VII

DALLA PARTE DI ROCCO

 

     Sono a Tricarico e conto gli anni delle assenze tra i riquadri della piazza ridisegnati, dopo cinquant’anni, con i ciottoli di fiume. Comincia un viaggio sul filo della memoria, fra tante storie che mi appartengono. Eppure sono a disagio nei panni del cronista: è come sentirsi ospite in casa propria.
   Trovo rifugio nella simpatia della gente, che mi viene davanti, e mi guarda, e mi saluta, e mi dice affabilmente: “Che piacere vederti. Non ti ricordi di me?”. E io mi sforzo di ricordare, tra i tanti, a chi appartenne, da ragazzo, questo volto segnato di rughe, con i baffi grigi, e radi capelli bianchi sulla testa. Per un istante lo osservo, fingendo stupore, con l’aria di chi sta rimettendo insieme qualche indizio. Poi, in uno squarcio di memoria, ritrovo la figura, non più vaga, del compagno di scuola che con mira infallibile abbatteva i passeri con la fionda.
     “Che sorpresa!” gli dico, stringendogli con calore la mano. Lui sorride compiaciuto, tenta una battuta, ma finisco nell’abbraccio di una donna anziana che mi accoglie con lo stesso trasporto con cui si riceve un parente o un amico caro ritrovati dopo anni di assenza.
    È Paolina, una donna alle soglie dei novant’anni, ma esuberante e loquace. E non è un semplice ricordo per me. Ha sempre sostenuto di avermi fatto da balia quando mia madre, della quale non penso di profanare l’immagine, era presa dalle faccende domestiche e il bambino, in fasce, piangeva nella culla.
    Eccomi dunque nella piazza di Tricarico col suo fondale nobile: l’austero campanile medievale con doppia fila di campane. È dominante anche la torre dell’orologio, una sovrastruttura (ma è presenza irrinunciabile per questa gente) che da cento anni nasconde una facciata della chiesa di San Francesco del quattordicesimo secolo.
    Singolare palcoscenico questa piazza squadrata, spaziosa, aperta, dove è più visibile la vita del paese.            L’orologio da torre che ha dato la sveglia a generazioni di contadini, anche prima dell’alba, suona ogni quarto d’ora. La scansione delle ore è rimasta immutata. Ma l’orologio monumentale, con un grande pendolo che batteva a ritmo di cuore, firmato “Michelangelo Canonico, Lagonegro, anno 1898”, è finito chissà dove, è stato sostituito con un moderno congegno elettronico che non dà stupori. Mi basta alzare lo sguardo verso il nuovo quadrante (le sfere segnano le dieci del mattino) per scatenare i ricordi.
   I rintocchi del vecchio orologio (sarà magari soltanto suggestione), si diffondevano in modo diverso a seconda delle stagioni. D’inverno si appiattivano nel freddo e nella nebbia. In primavera avevano una voce più viva, più allegra, rasserenante. Negli anni Venti il Municipio di Tricarico si era affidato a mio nonno, che se ne intendeva, per la manutenzione dell’orologio che andava ricaricato a mano ogni ventiquattro ore. Tutte le mattine il nonno si arrampicava lungo le scalette di legno del campanile della chiesa, in una luce fioca e malsicura, per raggiungere, in alto, lo sgabuzzino dov’era sistemata la complessa macchina che batteva il tempo: una sorta di scultura in ferro battuto e alluminio con una sequenza di ruote dentate in perfetta sintonia tra loro. La ruota centrale, grande quanto quella di un triciclo, segnava le ore attraverso un complicato ingranaggio che si metteva in moto con un tonfo secco, un rumore improvviso che faceva sobbalzare chi entrava per la prima volta nello sgabuzzino dei prodigi.
    Io ero affascinato dall’orologio. Qualche volta il nonno mi consentiva di seguirlo, guidandomi non senza trepidazione nel dedalo delle scalette di legno, per farmi assistere al rito della carica. Con una robusta manovella tirava su da un cunicolo profondo dieci metri, due pesi di alcuni chili, rotondi, di ferro in fusione, legati a due cordicelle di acciaio. A operazione conclusa si sedeva su uno sgabello, accendeva la pipa con cannucce e fornello di terracotta, e per alcuni minuti fissava, assorto, il pendolo, mirabile nel suo moto perpetuo.
    In questa invasione di ricordi accresce il piacere e la suggestione del racconto un uomo attempato, alto, magro più del normale, cappello scuro sulle ventitrè. Si presenta lui, diversamente non avrei potuto riconoscerlo: è l’ex vigile urbano, l’incolpevole successore-rivale di mio nonno nella gestione dell’orologio della piazza Si era nel mese di giugno del 1947.
