I RACCONTI

UNO SI DISTRAE  AL BIVIO

 

I

Io Ramorra l’avevo nell’anima da un pezzo.

Un giorno mi si presenta a fior di specchio e mi fa che vuole un romanzo tutto per sé.

– Ed io come faccio? – Gli dico. – Un romanzo? E’ una parola!

Lui Ramorra stava a scrutarmi, il suo ciglio non batteva  da impressionare – Senti – mi disse subito  prendendomi la  spalla.

– Oh Ramorra cosa dici! – feci per oppormi.

Il suo ciglio ancora non batté: – Io dico che si crei una  atmosfera, subito, e che duri pochi secondi, come d’un tramonto, di un’alba. Ascolta.

Tese lo sguardo, volse la tenda del mio balcone da una  parte aprì. Entrò in camera il suono delle campane a morto:  – Ascolta, – ripeté, – ti basta. – Rimasi ad ascoltare.

– Non sai che dicono le campane e i casolari a questi rintocchi, – mi disse, tu non lo sai.

– Vedo e sento – gli risposi – credo di saperlo.

– Ecco che lo sai, non c’entrano trame e personaggi e ambienti e costumi. La commozione è un fluido. Ti basta che scorra tra noi e le cose. Qui, vedi, è la montagna di Santabate, che tu conosci -. Fece l’indirizzo con una mano. – Lì, sulla  rotabile che fa curva, la montagna di Santabate, merlata di  pochi alberi, che prende mille colori al giorno, con mille significati ogni volta che la riguardi: gioia e dolore e mistero: e  tu dici come senti, e basta.

– Ma? – gli chiesi intontito.

– Beh, senti, io voglio un romanzo da te. Io te lo dico che sei adatto, perché sai ricevere e conservare per disperdere a tempo. Devi parlare di noi due amici inseparabili che non ricordiamo più la nostra amicizia quando incominciò.

– Ma! – lo implorai.

Egli non volle più spiegarsi, con un gesto deciso scattò le mie ultime riserve e disse: – Soffro, di non vedermi multato. Mi sono fermato in un punto. Numerose strade mi chiamano. Io resto al bivio ostinato a non mettermi per nessuna di quelle strade, se il ciclo della mia gioventù prima non si conclude e non resta documentato, glorificato. Soffro, ho sofferto. La prova che ho veramente vissuto me la dai tu, come  ti dico.

– Perché? Un giorno moriremo, Ramorra. Senza rimpianto di noi stessi, qualunque cosa noi avremo fatto in vita.  Hai sentito le campane?

Ramorra: – E che? Vivere è appunto illudersi di non morire mai.

-Io sono già morto così come sono. Non ho binocoli, la montagna di Santabate è la stessa sempre, nella valle c’è il cimitero, le campane suonano a morto. Ramorra.

– Appunto, proprio. Pensa ai morti, pensati morto, un  morto che può risuscitare.

– Ramorra quanto sei buono! posso dunque sperare nella resurrezione?

Così detto, incominciai. Lui si sfregò le mani e stette a  sentire.

Un giovane camminava sulla sponda di un fiume. Ogni  tanto guardava il cielo o scavava nell’arena. Trovò un osso, doveva essere di cavallo. Fece qualche passo, un altro osso ancora, doveva essere di cavallo.

L’acqua trasportava una giubba.

Guardò la cima di un monte con un uomo a cavallo. Poteva pensare a cose belle, forse meravigliose, e tristi; tutt’a un  tratto dovette accorgersi che lo scricchiolio dei suoi passi gli dava fastidio da non poter più pensare, e se ne ritornò correndo, né poté scorgere una delle sue orme sull’arena.

Ma rivide gli ossi, l’uomo a cavallo, la giubba. Vide anche un vecchio al quale si avvicinò: Dite buon uomo, – chiese – sempre ritornando dove posso arrivare? – E quegli senza scomporsi: – E dimmi, figlio mio, sempre andando avanti io  dove vado a finire?

Si abbracciarono, si sedettero sulla sabbia.

L’acqua del fiume correva e venne la sera.

