanujan aveva avuto su di lui: «Devo più a lui» scrisse «che a chiunque altro al mondo con una sola eccezione [Litlewood ?] e la mia collaborazione con lui è l’unica vicenda romantica della mia vita»[i].

Certe volte, a sentirlo parlare dei suoi amici, si aveva l’impressione che si sottovalutasse. Toccherà agli storici della matematica determinare la posizione precisa di Hardy, c’è però un aspetto – sc rive Snow – che lo pone al di sopra di Einstein o di Rutherford[ii] o di qualunque altro genio: la sua capacità di trasformare ogni opera dell’intelletto, importante o no, o addirittura puro e semplice gioco, in un’opera d’arte[iii].

Sulla scoperta di Ramanujan Hardy non faceva misteri. È una storia ammirevole, che torna a onore di tutti i protagonisti (con due sole eccezioni, i due eminenti matematici che cestinarono le lettere di Ramanujan).

Veniamo al si di Hardy. Una  mattina, all’inizio del 1913, tra le lettere che lo attendevano sulla tavola della prima colazione, trovò una grossa busta sgualcita, ornata di francobolli indiani. Aprendola, vide dei fogli tutt’altro che nuovi, coperti riga dopo riga di  simboli, in una grafia non inglese. Li sbirciò senza entusiasmo. A quell’epoca, a soli trentasei anni, era un matematico di fama mondiale e i matematici di fama mondiale, lo sapeva per esperienza, sono particolarmente presi di  mira dagli eccentrici. Era abituato a ricevere manoscritti  di sconosciuti che volevano dimostrare la saggezza profetica della Grande Piramide, o la giustezza dei Protocolli dei  Savi di Sion, o i crittogrammi inseriti da Bacone nelle opere teatrali di Shakespeare. Perciò Hardy ne fu soprattutto infastidito. Diede una  scorsa alla lettera di accompagnamento, scritta in un inglese zoppicante e firmata da un indiano sconosciuto che  domandava il suo parere su quelle scoperte matematiche.  Il manoscritto conteneva dei teoremi, che sembravano  nella maggior parte avventati o fantastici; per di più un  paio di teoremi già arcinoti erano dati come originali.  Non c’erano dimostrazioni, di nessun genere. Hardy non  era solo infastidito, era anche irritato. Aveva l’impressione  di avere a che fare con una curiosa specie di imbroglio.  Mise da parte il manoscritto, e riprese la sua solita routine. La quale ebbe termine, come al solito, verso il tardo pomeriggio, quando tornava nel suo alloggio al Trinity. Quel giorno, però, benché l’impiego del  tempo fosse rimasto immutato, in un cantuccio della sua mente il manoscritto indiano  lo assillava. Teoremi pazzeschi. Teoremi quali lui non  aveva mai visto né immaginato. Un ciarlatano che si spacciava per genio? Una domanda gli si andava formando  nella mente, e siccome era la mente di Hardy, la domanda  andava formandosi con la nitidezza di un epigramma: un  ciarlatano che simula il genio è più verosimile di un genio matematico sconosciuto? La risposta, evidentemente,  era negativa. No, non era verosimile. Di ritorno all’appartamento al Trinity, diede  un’altra occhiata al manoscritto. Comunicò a Littlewood  (probabilmente mandandogli un biglietto, certamente  non per telefono che, come tutte le invenzioni meccaniche, comprese le penne stilografiche, gli ispirava una profonda diffidenza) che aveva bisogno di parlargli dopo cena.

Finita la cena, può darsi che il colloquio abbia subito  un leggero rinvio. In ogni modo,  verso le nove, erano da Hardy, col manoscritto steso davanti a loro. È una di quelle occasioni a cui si vorrebbe essere presenti. Hardy, col suo miscuglio di lucidità impietosa e di  spavalderia intellettuale (era molto inglese), e Littlewood, fantasioso, energico, spiritoso. A quanto pare non impiegarono  molto tempo. Prima di mezzanotte avevano capito, e capito senza ombra di dubbio, che l’autore di quei manoscritti  era un uomo di genio. Fu tutto quello che potevano stabilire, per quella notte. Solo più tardi Hardy giudicò che in  termini di genio matematico naturale, Ramanujan era della classe di Gauss e di Eulero ma, a causa delle lacune nella sua istruzione e perché era arrivato troppo tardi sulla  scena della storia della matematica, non poteva aspettarsi  di fornire un contributo di pari portata.