    Con una decisione inaspettata, il sindaco aveva affidato al vigile urbano l’incarico di salire tutti i giorni sul campanile della chiesa “per dare la carica all’orologio”, una manovra, a giudizio del primo cittadino, il quale intendeva attuare una severa politica di austerità, che non prevedeva particolari specializzazioni.
Quel sindaco, il più giovane d’Italia eletto nel dopoguerra, era Rocco Scotellaro.
   La notizia che il nonno, dalla sera alla mattina, era stato sollevato da un incarico affidatogli più di vent’anni prima, giunse come un fulmine a ciel sereno nella mia casa tra lo stupore e l’amarezza generale, soprattutto di mia madre che considerava l’orologio un patrimonio di famiglia.
    Nel nome di Rocco Scotellaro prendono rilievo tutti gli avvenimenti che alla fine degli anni Quaranta occuparono la vita del paese, varia, rituale, clamorosa per le sue diversità sociali.
    In poche battute, quanto mai pittoresche, l’ex vigile parla della sua imperizia di orologiaio comunale promosso sul campo: cinque giorni dopo aver ricevuto l’incarico, l’orologio monumentale si fermò, il pendolo non diede più segni di vita malgrado gli interventi di noti orologiai dei paesi vicini. Uno, paralitico, fu addirittura portato in cima al campanile, lungo le ripide scalette di legno, con funi e carrucole.
    Il popolo della piazza, i contadini che tornavano dalla campagna, i vecchi che trascorrevano interi pomeriggi seduti sui sedili di pietra a parlare di tutto e di nulla, si sentirono improvvisamente orfani di qualcosa: avvertivano la sensazione di aver perso la nozione del tempo. Per alcuni giorni, lo sguardo all’insù verso il quadrante con le grandi sfere ferme ad angolo retto, tra le dodici e le tre (la memoria non mi tradisce), la gente commentava con disagio, e con ironia, la precipitosa decisione del sindaco.
   E io c’ero quando Rocco Scotellaro, sorpreso e colpito dal malumore generale, pregò il nonno, assicurandogli, a dispetto dell’austerità, un congruo aumento del compenso mensile, di riprendere subito, anche di notte, il governo dell’orologio.
    E così fu. Nottetempo, come tanti cospiratori che sfuggono anche la luce della luna, nonno e nipoti riconquistarono, orgogliosi, lo sgabuzzino in cima alla chiesa di San Francesco, a ridosso del campanile, con l’imponente congegno che mostrava i segni della profanazione operata da mani inesperte. Ruote dentate, rulli, farfalle per l’avviamento della suoneria, piccolo e grande peso di ferro, tutto era fuori posto. Non senza batticuore il nonno si mise al lavoro per ricomporre il mosaico dei pezzi profanati. E nel cuore della notte, a sorpresa, il sindaco in persona sali nel bunker della discordia. Riconciliazione immediata tra Rocco e l’anziano, mitico orologiaio, dall’orecchio così affinato che solo attraverso i battiti del pendolo, monotoni e solenni, controllava la scansione del tempo e capiva le probabili anomalie della macchina.
     Alle cinque del mattino, presente Rocco, incuriosito e ansioso, ogni pezzo venne rimesso al suo posto, riprese il suo ruolo, e il pendolo cominciò a muoversi come prima, come sempre.
      E mia madre potè finalmente tornare a letto, dopo aver atteso, per tutta la notte, dietro alla finestra della camera da letto, i primi rintocchi dell’orologio che annunciavano l’alba.
    Le voci in piazza si accavallano. Nessuno si sente estraneo, soprattutto gli anziani, e nessuno vuole sentirsi escluso. Continua la liturgia dei ricordi. Sull’assenza-presenza di Rocco sto sostenendo quasi un esame. Se sfuggo a qualche domanda m’accorgo subito che tanta parte della storia di questo paese s’intreccia con la mia storia di adolescente, e di giovane in cerca di identità.
   “Rocco parlò per primo di un progetto politico nuovo e uso una parola nuova per quegli anni: programmazione. E tentò di spiegarcene il significato”.
     Un militante socialista, il quale non ha mai perso la speranza che il suo partito uscirà un giorno dalla trincea della dimenticanza, me lo fa ricordare, con un gesto plateale, sulle scale della cappella di San Pancrazio, il podio che Rocco prediligeva per poter stare più vicino alla gente, in mezzo al popolo di contadini che lo avrebbe portato in trionfo cantando bandiera rossa.
     Ora ci ritroviamo tutti nel segno della pacificazione, dopo quello dell’inquietudine. Stiamo disegnando, idealmente, anche attraverso la figura del poeta, che per essere stato un personaggio scomodo, forse anche difficile da capire, è stato un momento esaltante della coscienza cittadina, una ragione di crescita. E proprio in questo paese si è modellato il suo messaggio di poeta e di libertario, e si è anche evidenziata l’incapacità di alcune forze politiche ad accettarlo.