Ramorra si compiacque di questo inizio ed io continuai.  Ed ecco quello che disse alla mamma il giovinetto Giorgi  Ramorra, appena arrivato: – Ieri sera ci hanno proibito in  collegio di giocare alle carte. Ce ne andammo a letto, mentre di fuori le bande suonavano le rapsodie e un uomo appoggiato al muro, molto commosso, diceva che le stelle non si possono  guardare. lo diceva ad alta voce.

E questa è l’ultima notte che Giorgi Ramorra dorme in convitto. In convitto è stato un anno solo. Se proprio i treni non deragliano, dovrebbe essere a casa domani. Stanotte Ramorra non ha chiuso occhio, ha fissato la luce rossa e le cose immobili. Ecco, ha pensato Ramorra, sempre così. Pace, tranquillità, nessuno che sfotte. Le braccia tutte le posso scoprire, ché nessuno me le guarda con la cotichina: ma posso addirittura cacciarmi fuori con le gambe. Gli altri dicono che sono di legno le mie gambe, e posso far le capriole come le so fare io. O piuttosto posso recitare come mi viene. Tutto è silenzio nella camerata. Tutto è silenzio. E in questo silenzio uno assapora i suoi sogni ad occhi aperti. Quante cose potrebbe essere nella sua vita Ramorra! Giocatore di calcio. Terzino, ma se fosse più grasso. Ecco: entrata di Ramorra, gli attaccanti tornano alle basi di partenza. Scavalcando tutti Ramorra a tu per tu col portiere! ma gli sfugge il pallone. Che fa? La scalata è unica nella storia del calcio. Anche portiere potrebbe essere: un po’ più alto, che cosa non parerebbe! la  banda suonerebbe uno squillo di tromba ad ogni parata!

Perché tutto è silenzio e quando tutti dormono e si è a pochi minuti dal sonno, ognuno si sente incomparabilmente grande. Ramorra potrebbe fare lo scienziato e abiterebbe in campagna con un bastone che caccia prodigiosamente le cose di cui si ha bisogno. Filosofo, il più grande filosofo, con i  capelli arruffati alla nuca e un po’ di cipria al mento. Sulle piazze direbbe che Dio non esiste, altrimenti lui non era povero e gli altri non gli facevano frizzi e il mondo non andava  a passeggio con i fattacci degli altri. A scuola boccerebbe tutti in filosofia. Questa scienza per la quale tutti sono morti di crepacuore, Socrate morì di crepacuore filosofico, per la quale  è impossibile non avere barba e capelli lunghissimi perché  l’umanità è pezzente, impossibile è andare passeggiando senza  chiacchierare con se stessi. Per le strade affollate Ramorra: – Pensate alla metempsicosi, signorina. Il pavone è per voi adattissimo, sareste a starnazzare nel pollaio vantando la vostra bellezza; reincarnandovi potreste vendicarvi di tutte le signorine più adorne di voi che generalmente odiate di tutto  cuore. – Per le strade affollate Ramorra quel giovinotto lo  acciufferebbe delicatamente, altrimenti abbandona le gambe  e si mette a strimbellare una canzonetta da jazz: – Scusate.  Piacere, Ramorra. Cosa è la metempsicosi, giovanotto? Ah, non lo sapete! eppure è il segno della distinzione, vi dico io:  come per voi la cravatta alla moda, per la signorina che passa  la calza (guardate la linea delle caviglie!) Tutti abbiamo una  idea fissa. Sediamoci; prego, parlate anche voi. L’idea fissa di diventare un giorno proprio quello che non potremo mai essere. Si tratta quasi sempre di idee fisse illegittime. E la natura o chi per essa si burla di noi e riveste, per esempio,  con le penne della cornacchia chi, senza avere un motivo legittimo, passò notti insonni a preparare discorsi e declamazioni e poesie o desiderò di cantare alla radio.

Ramorra, nell’ultima notte al convitto, sentì russare qualcuno. A quell’ora davvero nessun filosofo pensava alla metempsicosi, nessun filosofo, né il suo professore.

Fece capriole per dimenticare che poco fa diceva fesserie.

Sentì il fruscio della guardia notturna, si nascose sotto le coperte e pensò che la guardia notturna sarebbe stato il suo  angelo custode nell’altro mondo. Volle poi pensare di dormire: si sarebbe svegliato in un’ora esatta del tempo per gustare gli ultimi istanti di pace prima del trillo del campanello.

