VIII

LE STAGIONI DI DEMETRA

    A Serra di Vaglio il vento assume le tonalità di una voce umana, una voce soffocata che lambisce le cime delle querce disperse lungo la trincea degli scavi.
    “Sei tornato per fare omaggio al progenitore dei lucani” mi dice Dinu Adamesteanu, che mi attende addossato alla casa di fango e paglia coperta di tegole di creta con decorazioni di antefisse dipinte.
    Sono arrivato in ritardo all’appuntamento su questa montagna archeologica a 1100 metri di altezza, e non so perchè. Do la colpa al paesaggio che ancora una volta mi ha catturato; alle mura megalitiche che non danno tregua alla fantasia; a un sole insolitamente caldo e rassicurante, a novembre, nel mese più buio dell’anno. E Dinu, che con i suoi gesti lenti e gioiosi mi trasmette stupori, precisa che l’estate di San Martino non è un’invenzione degli astronomi, né tantomeno dei meteorologi.
Con la sua faccia cotta dal sole (ne puoi leggere i segni, ogni segno vale un secolo), scruta i ruderi e si acciglia, e lancia anatemi contro i profanatori del passato. La montagna di Serra ha dato agli archeologi sorprese memorabili, come la sepoltura, la prima venuta alla luce con i resti di un uomo vissuto nel IV secolo avanti Cristo, l’unica traccia umana fra le tante, scoperte successivamente, col nome inciso su una stele: Nùmmelos, forse un magistrato, un dominante, di sicuro un antenato.
Serra si raggiunge attraversando una strada aperta ai venti, alle intemperie, e alle frane. Una strada che non collega nessun paese, nessun villaggio, se si esclude qualche masseria e un veloce passaggio tra le prime case di Vaglio. Non vi sono alberi, è una striscia bianca, una cicatrice che solca dirupi scoscesi. Quella strada non poteva che portare a un luogo misterioso dove, a un tratto, è venuto a dominare il silenzio.
    Per anni la città sepolta è stata una sorta di casa-paese dove “con un salto / scavalchi un vicolo / con due un vicinato”. Qui ho sempre sentito di avere una radice. Ogni volta, ad ogni passo, cresceva il desiderio di capire, e carpire, qualcosa di più dell’esistenza di questi luoghi, del sogno che li ha fatti nascere e li ha tenuti in vita per tanti secoli.
    I muretti di pietra – “pietra di quei tempi” precisa Dinu – che segnano le antiche divisioni della città, divisioni dettate dalle consuetudini, dalle strette di mano, dalla necessità di convivere senza tumulti, onorando la parola, coprono l’intero perimetro degli scavi. Da quassù la veduta spazia fino alle colline lontane, lungo l’orizzonte disegnato dai profili dei paesi dei quali sono sparsi i nomi: Forenza, Acerenza, Pietragalla, Albano, Trivigno, San Chirico e, in fondo, Irsina, adagiata in una serena orografia vestita di luce. Al di là di Irsina si sgranano la murgia pugliese e la pianura materana con le ampie distese di campi coltivati a grano.
    “Ma di quassù Matera puoi soltanto immaginarla” precisa Dinu, con quel tono di voce che esprime una grande simpatia umana. E aggiunge: “A Matera, la prima volta che la vidi, mi ritrovai all’improvviso indietro di migliaia di anni. L’uomo della preistoria, non dai Sassi, ma dalle grotte di Murgia Timone, mi diede emozioni assolutamente nuove e forti stimoli ad affrontare con entusiasmo la ricerca archeologica in Lucania”.
    “La terra incognita” sussurro. Ma mi guardo bene dal citare Karl Schnars, del quale proprio Adamesteanu mi consigliò, nel lontano 1964, di leggere il Diario di un viaggiatore tedesco in Basilicata.
E generoso il professore, non mi mortifica per la citazione, quanto mai superflua (per lui, naturalmente), e prendendomi per mano, come si fa con un ragazzo che ha bisogno di essere guidato, mi porta al centro degli scavi e mi racconta, col suo tono affabulatorio, la vita degli uomini e della città, attraverso le pietre.
Si sa che il sito archeologico di Serra di Vaglio fu scoperto alla fine degli anni Cinquanta da Francesco Ranaldi, un ricercatore appassionato, un precursore, che si faceva guidare soprattutto dall’istinto. Continuò le ricerche l’équipe del soprintendente Adamesteanu, che per anni insegui il progenitore dei lucani e lo rintracciò in un anfratto della possente fortificazione che per chilometri chiudeva ad anello tutto l’abitato.     “Fummo travolti dalla curiosità della gente che si arrampicava fin quassù con ogni mezzo, anche a dorso di mulo, attratta da questa sorta di città-santuario in mezzo al cielo”.
