POSTFAZIONE
Franco Vitelli

 

     Alla domanda del perché viaggiamo Consolo in Retablo risponde che certo vogliamo vedere nell’isola remota «i resti del passato», ma che «la causa vera è lo scontento del tempo che viviamo, della nostra vita, di noi»; troviamo qui la genesi della letteratura di viaggio in un processo d’insoddisfazione e fuga, sino a «morirne» e «vivere nel sogno di ere trapassate».
     Non mi pare di poter individuare in Trufelli la medesima matrice: quello che lo spinge a muoversi è una condizione di felicità mentale che, in quanto tale, vuole acquisire le tessere costitutive del proprio stato onde il ritratto e l’identità vengano fuori in tutta evidenza. Non c’è bisogno di andare lontano, basta rivisitare lo spazio circoscritto ma fecondo della terra d’origine: viaggiare da questo punto di vista significa ritrovare i luoghi dell’anima. E tale necessità imbriglia e condiziona l’itinerario, che non risponde all’esigenza di completezza documentaria, perché un requisito del genere si rivelerebbe di solo valore esterno e illustrativo.
     Questo libro non è un baedeker da consigliare a un turista se pure colto e intelligente, ma un’opera creativa che solo accidentalmente ha preso lo schema narrativo del viaggio. E quando dico accidentalmente mi riferisco alla natura delle scelte artistiche che si determinano nell’attimo, ma in realtà trovano sedimento in una pressione costante di lunga durata che ingloba urgenze diverse e talvolta contrastanti.
     La letteratura di viaggio come genere è di per sé ibrida, contaminata e disponibile a rispondere a disparate sollecitazioni. Trufelli lo sa e per questo se ne serve per proporre un suo modello nel quale confluiscono a livello strutturale la notizia che possa rendere accattivante la visita di un posto ovvero la curiosità divertita, la digressione narrativa, l’invenzione o la chiamata in causa di personaggi funzionali, l’inserimento di interviste che hanno fatto epoca. Queste e altre componenti trovano modo di intrecciarsi fra loro, determinando così una vivacità di scrittura che rappresenta la nota dinamica del libro.
     Lo status di giornalista televisivo e della carta stampata non ha vincolato l’autore alla redazione di resoconti analitici in forma di reportage, ha agito in lui l’altra natura, che è prevalente anche rispetto al mestiere che gli ha dato notorietà e prestigio. È la primaria vocazione alla poesia che ha condizionato il taglio del libro e prodotto talvolta una lievitazione espressiva che consente di rintracciare veri e propri componimenti disseminati, una volta eseguita la scansione in versi: «Il merlo ha abbandonato / il cipresso, saltella sulle tombe, / il perimetro è ridotto, / ma l’uccello, spirito irrequieto, / stimola il dialogo tra tante assenze». In verità, possiamo registrare anche il processo inverso, giacché Trufelli mostra sensibilità per la poesia odeporica. Ciò è il segnale di una peculiare, fruttuosissima osmosi.
     Il lettore non troverà – si diceva – una rappresentazione plenaria con tanto di fermata alle stazioni di rito o che più ci si aspetta. I simili con i simili assai facilmente s’incontrano: perciò torna proprio recarsi sui luoghi della poesia, in quanto più reattivi e congeniali. Non è la pratica di un culto feticistico, ma il modo migliore per ritrovarsi, tant’è che questi capitoli occupano buona parte del libro. Non solo, ma la tendenza è in grado di esercitare dominio, assorbendo ogni altra istanza. Si prenda la Valle dell’Agri. Qualsiasi altro viaggiatore avrebbe per certo concentrato l’attenzione sul problema del petrolio tra royalties e salvaguardia dell’ecosistema. Trufelli non può, per la semplice ragione che a galleggiare sul petrolio è Montemurro, la patria di Sinisgalli, l’amico oltremisura caro e maestro di tradizione poetica. Certo, incide anche il fatto che non è giornalista socio-economico, sì piuttosto giornalista culturale, osservatore partecipato di umanità e di costumi; ma qui la circostanza è secondaria, e casomai può essere invocata per la FIAT di Melfi, dove la quaestio sull’opportunità o meno di insediare il grosso stabilimento industriale è risolta nella battuta dell’amico professore, secondo il quale Francesco Saverio Nitti «l’avrebbe visto con molto interesse, ma ai suoi tempi». Ambedue gli esempi potrebbero indurre a collocare Trufelli, in buona compagnia, nella linea «dei traveller nostrani in patria», che per Luca Clerici si esprime in «un atteggiamento risolutamente antimoderno». Pur riconoscendo il grande peso che la civiltà contadina ha avuto nella formazione di Trufelli, non credo che a ciò si debba attribuire un vincolo conservatore e nostalgico, tanto vero che in tema d’arte, ad esempio, le sue preferenze vanno verso la linea astratta e d’avanguardia. Il comportamento tenuto nei confronti dei due eventi della civiltà industriale dipende piuttosto da opzioni attinenti alla poetica che da prerogative ideologiche.