Intanto l’orologio scandiva le due e un vento forte faceva fischiare le tettoie e scapigliava le tende delle terrazze, qualche gronda strisciava ai muri. Si annunciava questo vento come una sirena, poi era fragoroso come il treno e infine andava a posare calmo, misera folata, su una casetta di campagna, dove la stessa vicenda si ripeteva, ché proprio in quel mentre  un altro vento si annunciava come una sirena e così via.

Dormì due, tre ore e il vento inutilmente infuriava. Dormì due, tre ore di seguito senza cambiar fianco, ma si levò di soprassalto con le mani tremanti che stringevano le lenzuola: non aveva, a sera, fatto il segno della croce e se lo fece, molto compunto.

Ma, vediamo un po’; non era solo per il segno della croce;  egli aveva sognato, si sentiva pieno di tenerezza e di stupore.  Che cosa cercava con gli occhi stralunati in giro per la camerata? Un uomo coricato per terra? Dove?

Ecco: Ramorra poco fa sognava di trovarsi nella cameretta. Ha gettato ora via un romanzetto giallo che non gli interessa. Sulla copertina due negri puntano i loro coltelli rabbiosamente sul bianco, il quale si salverà all’ultimo istante, perché una mitragliatrice si scorge tra le foglie. Ha guardato un libro di leggende dove si narra di figli di sangue regio  che si fanno mozzare il capo per conquistare la principessa  con gli indovinelli e gli enigmi, e che all’ultimo momento chiedono grazia e grazia, per infastidire il boia. Poi ha preso il libro di scuola, sul quale trova tante parole nuove che servono per tutta la vita, poi i giornali illustrati dove un lui e una lei si amano e tutto va sempre liscio alla fine; poi le riviste del cinematografo con le sopracciglia verdi delle attrici. Guarda infine un plico di sue creazioni poetiche e ne rilegge una «All’adolescente» che dice: «E’ dai! corrompiti, avvelenati,  ridi ai passanti un sorriso di invito per non farmi pensare  lontanamente che tu sia una Beatrice». Non ci prova entusiasmo, anche perché i morti nei quadri gli rimproverano: – A che pensi? Perché non pensi a noi? – Nel sogno tutto questo è durato un attimo ed è durato un attimo il capogiro che  Ramorra ha avuto nel sogno. Quando ha detto numerose volte «Si si si si, no no no no »; aveva la fronte che gli mulinava, si è messo a contare, con la velocità dei battiti dell’orologio  da polso e dei rumori del treno, da uno a centoventitremilacinquanta.

Ramorra ha sognato che va a chiudere la porta che dà nell’altra stanza, la stanza dove morì suo padre.

Ogni sera la chiude per bene: non un filo di vento la faccia sbattere, e guarda sotto il letto con trepidazione che effettivamente non v’è nascosto nessuno; né un serpente, né una cavalletta possono tentare la scalata da lui mentre dorme.  E nell’altra stanza? Può esservi qualcuno che può bussare  alla porta. Se Ramorra l’apre, può cadere a terra tramortito,  vedere gli scarponi, poi le gambe, un uomo coricato per terra.  Freme, tentenna, apre. – O Gesù! gli scarponi, le gambe!  Non cade. Un uomo coricato per terra, suo padre!

– Beh? perché hai paura? – Come parla il padre!

– Oh, sei tu, papà mio! ma per amor del cielo, papà mio! vado a letto subito, papà mio. Quando tu vai via al camposanto.

– Buonanotte.

Cerca di acquattarsi dietro la porta ma ne è richiamato dalla voce debole dei morti: – Beh? Perché hai paura?

– Ti ricordi, io avevo paura del nonno e della nonna morti nel letto in quella stessa notte.

– Ma il mio caro Ramorrino! lo vivo! Usciamo. – Rifà il padre.

Come a teatro così nel sonno le cose procedono per scherzo e per finzione e fu così che per la strada maestra del paese, volando insieme il padre e Ramorra, si affacciavano le donne scapigliate e si lasciavano andare a terra i loro pupi in fasce e correvano in casa e sbarravano porte e finestre. Ramorra e babbo volavano e tutto era curioso e inspiegabile. Un calzolaio salutò suo padre che scese. Ramorra pure scese, parlarono.

