Mario Trufelli, L’OMBRA DI BARONE – VI. L’Ombra di Barone (viaggio ad Aliano)
VI
L’OMBRA DI BARONE
Guardare il cielo con un branco di nuvole che si rincorrono in una giornata di sole e di vento, è la prima cosa che fai appena metti piede ad Aliano. Il vento risale i calanchi, scuote le cime dei possenti cipressi del cimitero, fa volare foglie, polvere e fiocchi di asfodeli, e si porta via anche i miei appunti che recupero a fatica tra il cordone di tuie che definisce la tomba di Carlo Levi. Rispetto a tanti altri sepolcri quello di Levi ha il privilegio del paesaggio. Si affaccia su un campo di ulivi che non dà tristezza. Più in là Aliano, con le sue case, con i suoi calanchi, con la sua dannazione.
Viaggiatore non estraneo a questi paesi, trovo motivi di emozione di fronte a un paesaggio spoglio dove scopri la debolezza della terra che si è lasciata corrompere e poco per volta ha ceduto isolando le case tra fossi e burroni. Ti scopri sopra una nave in disarmo, in un mare in risacca. Ma il paese ha resistito, malgrado tutto.
Sono arrivato all’una dopo mezzogiorno, in un’ora in cui è cominciato un altro silenzio, il silenzio della controra che il vento ha reso più impenetrabile. Appoggiato alla ringhiera sulla “Fossa del bersagliere”, sosta di rigore per uno sguardo al paesaggio lunare, che per i geologi ha comunque una spiegazione, sento odore di pane caldo: è aperto il fornaio per le ultime consegne.
Anche qui, come a Montemurro, si sale ai morti. E se il vento è cieco, non è cieca la memoria che mi riporta il primo incontro con Levi.
È il mese di maggio del 1946. Prime elezioni democratiche, referendum su Repubblica o Monarchia, campagna elettorale dai toni infuocati. A Tricarico arriva l’ex confinato politico, l’antifascista – scrittore, pittore e medico, come annunciano i manifesti – Carlo Levi, del quale è previsto un comizio in piazza. È candidato alla Costituente nelle liste di “Alleanza Repubblicana”, il movimento politico al quale hanno aderito anche Guido Dorso, Manlio Rossi-Doria e il pugliese Michele Cifarelli.
Da qualche mese è stato pubblicato il Cristo si è fermato a Eboli, malo hanno letto in pochi nei paesi della Lucania, e tra quei pochi c’è qualcuno che non ha gradito la denuncia dell’autore sui drammi sociali e umani della Lucania contadina, e di tutte le Lucanie sparse sulla terra. A giudizio di questi benpensanti quel libro avrebbe offeso profondamente dignità e storia della comunità lucana.
Si organizza la contestazione, in una piazza sobillata, inconscia, ignorante, anche nostalgica. I contadini presenti, nella loro cultura povera e rassegnata, ma dignitosa, non capiscono. Si mobilitano invece i commercianti, i macellai, qualche professionista, e alcuni preti anziani che sembra abbiano perso ogni controllo. Uno in particolare, per il suo temperamento autoritario e sanguigno, s’infila tra la folla e impone a questo e a quello, a destra e a sinistra, di fischiare l’oratore Carlo Levi. “Ha scritto in un libro che Tricarico è un paese di taverne…”. Sussurra e insinua, e gli fa eco un giovane avvocato in cerca di notorietà. Altre frasi, altri commenti malevoli sul Cristo che quasi nessuno conosce, provocano una improvvisa, inconsulta reazione tra la gente, e quando sulla loggetta destinata ai comizi appare Carlo Levi, una bordata di fischi nasce in un punto.
I fischi si espandono per tutta la piazza. La folla con i volti levati verso il balcone dove lo scrittore, sigaro in bocca e senza mostrare il minimo segno di agitazione, attende che qualcosa accada, ha oscillazioni che passano da un capo all’altro della piazza come ondate. E Levi non parla, non riesce a parlare, non lo fanno parlare. L’ultimo fischio, il più anomalo ma anche il più liberatorio, lo lancia la tromba dell’automobile che l’autista dello scrittore suona con insistenza per farsi largo tra la folla, che ha già rivolto la propria attenzione al candidato di un altro partito, il quale si è prontamente sostituito all’autore del Cristo.
