XI

LEONI A GUARDIA D’ONORE

   Chi conosce Venosa sui libri e sulle guide turistiche, dove si coniuga ogni cosa al passato, è facile che poi pensi di trovarvi anche la casa dove nacque e visse Orazio. Nulla di più opinabile. Chi va alla scoperta di un’immagine, di un’emozione che lo possa collegare agli itinerari oraziani, deve contentarsi di una terma romana, la casa del «presunto Orazio», come la presentava un innocente custode, o della monumentale statua di marmo che i venosini eressero al poeta nel bimillenario della nascita.
     «È vero che Orazio nacque a Venosa nel 65 prima di Cristo, ma è anche vero che mori altrove e che nel luogo dov’era nato non tornò più». Veloce annotazione con la quale cerco di consolare una coppia di turisti stranieri che si aggirano tra i ruderi dell’anfiteatro romano alla ricerca della tomba del poeta. A tutta prima si sentono amareggiati e smarriti, ma poi scoprono che qualcosa di misterioso aleggia intorno, tra pietre e mura sepolcrali, tra le ombre dei ruderi della chiesa della Trinità che il sole allunga a dismisura, mutevoli come le nuvole. Curiosi, si immergono nel mistero del tempio incompiuto, che ha per volta il cielo. Di sicuro vivranno momenti di emozione davanti alla tomba dell’infelice moglie di Roberto il Guiscardo, la ripudiata, che sull’epigrafe del sarcofago ti avverte: «Qui giace Aberada, se vuoi sapere del figlio Boemondo sappi che è sepolto a Canosa».
     Ripasso un po’ di storia e mi conforta l’idea che nessun sospetto su quel che stanno vedendo i viaggiatori stranieri possa passare come una messinscena.
     Nell’aria si diffonde un sentore di religiosa malinconia e all’improvviso rivivo una sublime irrealtà. Si risvegliano voci e suoni, nel ricordo avanza una figura irrequieta, piccola di statura, il volto attraversato da due rughe profonde. È il poeta, traduttore di classici, Enzio Cetrangolo per il quale Orazio era un simbolo, lo specchio in cui riflettersi. Ha un basco nero sulla testa che gli mette in evidenza gli occhi scuri, lucenti, occhi saraceni. Ha sempre parlato di Orazio, anche nelle lunghe frequentazioni private, come di un compagno di strada, dell’uomo-poeta che dopo duemila anni gli rimandava lezioni di vita.
     Lo rivedo, Cetrangolo, in uno squarcio della memoria, seduto sulle scalinate dell’anfiteatro romano, a raccontare, a recitare versi come in un giuoco fantastico: «Una volta, nei tempi lontani, bambino, uscito un giorno dalla casa della mia nutrice Pellia, là sul monte Vulture, in Apulia, mi addormentai stancato dal giuoco. Le colombe favolose mi coprirono insieme alle foglie novelle. Che meraviglia si sparse fino ad Acerenza, elevato nido di aquile, fino ai pascoli di Banzi e alle campagne vallive di Forenza, al sapere com’io dormissi al sicuro dalle vipere e dagli orsi, col corpo ricoperto di mirti e lauri, fanciullo coraggioso, sotto la cura manifesta degli dei».
     Con la voce roca, sciupata dal fumo, Cetrangolo si esaltava quando parlava del carattere, libero da ogni soggezione, del poeta, il quale si vantò dell’umiltà della nascita anche quando il suo ingegno, la sua fama, lo avevano distinto dalla folla e lo avevano elevato alla pari dei potenti.
     «Venosa ha dato i natali al più lirico della letteratura latina, a un personaggio legato alle atmosfere e ai luoghi della «sua» terra, quella del «suo» fiume, l’Ofanto impetuoso, un nome epico che ritrovi al passaggio di un ponte».
     Parlava ispirato Cetrangolo. La voce, le cadenze con le quali continuava a recitare versi: «scendi dal cielo e un canto lungo intona, Calliope», mi risuonano nelle orecchie come un inno. Gli faceva eco Antonio La Penna, altro mirabile traduttore dei classici, a Venosa per il «Certamen Horatianum», competizione alla quale partecipano da anni studenti dei licei classici italiani ed europei.
     In perfetta sintonia i due studiosi rintracciavano quel geloso affetto che legava il poeta alla terra dov’era nato, «e che molto presto abbandonò. L’emigrazione, soprattutto quella intellettuale, era una costante anche ai tempi di Orazio, quando si guardava a Roma come alla meta più ambita, alla Roma imperiale».
     L’amico, che si è guadagnato sul campo la qualifica di storico per la competenza con la quale guida studiosi e turisti in visita a Venosa, ha avuto il potere di dissolvere le figure, il ricordo stesso di Cetrangolo e La Penna, mi riporta alle frequentazioni del quotidiano.
     Ha deciso che devo ritornare con lui – parla di importanti novità – nei camminamenti del castello del 1400. Non mi sottraggo all’invito. Si ripercorrono le varie epoche romane di Venosa, le raccontano soprattutto le epigrafi sulle pietre tombali, sui mosaici, sui cippi funerari con figure ad alto rilievo esaltate dalla solennità della morte. Qui si devono fare i conti anche con il passato più remoto della città. «L’elefante antico», un progenitore, pare, del Mammut era di casa sulle colline di creta che segnano il territorio.