– Ma non è vero! Appena venuto in licenza il compare  è morto.

– Fandonie, compare, vi hanno trastullato, – rispose il babbo allegro e poi si fece scuro con la faccia dei morti.

Ramorra tentò la fuga a gambe levate, ma fu presto raggiunto: – Falerno il giro del paese, diceva il padre. Lo prese  per mano. Al porticato sbucarono uomini armati di accette e bastoni pastorali: padre e figlio girarono rapidamente a fronte indietro inseguiti da urli selvaggi. A due passi seguiva Mattia, cacciatore di professione; poi l’urlo degli uomini armati e il cielo tuonava. Suonarono le campane delle chiese e i preti uscirono in processione col braccio d’argento di un santo. Il padre scomparve e Ramorra correva, correva. Svoltò: la strada brulicava di serpenti a sonagli e cadde. Non tra i serpenti  però, su un sasso molto sporgente.

Adesso si trovava sul letto in convitto, sotto la luce rossa e le cose immobili intorno. Che cosa cercava con gli occhi stralunati?

Era un avvertimento del padre. Ogni volta che compiva male azioni, gli appariva il padre defunto e lo fissava torbido.

– Vattene! Vattene! diceva nel sonno al padre – non  lo farò più mai più!

Una sera che baciò una bella ragazza, la notte si aspettava da un momento all’altro l’ombra del padre; s’era coricato in  mutandine per scappare nella strada. Ed appena il sonno lo  prese, il padre apparve sorridente, sorridente.

Ramorra non seppe spiegarsi la strana apparizione.

La sera baciava più forte la ragazza la quale diceva che «basta», doveva confessarsi e dal prete non poteva farsi scusare la continuazione.

Ramorra smise di baciarla.

La notte il padre di nuovo se ne venne innanzi sorridente, sorridente.

Ma la sera appresso, per penitenza, la ragazza mancò e  nemmeno il padre apparve. E adesso non poteva cacciare una mosca o tirare una boccata di una cicca, il padre di nuovo era torbido.

Poveretto Ramorra! Si sentì ossessionato e si chiedeva sempre: come si fa a non commettere una sola cattiva azione, soltanto una al giorno? Ma allora? – mangiò con la sinistra e fu il solo errore cosciente della giornata. Un’altra volta si grattò la testa unguentandosi le mani e le unghie e un giorno finalmente rubò cento lire nel cassetto del fratello.

Il vero è che il padre era caduto una volta malato nelle braccia d’una donna che aveva saputo avvezzarlo alla morte.

Apparve torbido più che mai.

Ramorra pensò subito che fossero le cinque. Ma chi lo  diceva se poco fa era giorno pieno e il cielo tuonava?

Si schiaffeggiò la fronte e si tirò un capello. Era bianco.

Tra quei bianchi che non pochi si trovano anche nei capelli dei giovani.

Eppure erano le cinque.

La guardia notturna fece fruscio con le ciabatte di feltro, avanzò verso il suo letto e chiamava: – Ramorra, Ramorra, cosa hai fatto stanotte? Sei andato saltellando sopra ai letti dei tuoi compagni, a mezzanotte in punto hai devastato i cuscini, hai frugato i cassetti, hai fumato le cicche, un principio  d’incendio a mala appena l’ho spento io …

Si allontanò agitando le braccia a guisa d’ali.

Il convittore Ramorra ebbe sgomento, ma finse sempre di dormire.

Argomentava che le guardie notturne dei collegi verso le prime ore dell’alba, le ultime del loro servizio, andavano soggette ad un principio di sonnambulismo. Veniva la fredda luce del mattino attraverso la fessura.

In casa Giorgi la signora a quest’ora doveva strozzare un pollo per Ramorra.