Appena fuori dalla piazza, oltre il tumulto, un piccolo gruppo di sostenitori della lista della Repubblica ferma la macchina, saluta Levi mostrando la propria mortificazione. Un maestro elementare, fervente repubblicano, cerca parole di scusa che possano colpire la sensibilità dello scrittore.
Ma Carlo Levi è già altrove, con lo sguardo, con la mente, col sigaro per aria. Lascia libero soltanto un sorriso, e con una stretta di mano saluta – me presente – il maestro elementare commosso e confuso.
Cinquant’anni dopo, racconto l’episodio a don Pierino, che veglia sul “patrimonio” culturale del paese legato esclusivamente al racconto leviano, alle vicende, che coinvolsero l’autore del Cristo durante i mesi del confino.
“I ‘Luigini’ esisteranno sempre”, dice don Pierino, che ha colto in pieno lo spirito della mia rievocazione.
Il rapporto, anzi la differenza tra `Contadini’ e `Luigini’, è stata un punto centrale del pensiero di Levi.
“Le cose vanno chiamate con i loro nomi”, scrive nell’Orologio.
“Sono ‘Contadini’ tutti quelli che fanno le cose, che le amano, che se ne contentano…! ‘Luigini’ sono gli altri. La grande maggioranza della sterminata, informe, ameboide piccola borghesia, con tutte le sue specie, sottospecie e varianti, con tutte le sue miserie, i suoi complessi d’inferiorità, i suoi moralismi e immoralismi, e ambizioni sbagliate, e idolatriche paure”.
Lancio una provocazione: “`Luigini’ anche quei preti di Tricarico che accusarono Levi di falsità e calunnia?”.
“‘Luigini’ anche loro”. Don Pierino non nasconde però l’imbarazzo che gli ha procurato una risposta forse frettolosa: “Ma quelli erano altri tempi. E poi non bisogna dimenticare che sui nostri paesi pesavano anni e anni di isolamento, anche culturale”.
Richiamato dalle nostre voci nel cuore della controra, qualcuno compare sull’uscio di una casa a pian terreno, con ampio vano a pareti bianche. E una donna che saluta confidenzialmente il suo parroco, a me augura il benvenuto, mentre si aggiusta sul capo un largo velo bianco di seta. E una donna anziana, vestita di nero, un’antefissa sulla porta di casa. Non ci vuole molto, anche se solo nell’abbigliamento, per rintracciare rassomiglianze con Giulia, la “Santarcangelese”, la strega contadina, uno dei personaggi più affascinanti e più drammatici del Cristo. Giulia, la donna “fredda, impassibile, animalesca… una donna antichissima, come se avesse vissuto centinaia d’anni”. Accudii lo scrittore nella casa “vicino alla vecchia chiesa della Madonna degli Angeli”. È Levi che racconta. “Ora che la chiesa era crollata, la casa si era trovata ad essere l’ultima sull’orlo del precipizio”.
E se la memoria non m’inganna, fu proprio in quella casa che alla fine degli anni Cinquanta, con l’emozione del cronista alle prime armi, incontrai la donna. Era seduta sullo scalino di pietra davanti all’uscio, la larga gonna di panno scuro nascondeva le ridondanze del corpo. Il volto, le mani, gli occhi, anche lo sguardo, vistosamente segnati dal tempo. L’autunno era alle porte e l’aria del primo pomeriggio era già frizzante.
Controvoglia rispose alle mie domande sul suo rapporto con Levi e sul libro che l’aveva resa famosa. Mi colpi la sua risposta, secca, improvvisa, di chi l’ha pensata a lungo. “Don Carlo” disse abbassando la voce, non so se per pudore o per rancore, “si è fatto i soldi col mio nome, e di me non si è più ricordato”.
Mi resi conto che non sarebbe stato opportuno insistere. Suggestionato dal racconto di Levi, stavo per chiederle, con l’ingenuità di chi si appiglia a qualsiasi argomento, storie di fatture e di fattucchiere, storie di monachicchi, creature di cui doveva essere esperta e certa.
Mi salvò la sua riluttanza. Si era nascosta la faccia tra le mani e si disse soltanto spaventata all’idea che qualcuno, di nascosto, potesse fotografarla. La rassicurai, zitti. E per qualche attimo posammo insieme lo sguardo sullo spettacolo a lei familiare dei calanchi, che di li a poco sarebbero diventati lustri e tristi sotto la pioggia.