     Un falegname di via Piano è un testimone trafitto dalla voce di Rocco. Ripete a cantilena i versi della rabbia contadina: “I padroni hanno dato da mangiare / quel giorno, si era tutti fratelli, / come nelle feste dei santi / abbiamo avuto il fuoco e la banda. / Ma è finita, è finita. È finita / quest’altra torrida festa. Siamo qui soli a gridarci la vita / siamo noi soli nella tempesta”.
    È strano. Insieme si ricostruisce, in pubblico, senza rimorsi e senza reticenze, anche la biografia di Tricarico. Ne sta nascendo un memoriale estemporaneo, fatto di parole parlate, zeppo di fatti, di personaggi, di vicende appassionate, protagonisti, insieme con Rocco Scotellaro, quei contadini che alla fine degli anni Quaranta partivano di notte, zappa sulle spalle e accetta sotto il braccio, per occupare le terre incolte. Nicola Spolidoro, classe 1919, che sta seguendo la discussione seduto davanti al bar, ricorda, da protagonista, quei giorni memorabili: bandiere rosse al vento, canti libertari, e tanta volontà di poter coltivare, finalmente, un pezzo di terra propria, a Serralamendola, a Monteleone, “sempre scappando, come lepri, davanti ai carabinieri”. I loro modelli erano i proprietari terrieri che proprio grazie alla terra erano sempre vissuti nel benessere.
     Rocco Scotellaro, “protagonista appassionato e tuttavia pensoso”, non era con i contadini quando si dividevano i confini delle terre occupate e piantavano tra un campo e l’altro, nella più ampia, reciproca fiducia, stracci bianchi infilati sulla punta delle canne. “Ma Rocco ci aveva fatto capire molte cose, si era legato ai contadini, veniva nelle nostre case, mangiava e beveva con noi”. Spolidoro rievoca un mito. “Era anche andato in galera per difenderci”.
      Un giovane si fa avanti, considera quella del vecchio una provocazione, chiede conferme. “Rocco andò in galera per il dispetto di alcune persone che credevano di far politica. Fu proprio una vendetta politica”. Riferisco il giudizio di Rocco Mazzarone.
      Arriva a proposito il nome di Mazzarone, il medico amico di Scotellaro, che mi riservo di incontrare.
Intanto apro il mio diario sulle vicende di quegli anni, su quel che accadde pochi mesi dopo l’occupazione delle terre. Alcuni proprietari avevano chiesto l’intervento della magistratura, l’applicazione severa della legge. E l’ottennero. E i capi del movimento contadino vennero arrestati dai carabinieri, prelevati nelle loro case, di notte.
    Dopo l’umiliazione del carcere – “loro non sapranno mai quanto abbia sofferto”, scriveva da Portici Scotellaro nell’agosto del 1951 a Mazzarone – fini anche l’illusione della terra, e cominciò una lunga storia di sconfitte.
    Torna il ricordo di mio nonno, l’esperto di orologi da torre ma anche l’ufficiale giudiziario (facente funzioni), un ruolo che ricopri con zelo fino alla fine dei suoi giorni, alla bella età di ottantacinque anni.
      Fu agli inizi degli anni Cinquanta che, “nel nome della legge”, scortato da una squadra di carabinieri, per il timore di tumulti, il nonno dovette provvedere alla riconsegna, ai legittimi proprietari, delle terre occupate. Si riempivano fogli e fogli di carta bollata per redigere i verbali dei sequestri, che si eseguivano sul posto, anzi, sul campo: sequestri di muli, di asini, di tutto ciò che apparteneva ai contadini, i quali avevano atteso, rassegnati, l’arrivo dell’ufficiale giudiziario sui fazzoletti di terra che avevano già coltivato.
     Nicola Spolidoro è polemico: “Fummo costretti a emigrare. In carcere Rocco Scotellaro e altri compagni socialisti ci facevano arrivare sigarette e notizie sull’andamento dell’istruttoria che si concluse con un processo tutto sommato a nostro favore. Una farsa, che però fece scattare l’ente riforma”.
     Mi sto immergendo a tal punto nella memoria di quegli anni, che bastano i rintocchi dell’orologio per risvegliare una giovinezza che guardava gli avvenimenti da un osservatorio particolare, se non proprio unico.
    E Tricarico era certamente un paese particolare nel primo dopoguerra, anche per la presenza di personaggi come Rocco, che “si affermava non soltanto come poeta, ma come l’esponente vero della nuova cultura contadina meridionale”. Come il vescovo Delle Nocche, che offri l’esempio di una vita orientata verso una grande fiducia nella Provvidenza che lo guidò nella realizzazione di importanti opere umanitarie. È coinvolgente anche il ricordo di don Pancrazio Toscano, il singolare prete-questuante del nostro tempo, il fondatore a Tricarico del primo mendicicomio della Basilicata. Un prete che sapeva parlare di Dio, e lo sapeva imporre Dio, con rispetto ma anche e soprattutto con la forza delle opere.