Sembra tutto ovvio, esattamente il tipo di giudizio che  ci si aspetta da dei grandi matematici. Ma ci  furono due persone che non uscirono con onore da questa  storia e che per cavalleria Hardy ha sempre tenuto nascoste in tutto quello che ha detto o scritto su Ramanujan. Comunque, il giorno seguente, Hardy entrò in azione. Aveva deciso che si doveva far venire Ramanujan in Inghilterra. I soldi non erano il problema principale. Il Trinity era sempre stato generoso nell’incoraggiare talenti  non riconosciuti (il college fece la stessa cosa per Kapitsa[iv] alcuni anni dopo). Una volta poi che Hardy avesse  preso una decisione, nessun mezzo umano avrebbe potuto  fermarlo; ma questa volta ci fu bisogno di una buona dose di aiuto soprannaturale.

Si scoprì che Ramanujan era un povero impiegato che viveva a Madras con la moglie, con uno stipendio di  venti sterline all’anno. Ma era anche un bramino che seguiva in modo particolarmente rigido i precetti e  che sua madre era ancora più rigida di lui. Per un indù ortodosso, e Ramanujan proveniva da una famiglia profondamente ortodossa, recarsi in Europa o in America costitutiva una forma di contaminazione, che avrebbe comportato l’esclusione dalla casta. Il che significava non essere più accolto in casa da amici e parenti, non poter più trovare una nuora o un genero, non poter più ricevere visite della figlia sposata senza che lei stessa rischiasse la scomunica. Era questo il truce significato della parola intoccabile nella vita di ogni giorno. Fu il destino toccato venticinque anni prima a Gandhi, che si recò in India per completare la propria istruzione.  Ma Ramanujan non era tipo da ribellarsi, da infrangere il divieto di sua iniziativa. Perché andasse in Inghilterra avrebbero dovuto entrare in gioco possenti forze esterne. Per fortuna sua madre aveva  il più profondo rispetto per la dea Namagiri di Namakkal. Una mattina fece un annuncio sorprendente. Quella notte aveva fatto un sogno: aveva visto suo figlio  seduto in una grande sala in mezzo a un gruppo di europei e la dea di Namakkalle aveva ordinato di  non intralciare la strada che avrebbe portato suo figlio  a realizzare lo scopo della sua vita.

Quando si stabilì al Trinity – che dopo quattro anni lo  nominò fellow – Ramanujan non si concedeva nessuna gratificazione. Hardy lo trovava in camera sua, vestito ritualmente col pigiama, miseramente intento  a friggere in padella dei legumi.

Il loro fu un rapporto di collaborazione strano e  commovente. Hardy non dimenticava di essere  in  contatto con un genio; ma di un genio che, anche in matematica, era del tutto incolto. Ramanujan non aveva potuto  entrare all’Università di Madras, perché all’ammissione  non aveva superato l’esame di inglese. A detta di Hardy,  era sempre cordiale e conciliante ma, sicuramente, la conversazione con Hardy, al di fuori dei temi matematici, doveva lasciarlo a volte piuttosto sconcertato. Anche nell’ambito della matematica, dovettero superare le loro profonde differenze culturali. Ramanujan era un autodidatta e non sapeva nulla del rigore  moderno: in un certo senso non sapeva che cosa fosse una  dimostrazione. In un momento di stupido sentimentalismo, insolito per Hardy, egli scrisse che se Ramanujan  fosse stato più istruito, sarebbe stato meno Ramanujan.  Ritrovato il senso dell’ironia, più tardi si corresse dicendo  che l’affermazione era insensata. Se Ramanujan fosse stato  più istruito, sarebbe stato ancora più straordinario di  quanto già non fosse. Hardy dovette insegnargli una parte  di matematica informale, come se Ramanujan fosse un  candidato per una borsa di studio al Winchester. Disse  poi che questa fu l’esperienza più singolare della sua vita:  che effetto faceva la matematica moderna a un uomo che  malgrado la sua profonda capacità di intuizione, letteralmente non ne aveva quasi mai sentito parlare?

In ogni modo, produssero insieme cinque lavori di altissima qualità, in cui Hardy diede prova di una grande  originalità personale. (Si conoscono meglio i particolari  di questa collaborazione che non di quella tra Hardy e  Littlewood.) La generosità e l’immaginazione, una volta  tanto, furono pienamente ricompensate.

