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UN CALVINISTA RACCOGLITORE DI CIFRE

 

     Sulla vetta del Vulture, che merita una gita, provi l’emozione della scoperta. È il rifugio privilegiato del falco che quando appare e poi, lento e solenne plana nell’infinito, ti costringe ad ammirare il paesaggio, uno scenario verde che cambia di continuo intonazioni.
     È improbabile avvistare il lupo, che pure vive ancora su queste alture, ma il falco si, il falco cacciatore di queste parti, presenza leggendaria nel cielo della Basilicata, un cielo pieno di visioni. Oggi il falco è come un simbolo, plana su Melfi, nell’universo di Federico Secondo che ha lasciato alla storia e al mito una ricchissima eredità.
     Con tutte le suggestioni della narrazione storica, e con un po’ di fantasia, posso evocare le fastose cacce al falcone che animavano la vita del castello.
     Un custode mi ricorda che da Melfi partivano messaggi di buon governo e mi accompagna per una visita, breve e furtiva – non ho chiesto il permesso speciale alla Soprintendenza – nella sala del trono: un gesto che ha un particolare significato anche per me che pure mi considero di casa. Nell’antica solennità del luogo, sciupato da sciagurati restauri, Federico Secondo di Svevia, nel 1231, emanava le Costituzioni del Regno di Sicilia, un consistente motivo per esaltare i rapporti dell’Imperatore con la Basilicata.
     Un canonico, incontrato durante la visita al museo che raccoglie reperti della storia di Melfi legata all’etnia dauno-greca, mi invita a visitare la galleria diocesana di arte sacra, un autentico tesoro sotto il campanile del Duomo. Con amabilità gli ricordo che già tempo addietro, in anteprima, fui interessato alla ricca varietà di dipinti, sculture lignee, preziosi paramenti sacri, manoscritti e quant’altro era riemerso dall’ombra dei secoli, appartenenti al patrimonio della millenaria chiesa melfitana.
     Si torna perciò a parlare di Federico che a Melfi, a Castellagopesole e nei dintorni, “il parco delle uccellagioni”, si concedeva al suo svago preferito, la caccia col falcone. Nella chiesa rupestre di Santa Margherita, alla immediata periferia della città, in un affresco che gli specialisti hanno datato al tredicesimo secolo, l’Imperatore sarebbe ritratto, con tutto il fasto della corte, in una scena di famiglia. Al suo fianco la terza moglie, Isabella, il figlio Corrado e tutti i simboli federiciani, compreso il falco sulla mano inguantata. Federico ha il volto incorniciato da una rada barba rossa, un elemento che non è mai stato trascurato dalle cronache del tempo.
     Da questo insieme di indizi, tutti concordanti tra loro, e con molti elementi determinanti, uno studioso napoletano, innamorato dei tempi, dei luoghi e dell’opera dello Svevo, è giunto alla conclusione che in quell’affresco, opera di un ignoto anacoreta, si deve ritenere raffigurata l’unica vera immagine tuttora esistente dell’Imperatore. E un solerte rappresentante della Pro Loco, su questa singolare rivelazione, che però non pare abbia interessato più di tanto storici e storici dell’arte, ha costruito una campagna pubblicitaria per dare a Melfi un’altra opportunità di promozione.
     «Ma vi sono tante altre occasioni importanti per poter parlare, o riparlare di Melfi. Non dobbiamo dimenticare che qui è nato Francesco Saverio Nitti, il grande statista, il profeta della nuova Europa». Parla come un oracolo l’anziano insegnante che già tempo addietro faceva commenti accorati per il silenzio caduto su Nitti nella sua città.
     «È vero che i ricordi si fanno labili non soltanto per il tempo che passa ma per l’interesse che scompare. Ma ci vogliamo rendere conto chi è stato e cosa ha fatto Nitti?» Condivido, ma gli ricordo che con la sua aria sorniona e ironica, col suo modo secco di giudicare, col suo spirito ipercritico Nitti piaceva a pochi. E poi c’è ancora chi argomenta che, una volta a Roma, si sia dimenticato della sua terra e non l’abbia comunque favorita con atti di particolare provvidenza, non ultima l’aspirazione della città di Federico a diventare la terza provincia della Basilicata dopo Potenza e Matera.