      Chiacchierando, e frugando tra i fatti vissuti e visti, tutta la piazza si riempie di ritorni. Il militante socialista, sempre più nostalgico, comincia a recitare, con la scansione esatta, versi di Scotellaro: “Noi siamo rimasti la turba / la turba dei pezzenti, / quelli che strappano ai padroni / la maschera coi denti”. Non mi è difficile individuare “Pozzanghera nera”, la poesia che Rocco scrisse con rabbia all’indomani delle elezioni politiche del diciotto aprile 1948, che diedero alla Democrazia cristiana la maggioranza assoluta.
     Mettendo in fila gli anni a partire dal dopoguerra, fino a chissà dove lo può condurre la memoria, Pancrazio Langone, novant’anni portati bene, con orgoglio, persino con una punta di eroismo, mi mostra le tessere del “Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria”. La prima è del 1945. Sciupata e sbiadita nel colore originale, è ancora ben visibile, accanto alla firma discreta del segretario nazionale, Nenni, quella più vistosa del segretario della sezione del Psi di Tricarico, Rocco Scotellaro. Sollevando alto il bastone col tono di voce di chi evoca un eroe, Langone, che fu uno dei capi del movimento contadino durante l’occupazione delle terre, sentenzia: “Siamo rimasti in pochi a ricordare Rocco, e a raccontarlo com’era da vivo”.
      “A proposito, com’era da vivo il sindaco-poeta di Tricarico?”.
Sono tentato di rispondere alla curiosità del solito giovane, quasi incredulo di fronte a tanta partecipazione, che Rocco aveva i capelli rossicci e la faccia di un ragazzo irrequieto, geniale, segnato di lentiggini. Ma mi anticipa la commozione della vecchia Paolina.
     Non si è allontanata neppure un istante dal mio fianco: sono ormai un suo ostaggio, come quando ero in fasce. In un visibile rimpianto, la donna non presume di raccontare la vita di Rocco, conclusasi a trent’anni, ma ne celebra la morte, una morte improvvisa, neppure lontanamente annunciata, che risuonò per i contadini di Tricarico come un brusco, doloroso colpo inferto alla speranza.
      E siamo tanti ora a rivivere il funerale del poeta.
    Il militante socialista non ha mai cancellato l’immagine di Carlo Levi che commemora l’amico scomparso, in piazza, in piedi su di una sedia, e indossa, sotto la giacca, una camicia nera con la cravatta bianca. È un richiamo di memoria, un dettaglio vivo, come se tutto fosse avvenuto ieri.
     E quella mattina del 17 dicembre 1953 io c’ero, con tutto il popolo di Tricarico, a seguire la bara di Rocco che passava nella nebbia sulle spalle dei contadini in lacrime. Quello stesso giorno cominciava la devozione laica alla memoria del poeta. Si aprivano i rivoli di una leggenda durata fino a quando sono vissuti i personaggi raccontati in “Contadini del sud”, ne “L’uva puttanella”, in molti versi di “E fatto giorno”, la raccolta di poesie che commosse la giuria del Viareggio che nel 1954, per la prima volta, assegnò il premio alla memoria.
     In situazioni di estrema scomodità (scomodità politica per aver accettato gli stessi contadini, anarcoidi e protestatari), Rocco aveva compiuto la propria indagine nel mondo della immobilità secolare, per scuotere e informare. Era diventato il simbolo di tante rivoluzioni mancate, o tradite. E si poteva spiegare solo in questa chiave il dolore della gente per la sua scomparsa improvvisa, inconcepibile a trent’anni, inaccettabile.     Rocco era morto a Portici. Fu ricomposto nella bara col suo montgomery cachi col quale si era fatto fotografare, pochi mesi prima, accanto a un asinello. Quella foto comparve nelle case dei contadini di Tricarico, vicino ai ritratti di famiglia, e all’immaginetta della Madonna di Pompei e del Cuore di Gesù.
     I rintocchi dell’orologio mi sorprendono mentre cerco di capire fino a che punto, proprio attraverso le testimonianze, la nuvola di Rocco ha lasciato segni di inquietudine, o è passata invano. Di sicuro è rimasto il sogno poetico, si è sedimentato il ricordo di una vita umanamente ricca e memorabile. Si va dissolvendo la figura del capopopolo, si spegne il messaggio del libertario per il riscatto del mondo contadino. Ma è passato mezzo secolo, i tempi sono cambiati, si deve riflettere con distacco. Ripensare ai tempi delle lotte contadine è ormai solo una questione d’onore per i protagonisti superstiti: la rivoluzione, che prima era un desiderio, paradossalmente, si è radicata come uno scrupolo nel loro passato.