     Tra gli accompagnatori occasionali c’è Giuseppe, l’operaio che per vent’anni ha scavato nei recinti archeologici. La scoperta delle zanne, lunghe quasi quattro metri, dell’elefante preistorico, è tutto merito suo. Ma lui non lo capi neppure quando arrivò un paleontologo e gli mise una mano sulla spalla per offrigli riconoscenza. Le zanne di quel pachiderma sono bene in vista, con altri reperti del periodo neolitico, nelle bacheche del Museo suggestivamente custodite nel castello, che solo da qualche anno ha ritrovato la dignità di contenitore culturale.
     Fuori, all’aria aperta, la vita di Venosa scorre tra piazze storiche e un lungo viale alberato, con palazzetti moderni, animati di gente più o meno affaccendata. Gli stupori sono rimasti nel castello: il passato trasmette sempre dei messaggi, non scivola via facilmente, si trasforma in sentimento, dà un’emozione quasi fisica.
     La «Puglia piana dove sta la mia patria e lo mio core», la Puglia che faceva tremare il cuore di re Enzo, lo sfortunato figlio di Federico Secondo, prigioniero degli aguzzini bolognesi, si apre al tramonto in un fuoco di riflessi.
     Sul piazzale del castello un gruppetto di anziani su due panchine di ferro sembra in posa per una foto-ricordo. C’è chi parla più degli altri e spia con la coda dell’occhio l’effetto che produce su di me: mi ha riconosciuto, ci siamo ritrovati, è Domenico, ex contadino, ex sindacalista, ottantacinque anni ma assai sicuro di sè e del tempo vissuto. Misi è piantato di fronte tra due leoni di pietra a guardia d’onore sul ponte levatoio: e pare proprio che la storia di Venosa la possono raccontare i leoni, che trovi dovunque, aggressivi o pacificati, anche davanti alle chiese.
     Domenico, del quale non raccolgo le nostalgie di fervente socialista, trascina gli amici nella sua passione municipale. «Se Orazio è nato qui, e non vi sono dubbi, gli antichi dicevano che camminava per le campagne avvolto in un mantello, perché non torna qui la sua tomba? Che bel colpo sarebbe per Venosa».
     A distoglierlo da simili fantasie ci pensa lo storico locale impaziente di abbandonare l’umile agorà. «La tomba del poeta sta bene dove sta, a Roma, sull’ Esquilino, accanto al tumulo del grande Mecenate».
     Il tono deciso, e quel «Mecenate» scandito, evocato come il nome di un eroe, produce quel particolare stato d’animo che solo il silenzio riesce a raccontare. Non si parla più. Nessuno si sente in grado, tra gli anziani della piazza, di prendere la parola. Si scambiano appena qualche battuta disadorna, così come disadorne sono le nostre poche frasi di saluto.
     Lungo il corso Vittorio Emanuele, lungo non soltanto in senso figurato, che taglia in due la città, nel bel mezzo di un vivaio di glorie locali (abbondano infatti le lapidi sui muri dei palazzi), sfilano le pietre miliari di Venosa. Antiche fontane che rievocano incontri di vicinato con i soliti irreprensibili leoni di pietra a guardia di nulla, ti danno suggestioni che, però, niente hanno a che vedere col tempo del poeta.
     A Venosa Orazio visse infanzia e adolescenza e per la missione che il destino gli riservava, questo ambiente «tra Apulia e Lucania», dove i romani avevano una colonia militare, concesse non poche occasioni alle sue profezie poetiche.
     Le voci, l’atmosfera sonora della strada si fissano nella memoria più di quel che si vede. Cammini, vai spiando gli umori della gente, le abitudini e pensi di percorrere, idealmente, le strade che rivelavano alla poesia di Orazio la pacata meditazione del mondo degli uomini.
     A Venosa il poeta latino fa notizia, si offre con generosità alla cronaca. C’è in molti la convinzione che il rapporto quasi ancestrale col figlio più illustre può dare molto alla cittadina lucana anche in termini di sviluppo culturale ed economico. Ma Orazio va tutto immaginato, qui, anche se da sempre sta nella testa della gente. Hai da risalire più di venti secoli di storia per poterlo ritrovare. Non è facile, ma non è impossibile.
     Attacco discorso con un commerciante che attende clientela appoggiato allo stipite della porta del suo negozio. Con quali occhi mi guarda, tra rassegnazione e ironia. Non incoraggia il dialogo, sta sulle sue, ma poi non rinunzia a dare dettagliate informazioni sulla «casa» di Orazio a un gruppo di turisti che si sono attardati nella visita alla città. «Se ce l’abbiamo, e nessuno ce lo può togliere, cerchiamo di approfittarne», dice. Saluta e si chiude la porta del negozio alle spalle.
     Orazio è una bandiera, tiene vivo l’orgoglio municipale. La segnaletica stradale è dappertutto, quasi ossessiva: «Venosa, città di Orazio».
     Lo storico locale sedotto dal poeta sul quale ha fatto fiorire la leggenda che accompagna i semidei, si mette a recitare versi, o qualcosa del genere: «Così dovrebbe parlare un poeta, ad ogni cantore la terra natia dovrebbe essere cara con i gravi e delicati contorni delle sue sacre colline». Parole dette tutte d’un fiato, a cantilena, come se evocasse la presenza del poeta che abbiamo di fronte, nel monumento, nel bel mezzo della piazza a lui intitolata.
     Una giovane coppia si fa fotografare ai piedi della statua, imponente, si, ma non convincente. L’occasione è festosa per la coppia, e per gli amici che si accendono di allegria. Il flash illumina la scena. È questione di un attimo e mi accorgo che è già sera.
     Nel cielo, sgombro di nuvole, «si svelano le stelle», e la luna non rinunzia a farsi notare.

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