     «Di lui è rimasto il brutto monumento nella villa» sentenzia ancora l’insegnante, il quale mi propone di visitare la casa dove lo statista lucano (più volte ministro e per qualche mese anche Presidente del Consiglio) nacque il 1868.
     È una casa-biblioteca, a due piani, non grande, tutta in salita, con lunga scala d’ingresso e ripida scala interna. Non senza emozione entro nel mondo familiare dell'”eroico intellettuale-imprenditore di spirito calvinista”, come lo definì con affettuosa ironia Giustino Fortunato, che lo accolse per una lunga frequentazione, insieme a Benedetto Croce, nella sua casa di Napoli.
     La biblioteca, dono della figlia dello statista, ha diversi scaffali con tanti libri di varia cultura. Da una parte gli scritti politici, finanziari ed economici di Nitti. Il mio accompagnatore prende un volume e lo apre ad una pagina che evidentemente è stata letta e riletta molto spesso. Legge: «Che significa la parole terrone? Se significa uomo della terra, ebbene io mi sento un terrone. La sorte mi ha fatto nascere in un paese di contadini dove è grande l’emigrazione e dove l’unica passione è la terra che essi hanno coltivato con tanti stenti e con tanto poco frutto. Io amo la ponderazione dei contadini anche se ammiro gli operai. Gli operai parlano e sono vivaci, i contadini meditano, sono più lenti, ma più sicuri».
     Perché proprio questo passo del diario?
«Perché qui Nitti si apre alle confidenze e fa capire qual è stata la sua origine. La madre, semianalfabeta, era contadina, e il padre, un garibaldino ostinato, non aveva né arte né parte. Lui rimase sempre molto legato alla madre».
     Sa proprio tutto sul suo illustre concittadino l’amico professore, che vorrebbe aprire una discussione su come Nitti avrebbe giudicato l’insediamento Fiat a Melfi. Risposta secca: «L’avrebbe visto con molto interesse, ma ai suoi tempi».
     Guardo un bel ritratto dello statista nel pieno della maturità bene in vista su di una parete della casa; mi metto a curiosare tra gli scaffali con tanti libri e tanti ritagli di giornali e in un vecchio manifesto commemorativo leggo una frase in cui emerge in maniera lapidaria la indisponibilità di Nitti alle concessioni sentimentali: «Io sono soprattutto un raccoglitore di cifre, una persona che fa uno sforzo costante, quello di non distaccarsi mai dalla realtà. Vi sono dei cervelli che volano nei cieli della speculazione, altri invece che restano con i piedi per terra. Io sono uno di questi».
     Il professore non ha indugi. «L’autostima» dice «Un atteggiamento che non piacque a Giustino Fortunato che fu maestro dei meridionalisti. Ma non piacque soprattutto a Salvemini che aveva chiamato «Ministro della mala vita» il Presidente del Consiglio Giolitti, il quale, a sorpresa, riferiscono le cronache, nel 1911 nominò Francesco Saverio Nitti ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio».
     Stima opportuno non continuare la discussione la signora che ci ha consentito di visitare, di prima mattina, la casa-biblioteca che si apre al pubblico soltanto di pomeriggio.
     Ora bisogna andare. Non sono venuto qui per un capriccio di distrazione. Il viaggio, o meglio, il pellegrinaggio sentimentale si deve concludere altrove.
     Il falco, un’immagine, un’idea che non mi abbandona, affronta i tetti della città. L’intesa (l’idillio) continua. Si vola verso Venosa.

 

One Response to Mario Trufelli, L’OMBRA DI BARONE – X. Un calvinista raccoglitore di cifre

  1. Patsy ha detto:

    F. S. Nitti meriterebbe un ricordo più ampio, che non tralasci la sua onestà di intellettuale.

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