     Mi muovo inciampando nei ricordi. So molti fatti di questo paese, ho conosciuto tanta gente, non mi sfugge il profilo di una chiesa e neppure il vicolo tormentato da tanti angoli bui dove una sera d’inverno un uomo venne accoltellato a morte e io, bambino, vi passavo col tremore nel cuore.
    Perciò non devo fare grandi sforzi di memoria per riconoscere la porta di una casa contadina o il portoncino di un palazzetto borghese, e dare un nome alle famiglie che vi abitano (o vi abitavano?), mentre attraverso, e la rivedo come in una pellicola d’epoca, la “via Rocco Scotellaro”, già “via Roma” fino a una ventina d’anni fa. È una strada tutta angoli e sporgenze, e pare non finisca mai. Più in là, oltre la curva, potrebbe esserci qualsiasi cosa, anche la fine di tutto. I vicoli, che si aprono a sorpresa e in discesa, a strapiombo lungo il tragitto, filtrano le luci di un cielo lontano: sotto quel cielo è sorto il paese nuovo, diverso, certamente anonimo. Il giudizio non è condiviso dal sindaco di Tricarico che mi accompagna a rivedere la casa dove Rocco nacque e visse gli anni della sua brevissima esistenza.
      Non posso fingere di non sapere com’era eccitante e viva l’aria umana che si respirava in questa strada ai tempi in cui Rocco l’attraversava in compagnia dei suoi amici venuti da lontano, o delle sue amiche, venute anch’esse da lontano, o della “turba” dei contadini che lo accompagnavano esultanti dopo un comizio o una vittoria elettorale. Oggi c’è silenzio davanti alla casa di Rocco, e c’è silenzio lungo tutta la strada della quale mi è rimasto un ricordo sbiadito di quando si animava di voci e di rumori domestici nei giorni festosi della mia vita di ragazzo.
     “Molta gente è andata via, si è trasferita nella parte nuova del paese, nel villaggio di Santa Maria. Molte porte si sono chiuse da tempo” dice il vigile urbano che ci fa da guida, una guida discreta ma non proprio insensibile alle mie considerazioni sull’aria di solitudine che si avverte girando gli occhi intorno. La reazione del sindaco non si fa attendere. Sostiene la tesi che Tricarico è un paese all’avanguardia, un paese leader, vivo e vivibile per l’operosità della gente ma anche per l’intraprendenza dei suoi amministratori che hanno fatto scelte coraggiose.
     La precisazione è rivolta al vigile, che prudentemente zittisce. Ma il vero destinatario della battuta sono io, che faccio finta di niente e rivolgo altrove il mio interesse. Lo rivolgo alla lapide dedicata a “Rocco Scotellaro, sindaco socialista, poeta della libertà contadina”: dedica storica dettata da Carlo Levi. La lapide è così discreta e così ristretta tra lo spigolo del viottolo e la porta di casa Scotellaro, che un raggio di sole a malapena riesce a illuminarla. Mala parola “poeta” squilla come un inno. A un passo dall’uscio cerco rifugio in qualche prudente astuzia, ma l’emozione è visibile mentre penso che tra queste quattro mura, “una gabbia sospesa / nel libero cielo la mia casa”, sono nati i progetti di lotta di Rocco, le sue poesie, si sono consumati i suoi amori, i suoi sogni.
     Il giovane che ha preso in fitto la casa non nasconde l’imbarazzo per avermi ricevuto in due stanzette, le uniche rimaste, con il classico disordine di chi fa le ore piccole. Rivedo appena le figure scolorite, senza più neppure la protezione della memoria, di Rocco e della madre Francesca Armento, che raccontò la vita e la morte di suo figlio nell’appassionato memoriale pensato e scritto proprio qui, magari davanti al camino, che non c’è più.
     Cerco di rintracciare qualche segno della vita vissuta dentro, ma rimane solo una visione lontana, che prima disorienta, poi avvilisce.
     Si torna in piazza, ma è quasi vuota. La scena, in poco più di un’ora, è cambiata. I ciottoli di fiume si sono fatti più appariscenti, lustrati da un gomitolo di nebbia che si è spinto fin qui scivolando lungo la Serra, la montagna grigia che si offre come fondale al palcoscenico della piazza.
     In casa di Rocco Mazzarone, dov’ero atteso, ritrovo testimonianze non più sfumate, della “breve, amara esperienza umana di Rocco Scotellaro che scelse la poesia come linguaggio che meglio e in modo più immediato potesse dar forma alla verità, alle speranze e alle delusioni che la sostanziarono”. E trovo soprattutto lui, l’altro Rocco, il testimone e l’estimatore delle prime esperienze letterarie del poeta.