     Un aspetto che sicuramente colpisce è l’assenza dei due capoluoghi di provincia: Potenza, la città della sua residenza non solo professionale, di una professione che gli ha dato molto; Matera, la città dov’era passato a formarsi in un attivo commercio di scambi culturali. Un piccolo senso di colpa si coglie nel libro, tant’è che viene affidato ad Adamesteanu il compito di rievocare, in lontananza dalla montagna di Serra di Vaglio, le due realtà; il che prova la difficoltà a intervenire direttamente. «Potenza può anche suscitare qualche interesse, può anche piacere a chi la vede per la prima volta, da lontano, e magari da questo osservatorio a millecento metri di altezza, tra i guizzi delle calandre che fanno festa al visitatore»; con significativa distinzione Dinu afferma che a Matera «l’uomo della preistoria, non dai Sassi, ma da Murgia Timone [gli diede] emozioni assolutamente nuove». A parte la difficoltà obiettiva di bruciare in arte una realtà quotidiana estremamente vischiosa, da una parte, e dall’altra il rischio di riproporre un mondo quasi in deficit di portata mitologica per eccesso di visitazione, a me sembra che le ragioni della scelta consistano nella volontà di recupero, di restituzione a centralità del complesso variegato mondo dei paesi. Un’operazione peraltro d’indubbia efficacia, perché condotta con strumenti di fascinazione poetica, senza provocatorie contrapposizioni anzi al fine di suggerire un’opportuna integrazione.
     In questo libro troviamo non solo la reinvenzione dei luoghi e della storia, ma anche l’entrata in gioco di personaggi centrali, che attraverso il loro agire connotano la modulazione dialogata della scrittura e fanno progredire l’azione del racconto. Ciò è reso possibile anche dall’utilizzo di interviste tirate fuori dall’archivio della memoria e della Rai, che vengono piegate al contesto d’arrivo, ricevendo così una rinnovata fruizione; e c’è poi la suggestiva evocazione dei morti che fa rivivere in una «specie di sortilegio» presenze care: Sinisgalli ovviamente e Cetrangolo, traduttore di Orazio e perciò ombra familiare a Venosa.
Si dimostra abile il nostro anche nello sbozzare ritratti con poche rapide pennellate; si pensi a Nitti, definito da due azzeccate citazioni autobiografiche («sono soprattutto un raccoglitore di cifre» e «amo la ponderazione dei contadini, anche se ammiro gli operai») o al pastore sui generis, esempio ulteriore e singolare di scrittore analfabeta. E, per quel che riguarda Sinisgalli, entriamo festosi a godere del suo «tempo innamorato», uscendone avvertiti dall’ammonimento del poeta: «E finiamola una buona volta di guardare a Sinisgalli come a un triangolo equilatero, a un teorema, a un’operazione algebrica».
     Nonostante la riluttanza dell’autore (che però sparge numerosi segnali) non è fuori luogo chiarire la fisionomia del Trufelli viaggiatore. Egli si trova intanto nella fortunata posizione del testimone, che sa di cose e persone, può dire e dice “io c’ero”; ma questo filo autobiografico, di una qualità che si fa storia, non impedisce, tutt’altro, di accedere alla libertà creativa del “vagabondaggio” e “vagabondo” diviene persino Pindaro esploratore della bella amabile dolce terra che attorno al Siris gravita. Viaggiatore non occasionale e pieno di curiosità, Trufelli cerca di memorizzare il più possibile, ma in fondo non è l’accrescimento della conoscenza che anima il suo andare, è viceversa l’esperienza di «un pellegrinaggio sentimentale» che si fonda sull’emozione. La condizione trepidante e viva sembra il tramite migliore per mettersi in sintonia col mondo, essere dentro di esso per conoscere se stessi. Il viaggio si realizza nel tempo-spazio, la memoria apre il varco alle contrade del passato, dove si può incontrare l’antenato lucano ricco e potente che smentisce lo stereotipo della miseria o la grandezza di Metaponto già città di Pitagora e delle «filosofe». Ma il viaggio non è senza una dialettica con lo stato presente: «Metaponto è oggi una fiorente distesa agricola, tra il Bradano e il Basento, con quel tempio dorico che si è fatto riferimento storico e simbolo delle città morte». E, d’altra parte, non è un caso che sia Dinu Adamesteanu, quello che era apparso nella veste di un Pitagora reincarnato, a pronunciare quasi in oracolo che «il tempo passato risorge se il presente lo vuole far risorgere».
     Ed è frutto della memoria, della «liturgia dei ricordi», la parentesi narrativa che si afferma, pour cause, nel paese natale: la figura del nonno, responsabile dell’orologio della piazza, restituisce uno spaccato della famiglia e della comunità, dagli anni Venti al tempo di Scotellaro, sindaco “pelorosso”, che incautamente o per ragioni di economia aveva abolito un ufficio apparentemente ordinario.
     Non si trovano concessioni ad albagie e rivendicazioni municipali; smonta ogni insorgenza la vena ironica che più di una volta fa capolino. Le pretese di chi vuole la tomba della Gioconda a Lagonegro sarebbero smentite dalle diavolerie elettroniche: la Gioconda altri non è che Leonardo ringiovanito; e la presunta casa di Orazio a Venosa per formidabile lapsus di un custode si trasforma nella “casa del presunto Orazio”. Gioca anche, il nostro, e si diverte, ma come si fa ad escludere il lusus dal viaggio?
     Trufelli lo avrà pensato: la scelta di un titolo come L’ ombra di Barone, con superba e un po’ enigmatica metafora, comporta un posizionamento di campo. Barone era “il fedele e mitico cane” di Levi, ed è naturale che con la sua ombra “aleggia l’ombra arguta di don Carlo”. Bisogna comunque fare i conti con l’uomo mandato da Torino, che scelse la Lucania come sua patria elettiva e categoria dello spirito: andare oltre è saggio e insieme necessario, tagliare le radici insensato. Tra saggezza e insensatezza oscilla appunto l’agire umano, di qui un titolo a memento.

 

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