IV

 

IL NIBBIO VOLA PIU’ ALTO

È sceso il nibbio dall’altopiano di Santoiaso, un luogo sacro per la comunità di Montemurro. Presenza familiare, scivola lungo i tetti delle case, va misurando il cielo con passaggi a volte rapidi, a volte sospesi. Seguo le evoluzioni del rapace a caccia di uccellini erratici dalla collina Cifalupo dove i vasai di Montemurro ricavavano l’argilla per modellare le cùccume, i mattoni, le anfore per l’acqua.

Il cielo è rigato di nuvole che seguono un vento carezzevole e l’uccello, padrone del campo, si muove a suo agio.

“Il nibbio vola più alto”, sosteneva Sinisgalli, e ci ricordava che lui era partito nibbio e che nibbio voleva rimanere. “Continuerò a volare, e spero alto, e sempre con l’aggressività del nibbio che se vede un coniglio da mille metri, giù, negli arbusti, si butta e in un attimo lo afferra e se lo porta in cima alla montagna”.

Lo diceva divertito, con quell’aria sorniona che sconcertava chi lo incontrava per la prima volta.

Con l’irrequietezza del nibbio sta ora lottando l’operatore, l’occhio incollato alla telecamera. Tormenta lo zoom per poterlo stringere il più a lungo nel primo piano e brontola quando l’uccello, dal volo imprevedibile, si mette fuori campo, si confonde con le nuvole.

I “mannaggia!” si sprecano.

Per passione, ma pure per professione, ha consegnato alle immagini, storie, personaggi, feste e sagre popolari degli ultimi trent’anni di Montemurro. Non ha dovuto faticare molto per convincermi a seguirlo per questa “caccia” al nibbio insieme con l’amico medico che vent’anni prima, studente, si considerava un privilegiato quando poteva accompagnare Sinisgalli nelle passeggiate lungo la strada del Carmine, “la strada dei valloncelli”, che portava alla discarica, il regno di Domenico, il netturbino comunale: trasportava i rifiuti con un furgone tappezzato di fotografie pornografiche. Durante le vacanze estive Domenico invitava Leonardo a salire con lui sull’altipiano, all’alba, nel furgone zeppo di immondizia, per vedere sorgere il sole sul Pollino e per contemplare, in basso, la dolce valle dell’Agri.

“Si facevano lunghe passeggiate anche sulla strada che porta al cimitero. Parlava quasi sempre lui, anche dei pettegolezzi che nascevano in paese. Era di rigore una sosta sotto gli ulivi, e lui tirava fuori un’agenda o un quaderno, e cominciava a disegnare”. Vuole comunicarmi emozioni il medico, descrive, con interessanti particolari, anche i miei incontri con Leonardo.

“Durante un’intervista alla radio – lo ricordo perfettamente – dichiarò con orgoglio che aveva fatto scuola e che aveva scritto versi che non si scrivevano da tantissimi anni. A me venne in mente Orazio. Tu gli chiedesti: quale poesia scriverai ancora? Somiglierà all’ultima, ti rispose, all’ultima che ho scritto ieri. E aggiunse: la poesia non fa salti”.

Stupito per tanta partecipazione e tanto zelo, aggiungo che con Leonardo c’era anche da lottare, sempre, su qualsiasi opinione. Raramente era incerto, anzi rifiutava la malinconia del dubbio che assai di frequente (“ma per posa” diceva) tormenta l’intellettuale. Quando parlava di Montemurro lo assaliva la paura della smemoratezza. Anche lui aveva le sue perplessità, i suoi dubbi ma era così abituato a questo paese, a questa gente che non sapeva mai da dove cominciare, non per ricordare, certo, ma per fare finalmente il punto. “Quando torno per qualche giorno a casa mi siedo e non mi muoverei piú”. Questo lo diceva in privato. In pubblico cadeva frequentemente in contraddizione, perchè voleva stupire, gli piaceva provocare.

Frattanto il nibbio, che non si concede a lungo allo spettacolo, con una improvvisa giravolta si è sottratto alla vista, e qualcosa di strano, direi proprio di magico, si associa adesso all’immagine di Leonardo che sono venuto a rivedere nel suo universo poetico, col segreto proposito di curiosare nel suo tempo e nel suo passato, nei suoi privilegi umani e intellettuali, nei suoi capricci e nelle sue ansie e, perchè no?, nei suoi rimpianti.