     È la primavera del 1943. Mazzarone, ufficiale medico alla scuola allievi di Potenza, incontra il giovane tricaricese che per puro orgoglio intellettuale partecipa, e si fa apprezzare, ai Ludi juveniles, una sorta di olimpiadi della cultura istituite dal regime fascista.
     Nasce un sincero sodalizio, c’è anche il paese che li unisce, Rocco Scotellaro confida all’amico medico il suo interesse per la poesia, gli fa leggere Lucania, versi scritti a diciott’anni: “M’accompagna lo zirlio dei grilli / e il suono del campano al collo / d’un’inquieta capretta. / II vento mi fascia / di sottilissimi nastri d’argento / e là, nell’ombra delle nubi sperdute, /giace in frantumi un paesetto lucano”. Versi convincenti che sono l’inizio di una sfida, ed è proprio Rocco Mazzarone a raccoglierla.
     “Non l’ho mitizzato” precisa oggi col pudore di chi non ha mai usato definizioni straordinarie anche nei confronti di un amico, che pure ammirava. “Ho sempre ritenuto che era un giovane di talento che andava maturandosi. Si stava formando anche in politica, ma il suo socialismo era più pragmatico che ideologico. La sua adesione al socialismo, proprio per il temperamento libertario, era rivolta alla soluzione dei problemi della gente in difficoltà, soprattutto del mondo contadino, povero e protestatario”.
     Lo sollecito, nel nome dell’amicizia, e lo costringo a cedere all’autobiografia. A quel punto sento che il filo col passato non è stato mai reciso, ed è stata una fortuna per la tutela di un patrimonio storicamente e umanamente ricco. Ed è esaltante per riaprire il diario privato di Rocco Mazzarone: sul primo incontro con Carlo Levi, al quale presenta Scotellaro, giovane speranza della poesia lucana e sui rapporti con Manlio Rossi-Doria, lo studioso meridionalista ed economista agrario.
     Sorprendo sul suo volto, e appena, nei suoi occhi, non piú vigili – ma si è offuscata soltanto l’immagine esteriore della vita – una sorta di gioia intellettuale quando mi mette tra le mani le lettere di Rocco nelle quali traspaiono le tensioni umane del sindaco, il dramma del carcere, l’amarezza della lontananza. Un epistolario che racconta, anche in disaccordo, qualche volta, la storia breve, ma intensa, di un’amicizia.
     In casa Mazzarone non si usa parlare ad alta voce, io ho la facoltà di trasgredire. È così da sempre, e Tina, la moglie di Rocco, con amabilità mi dice che porto allegria, e che così accadeva anche con Rocco Scotellaro. “Arrivava all’improvviso, a qualsiasi ora, per qualsiasi problema”.
     Arrivava, ma con ben altro cerimoniale, anche Carlo Levi al quale Mazzarone, celiando, si era presentato la prima volta nella primavera del 1946, come “medicaciucci e nipote di don Traiella”, il povero arciprete di Aliano, solitario e inasprito. La battuta dell’allora giovane medico, uno dei pochi in Lucania ad aver letto il Cristo si è fermato a Eboli subito dopo la sua pubblicazione, colpi lo scrittore, che proprio nei confronti di don Giuseppe Traiella (Scaiella, per l’anagrafe) senti, come traspare dalle stesse pagine del Cristo, un forte senso di solidarietà e di comprensione.
     Era nato a Tricarico don Traiella, e a Tricarico volle morire. Ma per una dispettosa congiura della sorte non ebbe pace neppure dopo morto. Rammento con tutti i particolari il rito solenne di suffragio che venne celebrato nella cattedrale alla presenza del Vescovo. Dalla chiesa la bara usci portata a spalla dai Confratelli del pio monte dei morti. Indossavano una mantellina di color marrone e sul petto, quasi ad ammonimento, spiccava l’immagine sinistra di un teschio tra due tibie incrociate.
     Nel preciso istante in cui il corteo funebre entrava nella piazza, da un aereo – si era ancora in tempo di guerra – comparso come un enorme falco sul monte della Serra, fu sganciata una bomba che esplose con un boato terrificante. Panico tra la gente che cercò scampo correndo a precipizio verso la campagna, a valle, tra le grotte e i burroni. Fuggimmo tutti terrorizzati senza renderci conto di cosa fosse realmente accaduto. Fuggirono anche i Confratelli della pia congrega, che senza riguardo abbandonarono sulla nuda terra, sotto il monumento ai caduti, il feretro di don Traiella.
     Per più di un’ora la piazza si raggelò in un silenzio di morte. Ma il vero, unico morto, fini per essere soltanto il povero arciprete nella sua bara, foderata, all’esterno, da una consunta stoffa di velluto nero: l’espediente del falegname per nascondere la povertà delle quattro tavole di abete. La bomba restò un episodio isolato e l’aereo (inglese, si disse) scomparve con la sua scia nel cielo azzurro di quella mattina.