Ramorra rideva solo solo. Si mise a pensare: che giorno è oggi? Il primo giorno di vacanza, lunedì, eh!, i barbieri  fanno festa. Ieri è stata festa. Ricordo il film di ieri e voglio canticchiare tutta la giornata. Poi sarà martedì: i barbieri che suonano chitarra e mandolini fanno delirare la gente che passa per la via. E mercoledì, allora ci si sente poco bene. La gente se c’è sole dice che il caldo è forte, e se il sole non c’è dice  che fresco viene l’inverno e che il freddo di quest’anno è insopportabile, proprio non si può. Intanto è giorno, è ora di prendere qualcosa al caffè.

Giovedì sì che si è nel bel mezzo della settimana. Una  volta si faceva festa anche a scuola! Qui passa la banda militare e nel paese lontano arriva un autocarro mai visto e trasvola un aereo o sono tutti alle finestre: «chissà dove andranno  chissà se arriveranno … » E un’orchestrina della radio sconquassa tutti i buoni propositi vergati fino a questo giorno  nell’agenda personale. Venerdì uno è stanco davvero. Ogni settimana di questo giorno passa una nube nerastra sul tetto di casa Giorgi e forse pure sui tetti degli altri. I fazzoletti il venerdì si mandano a lavare. Ma quello che più dà a cuore  in questo giorno multiforme è che l’indomani è sabato. Sabato si va a cinema e domenica e lunedì di nuovo S. Vito e Modesto.

L’istruttore scoccò le mani, applaudiva all’anno scolastico finito. Ramorra saltellò, decise di lavarsi bene.

In casa Giorgi la signora doveva spennare il pollo.

Nel tempo che impiegò ai lavandini Ramorra fu ancora  più preso dalla gioia di essere presto a casa. Pensò che qualcuno avrebbe trovato morto, forse Carmine, un vecchio imbecille rimasto scemo e bambino. Un giorno si nascose in un cantone e Ramorra di qua e di là che l’andava cercando, perché il Carmine gli aveva rubato una gallina. Finalmente lo scorse, non senza aver paura, rannicchiato ben bene con la faccia nascosta al muro contava tra se: uno, due, tre, quattro,  come si conta quando si gioca a nascondersi.

– Oh Carmine finalmente! Eh brutto lercio!

– Zitto – fece Carmine senza voltarsi – che ti sente il figlio della signora Giorgi.

– Sono proprio suo figlio io! – Carmine si voltò: – Non dire bugie – rispose. E se ne andò continuando a contare sulle  dita.

Ramorra viene di lì a poco chiamato.

Il signor vice Rettore gli fa una paternale solennissima:  – Ecco, birbone, la guardia notturna ha segnato sul quaderno delle novità: Ore 0,25 giro nei locali del convitto:  nulla da segnalare.

Giorgi (sei tu Giorgi Ramorra?) Scoperto – Perché stavi scoperto? Ore 1,35 corro in camerata al grido di uno due tre venticinque settanta. Arrivo che Giorgi ha già contato fino a centoventitré e cinquanta.

Il convittore Ramorra non rispose. Pensò con delicatezza a ciò che diceva la madre nel vicinato: che non cercava mai pane la notte.

Egli era stato la notte un Ramorra che mai nessuno avrebbe potuto comprendere. E, promosso e perdonato, partiva per sempre dal collegio.

A casa tutti dicevano che era cambiato, era pure cresciuto, fatto giovanotto e con la licenza liceale in tasca.

E la sera appena arrivato, per paura, pregava la mamma di farlo dormire nel letto con lei, per quella prima sera, almeno, come quando era bambino.

Il primo giorno a casa avrebbe dovuto dormire, ma egli volle ricordare il viaggio in treno e riviverlo nei suoi fatti più rilevanti.

L’aveva scortato alla stazione un vecchio cameriere, cui si provò a domandare:

– A chi pensate con quegli occhi annuvolati! avrete certo  bevuto di buon’ora?

E l’altro, che scuoteva la testa; gli si muoveva la pelle  della pappagorgia.

– Macché!

– A chi pensate allora? Per questa strada che tante volte avete calpestata, non vi viene in mente un ricordo, qualcosa,  questo muro sventrato?

– Mannò! niente!

Gli guardò in viso Ramorra e gli andava scorgendo un che di simile al muro sventrato. Dagli occhi fissi del cameriere usciva una luce calma, faceva pensare alle solitudini dei conventi: – Ma avete famiglia voi?