Secondo Leonardo, un vero amico, quando entra nel mondo privato dell’altro, ed è consapevole della parsimonia del padrone di casa, deve passare inosservato. E chi, come me, ha avuto il privilegio di frequentare la sua casa, è confortato dalla convinzione di essere stato ricevuto senza sospetti. Perchè vi entrava come l’amico che difficilmente passava inosservato, e con il godimento del cronista che andava a registrare i suoi umori di poeta tumultuoso, eccentrico, geniale. Non riusciva a darsi ragione della “eccessiva” riservatezza dei suoi paesani nei suoi confronti, soprattutto quando rimetteva piede in paese. E pur vero che alla sua porta poche persone si sentivano sollecitate a bussare.

Sul corso Garibaldi, il lungo budello che sale verso la piazza del municipio, resta la sua casa. Affronto, sperando di farcela fino in fondo, a piedi, la strada in salita per poter rintracciare il tempo innamorato di Sinisgalli, gli episodi più significativi della sua vita scritti o raccontati nei frequenti incontri conviviali: dal ricordo del maestro che lo incoronò poeta davanti ai compagni di scuola “con un serto di salici / nell’aula gelida del convento” allo strazio delle prime partenze, alla rassegnazione degli ultimi ritorni.

In una intervista espresse il desiderio che sulla facciata della sua casa, davanti alla quale ci ritrovammo in una giornata uggiosa di dicembre, venisse incisa “a caratteri forti” la poesia del battimuro, come la chiamava in rispetto della liturgia popolare. E quella volta, in mezzo alla strada, la poesia, che era già stata tradotta in diverse lingue, cominciò a recitarla davanti a un gruppetto di ragazzi stupiti: “I fanciulli battono le monete rosse / Contro il muro. (Cadono distanti / Per terra con dolce rumore). Gridano / A squarciagola in un fuoco di guerra. / Si scambiano motti superbi / E dolcissime ingiurie. La sera / Incendia le fronti, infuria i capelli” …

Sugli ultimi versi la memoria lo tradì. Non nascose il suo disappunto. Ma cinepresa e microfono, puntuali, registrarono.

Al numero 44 di corso Garibaldi ho di fronte la casa di Leonardo. Si affaccia a strapiombo sul fosso di Libritti, una modesta boscaglia onnipresente nei ricordi e nelle citazioni del poeta. Libritti fu, dicono, anche rifugio di briganti: ma ci vuole molta fantasia per poterlo soltanto immaginare.

Sono atteso dall’amico Giuseppe sindaco di Montemurro. È riuscito a farmi entrare, per una visita furtiva, nella casa del poeta, che si apre assai di rado: un lontano erede vive altrove. Ma il sindaco è fiducioso. Il progetto del “Parco letterario”, dopo quello di Isabella Morra a Valsinni e di Carlo Levi ad Aliano, si farà, e prevede, tra i primi impegni, l’acquisto e la destinazione a museo dell’abitazione dove nacque e visse Sinisgalli.

“La finestra della camera di Leonardo si vede dal mio giardino. Spesso lo sentivo fischiare e cantare. Ma non canticchiare o fischiettare: emetteva questi suoni a viva forza e improvvisamente. Qualche volta, vedevo lo zigzag che faceva, seduto sulla finestra, con le spalle poggiate contro uno stipite e i piedi contro l’altro. In quella stanza Leonardo ha scritto quasi tutte le sue poesie”.

Lo ricordava così, in una corrispondenza del 1953, la pittrice Maria Padula, che frequentava casa Sinisgalli. E appena rimetto piede, dopo quasi vent’anni, nel rifugio montemurrese di Leonardo, mi trovo faccia a faccia col suo ritratto, il grande dipinto a olio che la Padula gli dedicò negli anni Quaranta. Leonardo è ritratto con la camicia bianca, il colletto alto, aperto, e gli immancabili occhiali. Se Maria gli avesse dipinto addosso un caffettano bianco, bruno di pelle, nero di occhi e di capelli, com’era, ne avrebbe fatto il ritratto di un principe arabo.

I due lati dell’ingresso dell’abitazione a due piani sono vistosamente segnati dalle lapidi. A sinistra la classica epigrafe: “Qui nacque” eccetera. A destra, là dove volle la poesia del battimuro incisa su una lunga lastra di marmo grigio. Il balconcino al piano superiore appare come sospeso sul tratto in curva di Corso Garibaldi, di cui non si intuisce nè l’inizio nè la fine. Su Libritti si affacciano quattro vicoletti, “stretti e squillanti”, che tagliano il vento.