      Era l’otto settembre del ’43, il giorno dell’armistizio, e quell’ordigno, che fece bruciare per ore il bosco della Serra, ci tolse l’illusione che la guerra fosse veramente finita.
       In casa Mazzarone un ritratto di Rocco Scotellaro, più ragazzo che capopopolo, dipinto da Carlo Levi per l’amico medico, ci restituisce il desiderio di capire sempre di più e sempre meglio i fatti di un passato che per molti aspetti ci appartiene. Su di un’altra parete Levi è dominante in un narcisistico autoritratto.
      Mi scopro a fare previsioni e commenti sull’ormai improbabile futuro di Scotellaro, il “sindaco socialista, il poeta della libertà contadina” – una dedica che mi perseguita -, su come si sarebbe comportato oggi, da quale parte sarebbe stato.
     “Avrebbe fatto progressi sulla strada della poesia, la sua vocazione più autentica; e sulla condivisione umana ai problemi veri della gente, che non finiscono mai” dice don Angelo, il fratello sacerdote di Rocco Mazzarone, la cui scelta vocazionale si rivelò anche rispettosa della tradizione di famiglia che ha sempre ubbidito all’orgoglio di avere in casa religiosi e prelati.
      “Una risposta da prete?” dico.
    Con le mani sugli occhi, come a censurare lo sguardo, purtroppo in difficoltà, Rocco, a toni bassi commenta: “È una risposta politica. Per ciò che riguarda la poesia il pensiero è condivisibile. È condivisibile anche la passione civile, indipendentemente dalla ideologia, che Rocco Scotellaro avrebbe sicuramente conservato. Don Angelo, voglio dire mio fratello, su questo non si è espresso. Ma io penso, in fondo, che Rocco sarebbe rimasto socialista, ma socialista senza partito”.
      Dal salotto si va sul terrazzo che s’affaccia sul giardino. Più in là si intravede il convento di Sant’Antonio che ospita le suore e la casa di riposo per una cinquantina di anziani. Don Pancrazio Toscano, il prete dei poveri, scriveva tutti i giorni il nostro nome sull’inginocchiatoio, e ce lo diceva, con la bonomia di un padre, ma anche con la testardaggine di chi viveva la fede, in Dio e nella Provvidenza, come quei “pesci d’acque profonde meravigliosi e ciechi”. Di sicuro scriveva anche il nome di Rocco Scotellaro, il sindaco laico, ma a suo modo benefattore, che amò quel prete-questuante per la sua coerenza nella fede e nelle opere.
    Oltre il convento è tutto cielo aperto. Ieri ad Aliano, scendendo guardingo a marce basse lungo lo spettacolo crudele dei calanchi, mi sono lasciato alle spalle un vento a strappi che consentiva al sole veloci spiate tra le nuvole. Da questo terrazzo vedo adesso un sole rosso-fuoco, non c’è una nuvola, non c’è più nebbia, non possono neppure nascere pensieri sospetti.
     Cantano, e incantano, due pappagallini e due bengalini, variamente colorati, in due gabbie appese a mezz’aria. Rocco fa finta di non accorgersi della mia meraviglia. Tina mi sorride.
      Mi resta un’ora di luce e desidero rimuovere qualche scrupolo nei confronti dei miei morti, che visito raramente, quasi sempre a sorpresa (e non ho mai un fiore tra le mani); qualche volta di notte, di passaggio, e allora mi avvicino al cancello del cimitero e lo tocco appena per non disturbare nessuno.
     Sono andato anche per cimiteri, ma in questo camposanto sto mettendo particolare attenzione al richiamo di un merlo che si attarda, ciarlando, tra una tomba e un cipresso.
     Non disturbo più di tanto mio padre, accattivante nel ritratto sulla lapide; e a maggior ragione mia madre, triste ma severa. Ci diceva, quando si era bambini, che le persone care si baciano nel sonno, e non devono essere svegliate.
     Il merlo ha abbandonato il cipresso, saltella sulle tombe, il perimetro è ridotto, ma l’uccello, spirito irrequieto, stimola il dialogo fra tante assenze, e non mi fa sentire nè estraneo nè lontano.
      Davanti alla tomba di Rocco Scotellaro, oscurata da un mantello di edera che ha stretto in un abbraccio un cipresso secolare, la vista sulla valle del Basento dominata dagli ultimi raggi del sole che va scomparendo dietro il monte della Serra, è ancora ampia, cattura i pensieri. Rocco è sepolto accanto ai genitori e al fratello.     Il monumento di pietra che lo celebra, invade lo spazio, è come il frontale di un santuario vecchio di secoli. Attraverso uno squarcio tra due blocchi sovrapposti e asimmetrici si intravede la lunga linea del Basento. E per qualche attimo riesci anche a distogliere l’attenzione dalla tristezza del luogo. I versi incisi sulla stele annunciano “la luce grigia della speranza”: “Altre ali fuggiranno / dalle paglie della cova / perchè lungo il perire dei tempi / l’alba è nuova, è nuova”.
