Su iniziativa e per esclusivo merito delle RCE Multimedia edizioni ritornano nelle librerie le poesie di Rocco Scotellaro. E’ un evento che Rabatana saluta con piacere e soddisfazione, consapevole che il contributo divulgativo delle opere in versi e prosa di Scotellaro, dato dal blog, non può soddisfare il bisogno e il maggior vantaggio di leggerle su belle edizioni cartacee. Ed è veramente bella e ricca di significati la nuova edizione dell’opera poetica di Rocco Scotellaro per la sua semplicità, che si unisce all’elegante  accuratezza della dimensione del volume, dello spessore dei fogli di carta in colore avorio e della copertina in cartoncino plastificato dello stesso colore leggermente sfumato.

        Il nome dell’autore, reso con la riproduzione del suo autografo, e la semplicità del titolo – Poesie – sono la cifra della nuova edizione, con la quale si è veramente restituito Rocco Scotellaro a Rocco Scotellaro. Questa semplicità lascia sperare nell’uscita di un secondo volume delle Prose, ispirato alla stessa cifra. Il prof. Manlio Rossi Doria, nella Presentazione di «Margherite e Rosolacci», pubblicate nello Specchio mondadoriano nel 1978, scrive che non conosciamo quale destinazione Rocco Scotellaro avrebbe dato a queste altre numerose poesie. Non conosciamo perché a Rocco fu negato di dare qualsiasi destinazione alle sue poesie, compresa quella del contratto con la Mondadori. «Rabatana» non ha mai nascosto di non condividere la revisione «diplomatica» di Franco Vitelli del 1982, che in verità non restituì Scotellaro a Scotellaro, ma lo divise. Durante le ferie estive, appena trascorse, ho letto prima tutte le poesie di Scotellaro  secondo l’ordine dell’Oscar mondadoriano del 2004 e, quindi, secondo l’ordine cronologico dato dal nuovo volume. Ho provato la sensazione sconvolgente di letture diverse e che la sola destinazione delle poesie di Rocco è quella che il suo crudele destino gli costrinse a lasciare. Rimasero le sue poesie, come le aveva scritte giorno dopo giorno nel breve arco di una vita, durata appena tredici anni, dal compimento degli studi liceali a quel fatale 13 dicembre 1953, ci rimase il diario in versi di un breve arco di vita.

        La nota editoriale, come prima cosa, sottolinea questa importante novità dell’edizione, non mediata o liberamente interpretata, e contestualmente riconosce che tale risultato è stato reso possibile dal prezioso e amorevole lavoro di ricerca, di sistemazione filologica (e, aggiungerei, critica) e di datazione, che ha impegnato per mezzo secolo Carlo Levi, Manlio Rossi Doria, Franco Vitelli e, in un incessante lavoro di ricerca, Rocco Mazzarone.

        Chi prende in mano questo bel volume, in cui sono pubblicate 477 poesie (qualcuna in più delle poesie pubblicate nell’Oscar mondadoriano del 2004 a cura di Franco Vitelli), ben leggibili nel loro carattere in corpo 14, mi pare, tenga presente che Scotellaro utilizzava il primo pezzo di carta a portata di mano: ricette mediche, ricevute di ristorante, buste da lettera, circolari, quarti e frammenti di foglio e altro[1]. Anche per gli appunti dell’Uva puttanella Levi rilevò, dal modo in cui li trovò trascritti, che Rocco aveva «l’abitudine di mettere su carta (e spesso su foglietti microscopici, scatole di cerini, risvolti di buste, pagine di quaderni, pacchetti di sigarette) ogni cosa veduta, ogni immagine e sentimento ed espressione[2]». E chi, in ragione della sua tarda età, come la mia, ha avuto modo di seguire dall’inizio l’immane lavoro di mettere ordine nella confusa montagna di carte sparse, lasciate da Rocco – un vero lavoro in miniera – non può non provare profonda commozione.

        Il testo autografo, riprodotto in copertina, della poesia Il giardino dei poveri (p. 155), scritto su una pagina di quaderno a quadretti o a cancelli, dedicata a Giuseppe Antonello Leone, al quale è dedicata pure la poesia Vagabondo (p. 235), suggerisce commoventi rinvii a belle pagine di letteratura e di esemplari storie personali, alle quali, per ragioni di spazio, posso dedicare brevi accenni.

        L’espressione «quaderno a cancelli» si legge nel primo verso della poesia «Dedica a una bambina»:

Questo piccolo quaderno a cancelli

l’ho scritto per te di cui non parlo

per i tuoi occhi chiusi e i tuoi capelli

di cera, il naso che non può fiutarlo.

Se chi spacca la pietra trova pietra

e chi la noce verde per piacere

e la fatica è vana e vergognosa,

bambina come uccello senza piume

che volevo volasse, io accendo un lume:

la tua gloria di vetro, spina e rosa,

è da questi cancelli il mio piacere.