La casa ha le volte rigorosamente di legno con travi grezze di castagno. La scala che porta alla camera da letto è di pietra, “pietra di Gorgoglione”, precisa Giuseppe, “scelta personalmente dal poeta quando diresse la ristrutturazione dello stabile”. A piano terra, nell’ampio finestrone della cucina-tinello si inquadrano in alto sulla collina, la chiesa della Madonna del Soccorso, pietoso omaggio alle vittime del terremoto del 1857, e i cipressi immobili, lungo il muro di cinta del cimitero. Gianfranco Contini in visita a Montemurro nel 1982, disse che, stranamente, nel luogo dove riposa Leonardo “si sale ai morti”: troviamo una struggente conferma da questo osservatorio che nutriva giorno per giorno l’universo del poeta.

I timbri per il pane, residui di antichi riti contadini, le ciotole di legno, i mortai di pietra sparsi sulle mensole suggeriscono ricordi in questo spazio vissuto e amato anche da Giorgia, la sua compagna che ti sorride in una fotografia giovanile da una di quelle nicchie destinate una volta alle statuine dei santi.

Ma non sorridono il padre, baffuto e austero, e la madre, “la fanciulla saracena”, nei classici ovali primo Novecento; e la sfortunata sorella Sara, morta a quindici anni, ai quali dedicò una sorta di altare, commossa edicola della memoria, sulla parete di fronte al suo letto.

Il ritratto della madre è lo specchio, al femminile, di Leonardo. La luce, come in un reliquiario, “si riposa / sui ritratti”.

        Ovunque, oggetti sovrabbondanti di storie, da guardare con rispetto, magari soltanto da carezzare, come la raccolta di libri antichi rilegati in pelle. E il caso ha voluto che mi passassero sotto le dita Tacito e Orazio (presumo autori preferiti), che stanno bene qui, negli scaffali sistemati sulla schiena dei muri, nelle nicchie accanto al camino. In un angolo della scala ombrelli d’epoca con manici di madreperla e legno intarsiato. Una raffinatezza. E c’è soprattutto lui, in questo respiro di cose riposte, protette dall’ombra. Lui sapeva fissare anche la presenza degli oggetti in una composizione armoniosa, leggibile, come in un quadro d’autore. E fanno atmosfera i girasoli cotti dal tempo, dal sapore corazziniano, che intristiscono da vent’anni in un vaso di ceramica.

Rivolgendosi alla donna che ci ha consentito di entrare nella casa (una vicina, l’unica che ne ha in consegna la chiave), Giuseppe si sofferma sul fascio di origano, disseccato come i girasoli, rimasto al suo posto, sulla madia, in una brocca di rame, e sentenzia: “Di sicuro il poeta lo raccolse alle Canalette, la contrada delle sue passeggiate solitarie”. La donna lo corregge amabilmente e suggerisce Le Piane, la contrada delle vigne, dove l’origano cresce copioso anche ai bordi della strada.

Io mi guardo attorno con l’ansia e la fretta di chi vuole memorizzare ogni cosa, anche il più piccolo particolare. Sono tornato in questa casa, amaramente vuota, “come un ladro”, a rubare emozioni.

Là fuori c’è il paese che parla con rispetto, ma non sempre con simpatia, del suo poeta-ingegnere, un poeta affascinante, e regista sapiente delle sue abitudini di vita, delle sue bizzarrie. L’ammirazione per se stesso era visibile, e vivibile, per chi aveva il privilegio di poterlo frequentare. Leonardo sapeva di essere unico: un biglietto da visita di cui si compiaceva.

“Importante com’era, non ha mai fatto nulla per Montemurro” si lamentano ancora oggi alcuni anziani del paese che confondevano il poeta col politico di turno. Nella casa mi muovo con riguardo tra credenze, madie e tavoli antichi che sanno farsi compagnia. Un raggio di sole smorto filtra da un finestrino, mi porta a curiosare nel gabinetto. “Anche la latrina / ha una piccola finestra / che inquadra le croci sulla collina”. Sono versi d’addio in “Dimenticatoio”. Lo specchio sul lavandino rimanda la mia immagine. “Dopo una certa età, ogni uomo è responsabile della sua faccia” sentenziava Camus. E per la prima volta avverto come un insulto i segni del tempo trascorso dal 15 agosto 1980, quando incontrai Leonardo sotto un albero di acacia, alla luce della luna, nella piazza di Castronuovo Sant’Andrea, a cavallo tra le valli dell’Agri e del Sinni.