– Sette, sette figlie una moglie. – Scosse la testa, gli  si muoveva la pelle della pappagorgia, e riprese: – veramente  non sono sette, ma dodici: altri cinque morti, il primo aveva  pochi mesi e cadde dal letto.

Fece la storia dei figli morti con accoramento, poi si rivolse a Ramorra tendendo istintivamente la mano – Se volete, una mancia, signorino.

Possibile che quel vecchio nel racconto che faceva non pensava certo di fare il biglietto al più presto e solo una volta  acquistatolo, ad alcuni veniva l’idea di ricongiungersi presto  con i familiari.

Trillava il campanello: poteva benissimo darsi che il treno, malgrado il campanello, non arrivasse più.

A tutti i viaggiatori era tanta l’apprensione che l’aria era assorta, i visi oscuri. Stroncato ogni discorso, si aspettava l’evento: venire o non venire, deragliare o no, venire o non  venire. E il treno arrivava scivolando sulle rotaie come un serpente; e i passeggeri si lanciavano sopra addirittura furenti, per occupare un posto ciascuno.

Chi partiva con rimpianti? La scena certo era quasi lugubre: sotto la tettoia ancora gente si aggirava agitata, i facchini erano febbrili, dal finestrino di Ramorra i monti erano alti, le case sparse della città come bussolotti dopo la partita.

Il treno si mosse. Tutti quegli altri, sotto la tettoia, scattarono sull’attenti e in coro dicevano: «Noi moriremo, noi  moriremo!»; un industriale con la borsa vuota sotto il braccio  chiedeva posto, tanto lui scendeva alla prossima stazione, e  la corsa era bella.

Ah! giovane studente, magro e breve, Ramorra, i tuoi  occhi non scintillavano più! Ti parlava l’estesa campagna di  antiche battaglie e di generali a cavallo; di bande che andavano in cerca dell’oro su quei monti; e i castelli diroccati di tanti illustri giullari vestiti di giallo e rosso; e tu pure eri certo che in una strada bagnata dal suburbio era odore di pesce  fradicio, che un bambino si chiedeva come faccia l’olivo a  darci l’olio, e in qualche posto della terra non sai dirmi dove, di certo gracidano le rane.

In genere il treno sembrava una corsia di moribondi.

Qualcuno come se traesse lì per lì un sospirone, e poi… Altri  erano sdraiati in lungo sui sedili, non sentivano, non vedevano, non pensavano; ed altri, come parenti del morto, si davano coraggio a rifocillarsi, e scoprivano pingui valigie.

Tutto i1 personale non poteva essere che addetto a funebri uffici. Se veniva il controllore, voleva assaggiare una torta e poi dare le condoglianze.

– Cos’è stato, signora? – Faceva il controllore.

– E’ caduto il dente al piccolo, anche questo ci voleva.

Tu Ramorra ascoltavi quei viaggiatori raccontare storielline veristiche di famiglia. «Aveva sopraccaricato l’autocarro  di paglia e per quanto fosse andato guardingo, scongiurando di non imbattersi nei militi della strada, macché. Volevano cinquecento lire di multa. – Massì ecco la paglia, prendetela – Così dicendo se n’andava con le mani dietro la schiena.  Solo perché dovette ricordare che oltre la paglia, aveva lasciato via l’autocarro, si lanciò nel fiume. Guarda quella croce  rossa lì è il punto».