        Con questo titolo Carlo Levi inserì la penultima sezione della raccolta del 1954 «È fatto giorno» da lui curata ed è stato poi dato a un suo libro postumo. Verso la fine del 1972 Carlo Levi subì il distacco della retina. Fu operato ai primi di febbraio del ’73 e, malgrado l’assoluta cecità, riprese a dipingere e cominciò a scrivere il suo ultimo libro. Scritto a mano libera in un una prima fase; poi, apparsa evidente la difficoltà dell’impresa, con l’ausilio di una sorta di scrittoio da lui stesso ideato: un «quaderno» di legno a cerniera, munito di cordicelle tese tra le due sponde per guidare la mano, probabilmente in sotterraneo richiamo al Quaderno di prigione», scritto nel 1935 nel carcere romano di Regina Coeli; ma più probabilmente in sotterraneo richiamo alla citata poesia di Scotellaro. Il quaderno a cancelli delle classi elementari, che guida le mani dei bambini e aveva guidato la mano della bambina morta, a cui Scotellaro dedica la sua poesia, potrebbe aver ispirato Levi ad ideare il suo scrittoio della cecità e il titolo del suo ultimo libro. Tanto più che Scotellaro fu una presenza costante nei pensieri e negli affetti di Levi. Giovanni Russo, dal canto suo, afferma con certezza che l’espressione «quaderno a cancelli» risale in realtà a Rocco Scotellaro[3].

        La pagina di quaderno a cancelli pubblicata in copertina rimanda, inoltre, alla fotografia pubblicata in quarta pagina di copertina, dove sono ritratti Rocco Scotellaro, Maria Padula (moglie di Giuseppe Antonello Leone) col figlio Giuliano e Leonardo Sinisgalli alla Masseria Padula. La fotografia allarga l’orizzonte delle alte relazioni culturali di Rocco Scotellaro, già prima che conoscesse e stabilisse il legame di affetti e condivisioni con Carlo Levi e Manlio Rossi Doria.

        Focalizzo su Maria Padula l’attenzione per la quarta pagina della copertina, dedicando tuttavia solo rapidi accenni in uno spazio limitato. Pertanto, invito chi abbia o maturi interesse a leggere la biografia pubblicata dalla Enciclopedia Treccani online.

        Maria nacque a Montemurro  il 12 gennaio 1915 da una relazione fra una contadina, e un uomo la cui identità è rimasta ignota, il quale non volle riconoscerla. Accolta sin dall’infanzia da una famiglia in vista del luogo, i Padula, che tuttavia erano troppo anziani per poterla adottare; fu dunque adottata legalmente soltanto nel 1933 dalla coppia di facoltosi proprietari terrieri senza figli formata da Rosina Padula e Nicolino Padula, cugino e marito di Rosina. Grazie alla famiglia adottiva, appartenente alla borghesia terriera e professionale di matrice liberale e repubblicana (Nicolino era avvocato e Rosina era nipote di Vittoria Albini, a sua volta sorella di Giacinto Albini, governatore garibaldino della Basilicata), la giovane Maria poté ricevere un’educazione culturale di ampio respiro, in una casa fornita di una biblioteca ricca di classici, di testi di diritto e di letteratura europea dell’Ottocento, dove si discuteva frequentemente di temi sociali. La madre adottiva, donna colta ed evoluta, suonava il pianoforte e dipingeva. A contatto con questi modelli Maria andò sviluppando una personalità forte e autonoma, originale rispetto ai canoni tradizionali della femminilità vigenti all’epoca, in specie nell’Italia meridionale rurale. La sua spiccata spiritualità e la sua sensibilità per le problematiche sociali furono inoltre influenzate dall’assidua frequentazione del vescovo di Tricarico, monsignor Raffaello delle Nocche, i cui insegnamenti incisero sulla sua educazione morale. L’interesse per l’arte e, nello specifico, per la pittura, maturò in Maria da adolescente, in particolare durante uno degli inverni trascorsi a Napoli con la famiglia adottiva. Coltivò poi il suo interesse prendendo lezioni private e con studi accademici presso l’Accademia delle Belle Arti di Napoli.

        All’inizio del 1943 si sposò con Giuseppe Antonello Leone, artista che aveva conosciuto durante la frequenza dei corsi all’Accademia di Napoli e che era stato richiamato al fronte nel 1942. Il 17 settembre del 1943 nacque a Montemurro il primo figlio della coppia: Nicola Giuliano, ritratto nella fotografia. Ritiratasi nel suo paese natale, la pittrice vi dipinse in quegli ultimi anni di guerra alcuni intensi ritratti, tra cui il Ritratto di Leonardo Sinisgalli.