Davanti a una folla di amici, di contadini e di zampognari scesi dalle montagne, ci parlammo a cuore aperto, un incontro memorabile. Immerso in un’aria di beatitudine, Leonardo si mostrò disponibile a tutto, anche all’ironia. E anche quella volta, l’ultima, purtroppo, telecamera e microfono, puntuali, registrarono. A sorpresa, approfittando della curiosità di Giuseppe, che è sempre alla ricerca di tracce inedite e originali su fatti e personaggi che appartengono alla storia del suo paese, metto in funzione un piccolo registratore che porto sempre con me. Con la sua voce, che non ammetteva esitazioni, Leonardo, come per incanto, torna padrone della casa. E ci zittisce.

“Sono venuto a Castronuovo Sant’Andrea per una bizzarria, una bizzarria di un mese bizzarro qual è il mese di agosto. Io non ci pensavo affatto. Me l’aveva detto già Peppino Appella a Roma ma, così, con quell’aria che hanno tutti i lucani di dire delle bugie. Poi, invece, due o tre giorni fa, mi vedo chiamato, mi vedo fissato un appuntamento. Allora, ti dirò, è tale la noia di stare a Montemurro che io mi aggrappo a qualunque sterpo che mi si offre nelle mani”.

“Ma Montemurro, scusa, non è il paese dove sei nato, il paese dell’infanzia, della memoria, della sollecitazione poetica? Non è la tua Itaca domestica?”.

       “Mi piace questa tua provocazione, ma non m’importa niente. Sono delle ombre e io non voglio più incontrarle”.

“Dunque, ti fanno paura le ombre”.

“Non mi fanno paura, mi fanno ombra. E io non mi voglio ricordare di quel ragazzo geniale che ero. Ora c ‘è un uomo anziano che combatte contro questo sosia, che era abilissimo, e non lo vuol vedere più, lo disturba come un moscone”.

       “Si, però questo ragazzo, o il sosia di quel ragazzo torna in un paese a leggere in piazza le sue poesie. Non va in una città, va invece in un paese, un luogo unico, che però non è il suo, non è il paese dov’è nato. Allora: Nemo propheta in patria?”.

“Sarà. Ma tu sai che noi amiamo la mela che è appesa sull’albero del vicino. A Montemurro a me non passerebbe mai per la testa di mettermi a leggere dei versi in piazza. Mi è venuto l’invito da due amici cari come sono gli Appella: da Paolo, che ho conosciuto ventisei anni fa quando mi portò il primo articolo per “Civiltà delle macchine” e mi diede in regalo una cornamusa, a Peppino, col quale facciamo lo stesso mestiere, siamo diventati tutti e due galleristi. E a loro non ho potuto dire di no. Siccome l’impresa è nuova, la loro, io verso le imprese nuove mi ci butto”.

“E loro, gli abitanti di Castronuovo, come li hai sentiti dopo questa bella trovata del grande poeta in piazza?”.

“Li ho sentiti, anche dalle dediche che mi hanno fatto firmare, molto più in buonafede dei miei paesani, che sono delle lenze spaventose. Si può dire che i miei paesani sono degli espatriati in paese. È gente che quando va fuori, là trova la patria vera. Un po’ come ho fatto io. E tornano da forestieri”.

“Senti Leonardo, ma devo proprio farle conoscere queste tue dichiarazioni che, passando di bocca in bocca, potrebbero trasformarsi anche in maldicenza?”.

“Ma si, è una battuta polemica, e la polemica è bella. Adesso poi, tutti dicono: “Come sei diventato buono, come sei cambiato, che cosa è successo?” Meno male che c’è stato questo mutamento mio di carattere… “.

“Sarà vero? Hai lo sguardo di chi si sforza di essere virtuoso”.

“Sarà pure vero, ma, con tutto ciò, non è che io vado pazzo per i montemurresi”.