Don Pierino non è certo che la Santarcangelese fosse tornata a vivere nella casa che ospitò Carlo Levi. “Dopo tanti anni, soprattutto tra gli anziani, cambiano gli effetti della memoria, così come cambiano gli effetti della luce”. È come dire che l’argomento è delicato, non tanto per Levi, che fu inquilino di passaggio, quanto per i precedenti della donna che in quella casa, qualche anno prima al servizio del prete che guidava la parrocchia, mise alla luce due gemelli, figli di padre ignoto.
Il pudore del parroco è comprensibile e solo chi ha letto il Cristo può capirlo. Si cambia discorso e si decide di visitare la vecchia abitazione rimasta a guardia del precipizio. Si affronta il vicoletto in salita che in cima finisce sbarrato proprio dall’abitazione solitaria, autentico monumento della storia del paese.
Fino a qualche tempo addietro facevano cuore i muri devastati della casa, gli infissi di legno sospesi nel vuoto a sbattere con colpi secchi coordinati dal vento, che penetrava per ogni angolo, per ogni fessura e tornava indietro attraverso le finestre spalancate.
Ed era suggestiva l’idea che il monachicchio, il fantasma domestico di questi paesi, l’allegro, ineffabile spiritello portafortuna dei contadini, si fosse trasferito in quelle stanze in attesa di crollare. Ora, con finanziamento della Regione, la casa di Levi è stata quasi del tutto recuperata nel rispetto delle caratteristiche della struttura originaria. Ma i geologi fanno ancora previsioni allarmanti. I calanchi stanno inghiottendo Alianello, “l’affascinante avamposto” che incontri a cinque chilometri da qui, in cima al mare di creta dove spuntano, a sorpresa, grappoli di fichidindia.
A restauro compiuto la casa dove Carlo Levi visse i mesi più duri ma anche i più fecondi sarà destinata a museo. Anche il frantoio vi sarà compreso per esporre gli strumenti agricoli più antichi del mondo contadino: tra una vanga che ha perso la lucentezza di quando divideva in solchi le argille, e un letto di foglie di granturco con la naca, che pende inerte dal soffitto e riporta una lontana ninnananna nel cuore della notte.
Con l’impazienza di chi si accinge a visitare un luogo di culto, varco il portoncino di una spaziosa abitazione a pian terreno. Un gruppo di ragazzi è a guardia dell’ingresso. Entro in una stanza ampia, luminosa. La luce arriva da un balcone che s’affaccia a strapiombo sui calanchi. Respiro subito un’aria a me familiare, l’aria del Cristo.
Domina una miniriproduzione del pannello “Lucania ’61. Vita e morte di Rocco Scotellaro” che Levi dipinse per il centenario dell’Unità d’Italia. Altre copie fotografiche di quadri storici che il Maestro dipinse ad Aliano durante i mesi del confino sono sparse sulle pareti. I ritratti della Santarcangelese, di Giovannino e Nennella, di Tonino, del Pastorello con l’agnello sul collo, dei tanti ragazzi che accompagnavano, cavalletto in spalla, don Carlo nei suoi vagabondaggi nelle campagne di Aliano dove si fermava a dipingere per ore.
Tutto è documentato, anche in una serie di fotografie sbiadite esposte al pubblico malgrado l’ostilità degli anziani per i quali il peso della notorietà doveva essere stato intollerabile. Sono foto che, attraverso la vicenda leviana, ritraggono la vita di un paese lucano guardato dall’interno, nel chiuso del ghetto, tra l’inverno e l’estate del 1936. Attirano l’attenzione “la casa del fabbro”, “la locanda dei cacciatori”, “il sanaporcelle”, “la casa della Maestra Mattea”, “don Traiella”, il povero prete “perseguitato e inasprito”. E in ogni fotografia c’è lui, Carlo Levi, in giacca e calzoni alla zuava, che spia ogni situazione e la memorizza.
Su un’altra parete, nella stanza accanto, la via crucis burocratica per ottenere permessi speciali dalle autorità della Provincia: dal permesso per andare a passeggio oltre i confini del paese, al di là del cimitero, “forse il luogo meno triste”; a quello per trattenere il cane Barone che gli avrebbe fatto compagnia per tutto il tempo del confino.
Una documentazione, non eccezionale ma utile, messa insieme dalla solerzia di un prete che, secondo alcuni, dedicherebbe più tempo a Carlo Levi che a Dio. Senza malizia riferisco il pettegolezzo a don Pierino che per tutta risposta, glissando, esclama: “Carlo Levi è Aliano, non è Matera”. Registro la battuta con la quale ha voluto polemicamente marcare il suo territorio. Ma lui insiste: “Perchè le opere di Levi, tutti i quadri realizzati ad Aliano, si trovano a Matera? E perchè è nata a Matera una Fondazione Levi?