    Ricordo a Dinu che tra i primi curiosi arrivai anch’io, eccitato all’idea di poter dare, in esclusiva, una notizia dagli specialisti definita straordinaria: il ritrovamento dell’antenato ricco e potente che rivoluzionava teorie e credenze sull’ancestrale miseria dei Lucani.
    Con la memoria ferma a quei giorni, Adamesteanu unisce la razionalità dello studioso all’emozione della scoperta vissuta vent’anni prima. Nel suo racconto la vita della città sepolta va lentamente animandosi.       Parla di principi e di donne certamente affascinanti, con gioielli raffinatissimi; di uno stato sociale molto elevato; di un ricco vasellame dipinto con artistiche decorazioni. “Ma il diadema in oro sbalzato del vi secolo avanti Cristo, dunque prima di Nùmmelos, prima degli stessi Lucani, con figurazioni di animali cari alla mitologia greca, continua a stupire il mondo”.
    Impettito nel suo mantello di castagni e di faggi, il monte Vulture ci rimanda, idealmente, un sogno, con la poesia di Orazio. Dietro al vulcano spento c’è Venosa, la patria del poeta.
    Di tanto in tanto Dinu sorride a qualcosa che osserva oltre la rete metallica che circonda, a protezione, la parte più visibile degli scavi. Inseguo i suoi segnali. Oltre il recinto, pecore capre e agnellini al pascolo ci guardano con gli occhi tristi, come tanti reclusi. Infilano il muso tra le maglie della recinzione per poter mordere qualche ciuffo d’erba. Il pastore – sempre quello da anni – scoraggia l’allegra arrampicata delle capre a caccia di foglie appena nate.
    Dinu si fa schermo con le mani e scruta, in lontananza, Potenza che si sta scrollando di dosso un residuo di foschia. Con i suoi palazzi-grattacielo piantati nell’azzurro, Potenza può anche suscitare qualche interesse, può anche piacere a chi la vede per la prima volta, da lontano, e magari da questo osservatorio a millecento metri di altezza, tra i guizzi delle calandre che fanno festa al visitatore.
    La macchia di Rossano viene dopo un tratturo aspro, in discesa, con fossi e massi in disordine, tra cespugli di biancospino sfiorito, senz’anima. È l’antica strada dei pellegrini, la mulattiera che collegava Serra, la città fortificata, con la divinità, nel tempio della Mefitis, una dea popolare, opulenta, munifica. Dea dell’amore e della fecondità, era una forza positiva della natura che arricchiva il proprio patrimonio votivo con statuette e melograni di pietra e di argilla; con gioielli quasi tutti femminili: orecchini, collane, cinture in oro e in argento.
    È Dinu che riferisce, mentre Hel, che ci ha preceduti seguendo un percorso molto più agevole del nostro, ci dà l’idea di chi va alla ricerca di qualcosa di nuovo, di sorprendente, di una rivelazione. In mezzo al sagrato “con un pavimento in grandi lastroni di pietra calcarea, durissima, un vero e proprio spiazzo”, Hel si muove tra un universo di ombre alle quali dà voce Adamesteanu, ricordando il ritrovamento, dopo duemilatrecento anni, del sileno, il semidio.
    “Era l’estate del 1971”: Hel non si lascia sfuggire l’occasione di poter rivivere quell’emozione. “Fummo presi da un presentimento e di sera, già tardi, tornammo sugli scavi e continuammo a rimuovere i blocchi di pietra. A un certo punto gridai: “Dinu, guarda qui”. Due zampe di leone erano apparse tra le pietre rimosse.    Mano a mano le gambe nude di un uomo, la testa, la faccia che sorrideva dietro a un ultimo velo di terra. Avevamo disseppellito il fauno di pietra, il sileno, appunto”.
    Sulle rovine del santuario, tra le colonne mutilate e gli altari abbattuti, Hel si muove a suo agio. Le rovine quasi sempre propagano un sentimento di apprensione, portano il senso di un castigo. A Rossano si circondano di sacralità.
    Su questa altura rocciosa, coronata dalle querce, l’archeologa tedesca arrivò nell’estate del 1969, e si mise subito al lavoro, un lavoro febbrile, caparbio, che è durato venti anni, anzi, venti stagioni.
    “Arrivavo puntuale dalla Germania alla fine di giugno, ne ripartivo, puntuale, alla fine di settembre”.
    Ha voglia di raccontare fatti privati, forse mai narrati finora.