“Ma ti fa ancora impazzire la poesia?”. “La poesia è soprattutto consolazione. Sono tre o quattro anni che non faccio altro che scrivere e disegnare, leggere scrivere e disegnare. Disegno i luoghi prediletti, gli amici, i poeti. Mi faccio l’autoritratto. Ma pure questa, ed è una cosa che tu pure hai scritto, la faccio ormai come uno che va in laboratorio e fa le sue ricerche sui raggi cosmici, la faccio come una scienza ormai, con risultati non così vistosi come li avevo una volta perchè avevo meno controllo. Adesso io sono il controllore di me stesso. Siccome sono un terribile critico, naturalmente tutto è un po’ difficile e stentato. Ma come tu sai ho trovato rifugio in questo disegnare, che va bene. È un continuo, come mia madre quando faceva la calza. E finiamola una buona volta di guardare a Sinisgalli come a un triangolo equilatero, a un teorema, a un’operazione algebrica”.

“Però ti fai chiamare ingegnere”.

“Ma perché quella, per il borghesismo della nostra società, è una vera professione che lascia tracce. La poesia non lascia traccia se non nella scrittura. E la scienza del momento, la scienza dell’inesistente. L’ho già detto, la poesia è soprattutto consolazione”.

“Ma pensi, una volta o l’altra, di sistemarti – e la parola acquista un significato molto più vasto – a Montemurro?”.

“No, io non penso di tornare in paese. Io voglio morire in città, io amo molto la città. E l’altro lato di me che stasera ho tenuto nascosto. Io stasera ho dato il lato mio innocente e gentile. Poi c’è l’altro lato, protervo e arrischiato. Io ho accettato le macchine, dalla rivista “Pirelli” del ’48, che mi impegnò come poeta-ingegnere teso verso l’armonia delle due culture, a “Civiltà delle macchine”; io voglio stare con le cose che non piacciono molto, voglio stare con le cose difficili”.

“Ma allora rinunzi a quel senso di appartenenza che ha pervaso le tue poesie, rinunzi al paese?”.

“Ti dirò che la solitudine in paese è più grave che non in città. In città uno esce e vede la gente, si scontra con la città dove ho piantato i picchetti per circoscrivere il mio regno, la mia riserva. Nella mia casa romana di via Sassoferrato io non ho più bisogno di allontanarmi dalla scrivania. Vedo la linea retta del mio davanzale, il fusto sottile della palma che oscilla come un pendolo alla rovescia davanti all’Ambasciata di Bulgaria in via Rubens, il fico contorto a ridosso del muro di cinta dell’Ambasciata polacca… Qui esco di casa e me ne vado tra i campi, trovo altra solitudine da aggiungere a quella che già ti dà il paese”.

“Non farci intendere che ti consideri o, peggio, che ti senti vecchio”.

“Tutti mi trovano ringiovanito. Ma quando si dicono queste cose è un brutto segno. È meglio che non ti dicano niente”.

Un applauso caloroso conclude l’intervista nella piazzetta di Castronuovo Sant’Andrea, sotto l’albero di acacia: il piccolo registratore l’amplifica. Giuseppe, piuttosto turbato per gli apprezzamenti del poeta, accoglie quell’applauso come una liberazione.

“Quest’intervista sarà meglio non farla sentire più a Montemurro” dice, mentre usciamo dalla casa.

Pure da morto Leonardo non ha rinunziato al piacere della provocazione.

“Risorgerò fra tre anni o tre secoli, tra raffiche di grandine nel mese di giugno”. L’epigrafe, che si scrisse da vivo, puoi leggerla e interpretarla come un salmo sulla lapide di marmo nella cappella di famiglia accanto ai loculi dei genitori, degli zii amati e ricordati nei racconti. Il concerto di famiglia è al completo, col fratello Vincenzo, vissuto in controcanto nella sua orbita, e con Vincenzo Lacorazza, il cugino fedele, onnipresente al suo fianco, che anche da morto lo guarda (forse, chissà, lo ascolta), e continua ad ammirarlo.

La tomba di Leonardo, una sorta di sarcofago, è al centro della cappella.

Il cimitero di Montemurro mi è familiare già da quella mattina di febbraio del 1981 quando accompagnai il poeta alla sua ultima dimora, dopo averlo commemorato sul sagrato della chiesa di Sant’Antonio, tra i bambini della scuola elementare infreddoliti accanto alla bara che venne portata a spalla lungo i tornanti della rotabile dai giovani del paese.