Questa è una storia di umana virtù. Chi aveva cominciato a comportarsi bene, continuò a comportarsi sempre  meglio. L’Inghilterra diede a Ramanujan tutti gli onori possibili. Fu eletto fellow della  Royal Society a trent’anni (il che, anche per un matematico, è molto presto). Anche il Trinity lo elesse fellow nello  stesso anno. Fu il primo indiano a ottenere entrambi i riconoscimenti, e ne fu amabilmente grato. Ma presto si  ammalò. Ed era difficile, in piena guerra, trasportarlo in  un clima più mite.

Hardy andò spesso a trovarlo, mentre si stava spegnendo nell’ospedale di Putney. Fu in una di queste visite che  accadde il seguente l’episodio. Hardy era andato  a Putney in taxi, il suo mezzo di trasporto preferito. Entrò  nella stanza di Ramanujan e gli disse come prima osservazione: «Mi pare che il numero del mio taxi fosse 1729. Mi sembra un numero piuttosto insulso.» Al che Ramanujan replicò: «Ma no Hardy! Ma no! È un numero molto interessante. È il più piccolo numero esprimibile come somma di due cubi in due modi.»[v]

Tornato a Madras, Ramunajan morì di tubercolosi, due anni dopo la fine della guerra (1920). Come scrisse Hardy nell’Apologia: «Galois è morto a ventun anni, Abel a ventisette, Ramanujan a trentatré, Riemann a quaranta … Non conosco un solo esempio di una grande scoperta matematica che sia dovuta a un uomo di più di cinquant’anni». Se non ci fosse stata la guerra con Ramanujan, il periodo della guerra sarebbe stato più buio per Hardy.

Ramanujan aveva arricchito la vita di Hardy e Hardy non voleva dimenticarlo e non lo fece. Il libro da cui traggo queste informazioni racconta tante occasioni in cui Hardy, nel resto della sua vita, ha ricordato l’amico e lascia tante tracce che consentirebbero di raccontare altrettante favole.

Concludo riferendo della lezione che Hardy tenne ad Harvard in occasione del terzo centenario della fondazione di quella grande università. Intervennero oltre duemila cinquecento studiosi su vasti settori del sapere, tra cui non meno di undici vincitori di Premi Nobel. Intellettuali a Harvard titolò  «Time», mentre il «New York Times» pubblicò la cronaca di alcune conferenze pubbliche, inclusa quella di Hardy.

«Per  queste conferenze» iniziò a dire «mi sono assunto un compito che è sinceramente difficile e che, se fossi deciso a cominciare scusandomi per l’insuccesso, potrei definire quasi impossibile. Devo formulare per me stesso, dato che non l’ho mai fatto veramente prima, e cercare di aiutare voi a formulare, una sorta di ragionata valutazione della figura più romantica della storia recente della matematica, un uomo la cui carriera sembra piena di paradossi e contraddizioni, che sfida quasi tuti i canoni secondo i quali siamo abituati a giudicarci l’un l’altro e sul quale tutti probabilmente concorderemo in un unico giudizio: che fu per certi versi un grandissimo matematico».

Poi Hardy, con il ricordo ancora vivo di quel giorno di venticinque anni prima, quando una busta zeppa di formule era arrivata con la posta dall’India, iniziò a parlare del suo amico, Srinivasa Ramunajan.

Fonti:

La breve vita di Srinivasa Ramunajan, così come raccontata da Rabatana,  è il frutto della lettura di due libri:

Robert KANIGEL, «L’uomo che vide l’infinito – La vita breve di Srinivasa Ramanujan, genio della matematica», Milano, RCS, 2014, pp. 541

Godfrey H. HARDY, «Apologia di un matematico» – I Coriandoli di Garzanti, 1989, pp. 109.

[i]  G. H. Hardy, Ramanujan, Cambride University Press, 1940

[ii] Ernest Rutherford chimico e fisico neozelandese considerato il padre della fisica nucleare

[iii] Charles P. Snow, Prefazione all’Apologia di un matematico di G.H. Hatdy, p.14

[iv] Pëtr Leonidovič Kapica, fisico sovietico emigrato in Inghilterra

[v]  1729 = 13 + 123 = 103 + 93. Incredibile!

 

 

One Response to Favola di un genio matematico indiano – [ 5, fine ] Apologia della matematica

  1. Mery Carol ha detto:

    Il mio commento giovanile sarebbe stato: “Fissato!”.
    Commento di oggi: “Genio!”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.