     Mi sorprende, mentre ripeto sottovoce questi versi, il maestro e amico sacerdote don Benj Perrone. “È sempre il ricordo ad avere il primato sulla morte” dico, mostrando tutto il piacere di averlo incontrato, tra un lento via vai di donne a lutto. “Mettiamoci pure la poesia” aggiunge lui. E ci facciamo compagnia.
     Oltre la ringhiera di ferro che ha sostituito il disfatto muro di cinta del cimitero, non c’è più nulla dall’altra parte che ti possa riconciliare con la descrizione che fa Rocco della contrada Corneto ne L’uva puttanella, il racconto della sua vita. Non ci sono più vigne, sono scomparsi i campi di ulivi, è rimasto il territorio, più sterile che mai, della volpe, che può muoversi agevolmente alla ricerca di comode tane negli anfratti di un terreno che degrada in disordine verso il fiume. In lontananza il Basento luccica di riflessi.
     Don Benj – il vero nome è Pancrazio, come il santo protettore di Tricarico – mi richiama alla mente le lotte politico-ideologiche che ci dividevano anche nei rapporti umani. L’uomo di chiesa confessa che negli anni in cui era viva e visibile la meteora di Rocco Scotellaro egli non aveva la capacità di critica che ha oggi. E questo lo induce a limitare gli apprezzamenti politici, soprattutto per quelle vicende, vissute dal sindaco-poeta “come un’esperienza spesso angosciosa e difficile e dolorosa”: il carcere, le dimissioni da sindaco, la partenza per Napoli, l’abbandono, “liberazione e insieme esilio”.
     “Però non si scrive”, precisa don Perrone, “quel che ha scritto, se non lo si è vissuto. E questo mi consente di apprezzare il poeta, l’intellettuale, indipendentemente dalle scelte politiche”.
Sul cimitero la sera, già annunciata, sembra sospesa.
     C’è rispetto per la commozione, cosi come c ‘è sorpresa nel vedere una intera parete di loculi con ritratti e nomi di “suore discepole di Gesù Eucaristico”, l’ordine religioso fondato da monsignor Delle Nocche, il sant’uomo, come dice don Perrone, che ebbe gli occhi aperti sulla realtà sociale che viveva. L’anziano e prestigioso vescovo, nell’atmosfera della guerra fredda che si respirava anche a Tricarico, diede una mano al giovane e intraprendente sindaco Scotellaro impegnato a realizzare nel paese un piccolo ospedale con attività prevalente in chirurgia e ostetricia. Ci fu molta correttezza tra i due personaggi che si tradusse in una collaborazioni di fatto. L’ospedale si inaugurò il sette agosto 1947 senza enfasi, senza bandiere.
     Monsignor Delle Nocche aveva ceduto un’ala del suo palazzo vescovile. Quante interpretazioni, dopo, e quante inesattezze sul rapporto tra il Vescovo e il laico, per giunta socialista, per giunta dichiaratamente ateo, Rocco Scotellaro.
     “Il cristiano” dice don Benj, pensando di liquidare qualche pregiudizio, “è sempre orientato verso cieli nuovi e terre nuove capaci di cancellare le ingiustizie della storia. Nei riguardi di Rocco Scotellaro, monsignor Delle Nocche fece prevalere, soprattutto nei momenti difficili per il poeta, al di là della dialettica e del confronto, la sua paternità”.
    Il tempo della commemorazione e della compassione è scaduto. Di fronte a noi, il paese. È come un convoglio in attesa di muoversi tra lontani segnali di vita. E c’è da farsi prendere dalla vertigine se solo per un istante immagini di sporgerti dai merli della torre normanna, solitaria, austera, orgogliosamente piantata nella storia di Tricarico.

 

Nota di Rabatana

Mario Trufelli, giunto nella piazza di Tricarico (dove c’era la sua casa e dove c’era anche la mia), dice, con stupenda metafora, che inciampa nei ricordi. Io replicai che, inciampando, ha scalciato qualche ricordo, lanciandolo lontano e l’ha perso di vista. E gli rimprovero di fare confusione tra l’orologio di sanfrancesco e l’orologio di santa Maria dei Lombardi.

Chi è interessato a questa storia si avvalga del seguente indirizzo, incollandolo su un motore di ricerca

http://antoniomartino.myblog.it/media/02/00/901369063.pdf

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.