Spio dal cancello del piccolo sacrario, mi trovo davanti una famiglia di defunti in misteriosa conversazione fra loro attraverso le epigrafi, i ritratti datati “al tempo delle vespe d’oro”, l’infanzia del poeta. Da una foto in bianco e nero, più generosa delle tradizionali immagini funebri, bene in evidenza sul suo altare laico, mi cattura l’aria insofferente di Leonardo. Davanti a una tomba si arriva sempre impacciati, quasi a dover chiedere scusa per le assenze. Ed è quel che faccio, per poter aprire un dialogo (immaginario) col poeta.

Sono solo nel cimitero, e penso di sentirmi al sicuro con i miei ricordi.

Mi rimuove l’attenzione un respiro affaticato, ineguale. Mi incuriosiscono dei sussurri come di preghiere biascicate. “Sei venuto a fare compagnia al poeta?”

È una donna che mi parla, una donna molto anziana, con lo scialle nero sulla testa. Viene verso di me con estrema lentezza. Mi saluta, ci salutiamo. “Passo tutti i giorni da queste parti e non lo trascuro mai” dice, con la parlata dialettale che conosco. Si ferma qualche attimo per togliersi l’affanno e riparte per la visita quotidiana ai defunti. Si muove in devozione, come se stesse in una chiesa zeppa di statue di santi nelle nicchie. Alcuni morti li chiama per nome. Ad altri dona, da lontano, la tenerezza di un bacio sulla punta delle dita. Davanti a una lapide il suo affanno si tramuta in sospiro, è come un lamento che avverto distintamente: è, di sicuro, un morto che le appartiene. Scompare come un’ombra in fondo al vialetto dietro all’ultima fila di cipressi.

Ora sono veramente solo con Leonardo, il mio poeta preferito del quale conservo, come reliquie, incisioni, acquerelli e tanti libri a me dedicati.

Mi scopro visionario in quest’ora esausta. Mi pare di avvertire nell’aria una specie di sortilegio, di ascoltare una voce senza materia da un mondo separato. È un segno, dico, il segno di qualcosa che sta per accadere.

E c’è tanto da dire in questo momento, che solo un attimo d’incertezza o d’incredulità potrebbero negarmi un colloquio. Assisto, insomma, a una fulminea resurrezione.

Nel ritratto in bianco e nero gli occhi di Leonardo brillano di una luce allarmante: il riverbero del sole al tramonto – ma è sole malato – provoca questi effetti, fa di questi scherzi. Gli parlo di Montemurro, che ho appena rivisitato. Con tono insinuante gli dico di averlo ritrovato, oltre che “dentro il cerchio d’orizzonte che ho esplorato minuziosamente dalla sua finestra”, sotto i platani della piazza dove visse in allegrezza l’infanzia. Lo vedo tra i vicoli con le larghe lastre di selce, strettoie ideali per giocare a moscacieca; alla contrada Le Piane dove andava a caccia di nidi di cardellini nel mese di agosto, e si nascondeva insidioso tra i filari della vigna: “Allora s’andava scalzi /per i fossi / si misurava l’ardore / del sole dalle impronte / lasciate sui sassi”. La citazione non è certo a sproposito. Leonardo si fa impaziente, almeno a me sembra. L’ombra di una nuvola copre per qualche istante la luce residua del pomeriggio. Anche l’aria che si respira è carica di suggestioni. Misto rivolgendo a lui col tono di chi. sente di poter compiere un’azione straordinaria. E come muoversi in controluce nella sua e nella mia memoria.

Ed è proprio la memoria che sostiene il mio ruolo di interlocutore privilegiato.

Quando venni la prima volta a Montemurro niente vidi che non avessi già visto leggendo poesie e racconti.

Mi sembrò d’esserci vissuto una vita intera. E ora non riesco ad eludere certe riflessioni che rientrano nel dominio dei ricordi.

Sento che non bisogna tradire quest’ora che sta scorrendo fuori del tempo ordinario, mentre posso intrattenermi col suo spirito a parlare anche di paesi, di storie che ci appartengono e ci accomunano: Montemurro, la Valle dell’Agri, Tricarico, paesi dalle note cadenze. Nel dorato esilio romano, dove si offriva con rara parsimonia, non potevo intenderlo come lo intendo qui: “Son qui stasera / dietro la ragnatela / che difende il tuo trono: / ogni stella è meno di niente, / una stella lucana lucente”.