    “Abitavo in quella baracca di metallo”. Indica la casupola che ora è dipinta di verde; ma ora è soltanto un deposito di attrezzi. Mi dovevo muovere, e con difficoltà, tra tante cassette piene di reperti: il risultato di settimane e di mesi di scavi. Statuette fittili, testine di terracotta, schinieri, antefisse che studiavo, datavo, catalogavo prima di consegnarli al signor soprintendente”. Sorride, con gesto affettuoso indica Adamesteanu, che con l’aria di chi sta camminando nella storia, esamina la baracca rimasta al suo posto ai bordi del muro di cinta del tempio della Mefitis, dove ogni ricerca sembra ormai conclusa.
    L’arcana vita delle pietre, complicata dalla immobilità, si rianima nei ricordi di Hel che ripete, con Thomas Mann: “Amico selvaggio della mia giovinezza, adesso siamo di nuovo insieme”. E confessa che molto spesso le tornano in mente (con nostalgia, penso e, chissà, anche con una fitta al cuore) le parole di conforto che le disse “il signor soprintendente” mentre la lasciava sola, per la prima volta, davanti al tempio inesplorato.
    Oggi è orgogliosa di quella scelta. Il pettirosso e l’abbaiare dei cani rallegravano il silenzio delle rovine.     Niente luce elettrica, soltanto acqua dalla sorgente, un piccolo fornello a gas e, la sera, grandi pentole di pasta per sé e per i cinque cani che venivano a farle compagnia.
    Hel offre anche una sorta di etica del proprio lavoro quando dice che “tutto aveva bisogno di essere decifrato e interpretato, perché nulla, o quasi nulla, in archeologia, è mai esattamente ciò che rappresenta.     Perfino cose apparentemente indiscutibili possono nascondere un altro significato che bisogna scoprire con la pazienza”. E molte storie si materializzano in personaggi che comparivano nel campo aperto dello scavo.       “Attorno alla Mefitis si raccoglievano i pellegrini dei centri dell’Alto Basento. Ma venivano anche da     Paestum, da varie parti del mondo greco, dal nord Africa, dal bacino del Mediterraneo. Lo testimonia il ritrovamento di monete e oggetti votivi: una scoperta affascinante”.
    Hel sta dando voce e immagine ai suoi stessi ricordi, che interpreta con fervore inconsueto. “In questo santuario si celebravano i matrimoni. Gli uomini invocano Mamertius, una sorta di principe consorte della dea, che proteggeva soprattutto i guerrieri. Ma era un dio distratto dalle guerre, un dio di second’ordine. La Mefitis, col carisma della grazia femminile, lo aveva decisamente scavalcato nel primato del culto”.
    Mentre Hel racconta, intorno si è formato un piccolo uditorio… di cani. Ne conto cinque, tanti quanti erano, vent’anni fa, i randagi che si ritrovavano tutte le sere davanti al suo capanno per proteggerla durante la notte in cambio di cibo e di confidenza.
    “E le notti erano scandite, oltre che dal mio respiro, dalla presenza degli animali: dalla volpe, dal tasso, dal lupo, anche dal lupo che metteva in subbuglio i pastori”.
    Dalla masseria, lassù in alto, ci giunge intanto il richiamo di una donna che sta scendendo quasi a precipizio lungo il viottolo che divide la zona archeologica dal podere, con mucche pecore, e galline che starnazzano da tutte le parti. Hel riconosce, dalla voce, la donna che ci viene incontro. Sono trascorsi molti anni, ma le due donne si salutano con grande effusione.
    “Pulivi le statuine di creta col pennello bagnato nel vino, e mio marito si dispiaceva per il vino” dice la donna, che ci ha portato in dono pane formaggio salame e un vinello gioioso, dissetante.
    Hel è confusa. Dietro a ogni scoperta, dietro a tante storie violate e rivelate, c’era sempre la curiosità e l’eccitazione degli amici della masseria, che oggi la festeggiano. E si siedono tra le pietre – la donna, il marito, i figli e i cani – a ripetere, a riascoltare una vicenda comunque esaltante.
    “Il tempo passato risorge se il presente lo vuole far risorgere” dice Dinu, alla stregua di un oracolo, sotto la quercia dove si è fermato a prender fiato. E scende nei dettagli da cui nasce un’immagine festosa del luogo: i pellegrini che pregano e danzano tali e quali a quelli di oggi; gli esorcismi contro gli spiriti del male.     Inteneriscono la passione, e la figura, di questo archeologo afflitto dall’età, che osserva, analizza e non perde il piacere di raccontare. Mala visita è finita.
    Il sole, che si va tingendo di rosso, annuncia il tramonto, un tramonto di quelli che sembrano inventati: l’estrema vanità di questo autunno.

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