Faccio appello alla conoscenza di vicende e uomini lucani, per spiegare al parroco che il paese affidato alla sua guida pastorale si è definitivamente consumato nel racconto del Cristo, che a Matera, attraverso la sua identificazione di “Capitale contadina”, continua il mito che fermentò l’ideologia e l’immaginario leviani. E poi lo volle lo stesso Levi, che venti giorni prima di morire -nel dicembre 1974 – era tornato in Basilicata. Ad Aliano si riconciliò con i personaggi superstiti del suo libro. A Matera lasciò idealmente il segno della continuità.
Interrompe le mie considerazioni un ragazzo discolo. Durante tutta la visita, che non richiede tempi supplementari, ha giocato con i compagni nelle stanze del palazzetto dove, tra lettere autografe, fotografie, qualche disegno e autoritratto, aleggia l’ombra arguta di don Carlo.
“Questo è mio nonno” dice il ragazzo con l’aria di chi vuole stupire, e mi indica un fanciullo in calzoncini corti, scalzo, in una foto dell’estate del 1936 che ritrae Levi mentre dipinge all’aperto accerchiato da un gruppo di bambini. E aggiunge, pensando al nonno come a un essere leggendario: “A Matera c’è pure un quadro, è un quadro grande col ritratto di mio nonno quando aveva dieci anni”.
Gradirei avere qualche notizia in più, ma lui ha già raggiunto l’ingresso, inseguito dall’allegra brigata degli amici.
Aliano in piazza. Il vento si è quasi placato, qualche sibilo residuo sale dalla “Fossa del bersagliere”, un nome rimasto immutato nella toponomastica del paese, un nome per nulla usurpato. Incuriosisce soprattutto i visitatori, “che non fanno certo la fila, ma vengono”, dice la proprietaria del bar di fronte. Vengono dall’Italia e dall’estero, anche dall’Australia. C’è chi si fa fotografare davanti alla tomba di Levi e chi sotto il vistoso cartello che indica appunto la “Fossa del bersagliere” sul ciglio del burrone, dove fu gettato, agonizzante, un soldato piemontese “sperdutosi in questi monti al tempo del brigantaggio”.
Era il 1862. Comandati da Carmine Crocco, i briganti avevano occupato il paese, e vi furono morte e devastazione. Ad Aliano c’erano allora quattromila abitanti. Quelli rimasti oggi a testimoniare sui luoghi, sulle vicende, sui personaggi che affollano la narrazione leviana, superano di poco il migliaio. L’esodo, cominciato decenni addietro, continua e si è fatto traumatico.
“Si chiamano col tam tam, dal Nord Italia, soprattutto dall’Emilia Romagna dove si è costituita una colonia di alianesi”. L’immagine colorata ma visibilmente amara è di un giovane padre di famiglia: deve star dietro a due bambini, figli suppongo, mentre chiacchiera con alcuni amici abbandonati sui sedili della piazza.
Osservo con qualche apprensione quanto il tempo abbia inciso sul paese, sulla faccia della gente, che si muove nel paesaggio in continua mutazione, con le nuvole che vanno e vengono e scoprono il sole ormai al tramonto. Per qualche momento il mare dei calanchi si illumina per ricoprirsi subito dopo di ombre.
Comincio a sentirmi prigioniero della sera, ostaggio del silenzio. Sto per accomiatarmi quando qualcosa di viscido e caldo mi scivola sulla mano nella quale custodisco il taccuino degli appunti. Ho la sensazione che me la stia sfiorando la lingua del cane che da qualche tempo mi gironzola intorno. È un cane dal pelo grigio, arruffato, che a suo modo chiede confidenza.
Mi colpisce il suo sguardo dolce e supplichevole. Abbaia un po’, con tono lamentoso, poi si accuccia ai miei piedi in un gesto di totale ubbidienza.
Sarà un caso, ma questo docile bastardo è quasi l’ombra di un’ombra che sta delineandosi nella stimolante rivisitazione del Cristo. È “l’ombra di Barone” che si affaccia nella memoria, il fedele, mitico cane di Carlo Levi che tra queste case “saltava, a grandi sbalzi, inseguiva le farfalle e gli uccelli, spaventava le capre”.
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