Con la poesia anche il passato si precisa. È stato esaltante, malgrado tutto, malgrado le sue provocazioni sotto l’albero di acacia, ritrovarlo pacificato nel suo paese. Non a caso aveva deciso (e segretamente desiderato), di venire a riposare qui dove non si è nè soli nè persi, qui dove non si è mai defunti. Lui ha detto: “Qui dentro, tra queste mura, non si dovrebbe morire mai. Forse non si muore mai qui”.

Con la luce che va e viene variano anche le espressioni sul volto di Leonardo: insofferente, o anche irridente, appare adesso imbronciato, gli occhi come sommersi dietro gli occhiali.

Non ha ancora dimenticato questo mondo? Non si è ancora rassegnato? Mi chiedo, tra stupore e compassione, ben sapendo che i morti hanno un modo implacabile di farsi rimpiangere.

Provvidenziale arriva Giuseppe. “Le contraddizioni del poeta… ” dice a bassa voce, di sicuro per rispetto al luogo. Esita un istante mentre fa scorrere la mano sui fregi del cancello. Poi, con voce più sostenuta, riprende: “Parlava male del paese, criticava i suoi compaesani, e lo faceva, a sentir lui, per stimolarli ad essere più intraprendenti. Dichiarava di voler morire in città, e intanto si faceva costruire la tomba, il sarcofago come la chiami tu, da lui stesso progettata, nella cappella di famiglia… a Montemurro”.

Percorro con lo sguardo “il tetro lenzuolo” di marmo che lo nasconde: temo che Leonardo, cieco e muto fuori, dentro veggente, possa rispondere.

“Si è fermato il suo cuore” dico sentenzioso, “ma lui non ha mai finito di pensare. I morti sanno anche essere crudeli quando parlano”.

Si è levato il vento e le cime dei cipressi si scambiano saluti.

Nota di Rabatana

 ( Il titolo di questo capitolo è ispirato da una Conversazione di Mario Trufelli con Leonardo Sinisgalli nel dicembre del 1975, in Mario Trufelli, L’erbavento. Scritti vari (a cura di A. Sanchirico) Rocco Curto editore, Napoli 1997, p. 159 ss. (161).

T. Cosa vorresti diventare – prendilo come un paradosso, una boutade – una colomba, o un falco?

S. Ma io sono partito nibbio e nibbio voglio rimanere. (Ride divertito). Continuerò a volare, e spero alto, però sempre con l’aggressività di chi se vede un coniglio da tremila metri, giù, tra gli arbusti, ci si butta e in un attimo lo afferra e lo porta in cielo. Una bella lotta, come vedi. )

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3 Responses to Mario Trufelli, L’OMBRA DI BARONE – IV. Il nibbio vola più alto

  1. Mery Carol ha detto:

    Manca solo il fatidico detto: “Dai compaesani mi guardi Dio, che dai nemici mi guardo io.”

    • Antonio Martino ha detto:

      Leonardo Sinisgalli così ricorda la sua partenza per Caserta, nel 1917, finite le elementari, per andare in collegio «Partimmo, attraversammo il fiume, ci allontanammo dal confine della provincia. (Io dico qualche volta per celia che sono morto a nove anni, dico a voi amici che il ponte sull’Agri crollò un’ora dopo il nostro transito; mi convinco sempre più che tutto quanto mi è accaduto dopo di allora non mi appartiene, io sento di non aderire che con indifferenza al mio destino, alla spinta del vento, al verde, al rosso. Io so che la morte arriva all’ora prescritta; non è un’ingiuria, non è un sopruso; io so di essere stato tradito per tutta la vita uscendo fuori dalle mie dolci mura, io che non ero innamorato di carte e di stampe, ch’ero nato senza appetiti, senza fiamme nella testa, e volevo semplicemente perire dentro la mia aria. Forse siamo pochi a lamentarci di non saper più trovare una patria fuori dalle nostre colline). Poi non ricordo più». Fiori pari fiori dispari in Belliboschi, Mondadori, 1979, pp. 161-162. E’ destino di noi lucani essere trapiantati lontano con un alito.

  2. Mery Carol ha detto:

    Il destino è ancor più crudele se non riesci a dare un taglio netto al cordone ombelicale, che, seppur sfilacciato, tiene strenuamente.

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