        A metà degli anni 40 Leone incominciò a svolgere un’attività didattica a Potenza, dove entrò in contatto con intellettuali e artisti autoctoni e non, di cui la Basilicata era ricca in quegli anni densi di eventi e cambiamenti sociali e culturali – dalla pubblicazione del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi allo svuotamento dei Sassi di Matera in seguito agli studi sociologici di Frederic Friedmann, con il conseguente riassetto urbanistico materano – che focalizzarono l’attenzione nazionale e internazionale sulla regione. Nel clima culturale surriscaldato del secondo dopoguerra, caratterizzato in arte dalla polemica fra realisti e astrattisti, con il suo portato ideologico, e nei drammatici anni delle lotte per la riforma agraria, si formò in Basilicata un nucleo di artisti e intellettuali accomunati dall’attenzione alle problematiche sociali della terra lucana e del Mezzogiorno in genere. I coniugi Leone-Padula allacciarono rapporti durevoli con diversi personaggi appartenenti a quel milieu, come Rocco Scotellaro, Raffaele Nigro, Michele Pergola, Mauro Masi, Michele Giocoli, Francesco Ranaldi, oltre che con lo stesso Levi e con il meridionalista Manlio Rossi Doria. Dunque fu in questo contesto che si andò a inserire l’opera di Maria Padula e di altri protagonisti, negli anni Cinquanta, dell’emigrazione intellettuale lucana verso centri come Napoli, Roma, Firenze, Milano.

        Maria iniziò poi un’attività di scrittrice, che avrebbe affiancato a quella pittorica. A Vietri scrisse infatti la prima stesura del romanzo autobiografico Il vento portava le voci, che, nonostante il giudizio positivo di Sinisgalli, il quale le aveva consigliato di pubblicarlo subito, fu invece da lei lungamente rielaborato nel tempo.

        A Napoli i coniugi Leone entrarono in contatto con diversi artisti e intellettuali, fra i quali Vasco Pratolini, Domenico Rea, Luigi Compagnone, Ugo Piscopo, lo scultore Giovanni Tizzano, e in quel periodo Maria incominciò a collaborare a vari periodici pubblicandovi scritti di carattere critico, letterario e politico-sociale, attività che avrebbe proseguito fino agli anni Ottanta.

        Maria seppe inoltre conciliare la pratica della pittura e della scrittura e i compiti di docente e madre con l’impegno sociale e politico, rivolto in particolare alle problematiche della condizione femminile, occupandosi attivamente, fra gli anni Sessanta e Settanta, della difesa dei diritti delle donne, attraverso la sua militanza nell’ambito della Sinistra parlamentare e dei gruppi di base cattolici. Il riflesso delle sue posizioni ideologiche si coglie esplicitamente nel soggetto del dipinto Manifestazione, del 1970, raffigurante una protesta operaia.

        Morì a Napoli il 10 dicembre 1987 e venne sepolta nel cimitero di Montemurro. Il 22 maggio dell’anno successivo fu insignita in Campidoglio del premio postumo Olympus, indetto dal Corriere di Roma.

        Di Leonardo Sinisgalli, nato a Montemurro nel 1908, non occorrerebbe neppure dire. Poeta e scienziato, allievo prediletto di Enrico Fermi, lavorò per la grande industria (Olivetti, Pirelli ecc.); fondò e diresse, fino al 1958, la rivista «Civiltà delle macchine» (1953-79) e una rivista di design, «La botte e il violino» (1964-66). La sua lirica si riconnette alle esperienze e al gusto dell’ermetismo e appare modulata su due toni prevalenti: uno epigrammatico, che traspone in un denso analogismo ogni motivo autobiografico; l’altro elegiaco, che in particolare influenzò Scotellaro, e che riammette quell’autobiografia come trama di ricordi, sogni e rimpianti dell’infanzia perduta, con cadenze narrativo-prosaiche.

        Anche le opere di Sinisgalli sono sparite dalle librerie per ragioni forse e senza forse non commendevoli. Bisogna cercarle in biblioteche private o in vecchie antologie scolastiche.

          Giuseppe Antonello Leone si è spento recentemente, all’età di 99 anni, il 26 giugno 2016. A Tricarico si ricorda la consegna e presentazione da lui fatta di recente, nonostante il peso degli anni, del busto in bronzo di Rocco Scotellaro.

 

[1] Giovanni Battista Bronzini, L’universo contadino e l’immaginario poetico di Rocco Scotellaro, Edizioni Dedalo, Bari 1987, p. 229.

[2] Carlo Levi, Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia, Einaudi Editore, Torino 1955, p. 6.

[3] Giovanni Russo, Carlo Levi segreto, Dalai editore, 2011, p. 133.

 

One Response to Ritornano nelle librerie le poesie di Rocco Scotellaro (Una nuova pubblicazione delle RCE Multimedia Edizioni)

  1. Domenico Langerano ha detto:

    Caro Antonio, come sempre é utile leggerti TUTTO: si riordinano nel cervello parecchie cose!
    Un abbraccio
    Mimmo
    PS
    Ma quando vieni?

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