E ancora un calzolaio ad un altro in tono di confidenza:  – Giacomino era un ragazzino, apprendista calzolaio, molto timido che non rispondeva al mastro, mai, mai – Fila diceva  costui all’ora di colazione – va a prendere cento grammi di  «spezzacatene» da mastro Mattia – E questi gli dava scapaccioni avendone gran gusto, sulla faccia bianca e liscia:  – Aspetta un po’ che ti servo gli spezzacatene – e giù un  altro schiaffo sulla noce del collo e colpi di pollice appuntito  nel dorso. Anche se un po’ intontito, il ragazzo sempre delicato e mansueto, ritornava dal mastro per farsi compatire.  Questi lo riprendeva con aspre battute: non aveva capito un  corno, doveva chiedere i «tuzzabanconi» o, che erano la stessa cosa, gli stuzzicadenti. E molti giorni così. Oggi il mastro riflette e poi: – Quattro soldi di fessifottuti va a comprare,  ricordalo bene! – Mattia, che era un boia sul serio, gliene dette da predicatore. Il garzoncello s’avviò piano col passo  del vecchietto, e con mille dubbi nella testa, passò per la bottega del mastro. Ma non vi entrò, scoppiò a piangere subito  sulla porta. – Ancora hai sbagliato, gli disse il mastro, fesso  fottuto! – Il garzoncello s’azzardò a rispondere – Macché  spezzacatene o tuzzabancone se non ne ha! – e non seppe  frenarsi dall’invocarlo: – Mastro mio – Fu cacciato a spintoni. Tutti si affacciavano a vedere come se ne andava piangendo e commentavano: «Figlio di cafone che vuol fare il calzolaio!» e lui ripeteva mordendosi le unghie – « Fessifottuti _ fessifottuti » _. L’altro calzolaio interruppe: – Così vorrei avere una mogliera!

La corsa era bella e tu Ramorra ricostruivi le scene.

– Il bastone non occupa posto – facevano a gran voce di là.

– Io sono usciere di banca!

– Ed io sono la tromba nel circo equestre, con ciò?

– Un usciere sta sempre seduto e basta. – L’altro si sedeva per terra e guardava fisso l’usciere. Procedevano così senza azzuffarsi. E quello del circo:

– Siamo buoni tutt’e due, faremo a metà ciascuno? – ridevano ora.

Ramorra ricorda bene d’essersi alzato per osservare: un  bambino piangeva, un signore dagli occhiali piccoli cadeva  dal sonno stringendo un libro mastro; qui tutti allibiti, con  la bocca aperta e senza bisogno di darsi gomitate, avevano  lo sguardo rivolto ad un signore con un naso a pipa fenomenale; là il marito e la moglie si pestavano un piede; qui un  omone aveva tra le mani la testa e i capelli intirizziti e nessuno  faceva all’amore tranne gli uccelli che volevano per l’aria.

Ramorra dopo aver constatato che le campagne erano  troppo estese, infiniti i castelli diroccati e i monti, e ineffabile  l’umana sciagura in quel treno, ricorda di essere caduto nel sonno. Viaggiò e viaggiò.

A quella stazione di coincidenza si vedeva sveglio. Qui, quando andò al paese che il padre era grave, un giovinetto gli gridò dall’altro treno che il padre era morto, come se volesse dire « che ci vai a fare?» e Ramorra di rimando: – Voglio sapere soltanto se trovo pronto l’autobus per il paese. – I due treni si mossero e Ramorra, in bilico come era a parlare,  cadde e pensò al padre che avrebbe trovato morto.

Arrivò finalmente alla stazione. Nei pressi una taverna. In questa taverna veniva sempre gente di passaggio. Una vecchia matrona, che non era di una località precisa, aveva i seni a sacchi e la pancia come una botte, occupava quasi tutto il vano dietro il banco. Rispondeva a mala pena con un fil di voce. Un uomo di passaggio entrò – pareva sconvolto di trovarsi in quel locale – si guardò attorno, poi si sporse sul tavolo:

– Una parola, prego.

– Anche due, dite – si mosse la matrona.

Le parlò all’orecchio.

Gli parlò all’orecchio.

L’uomo di passaggio scappò via. La vecchia matrona disse amaramente: – Quell’uomo ha perduto il treno. – Tutti furono nel più misterioso silenzio, e uno si tolse il cappello per il caldo.          .

Il viaggio non presentava altri particolari. A casa, a Ramorra tutti dicevano che era cambiato, era anche cresciuto, fatto giovanotto e con la licenza liceale in tasca.

Era andato a far visita al padre morto nella cappella e aveva detto Ramorra: – Papà mio, perché sei morto? – senza stillare una lacrima, e aveva ricordato la voce di un uomo dalla barba, forte sul fragore del treno: «Per vedere come piove, non basta tenersi dietro i vetri e piangere, ma portarsi sulla strada con lo sguardo fisso al cielo, immenso e irraggiungibile».

 

 

 

II

 

Ramorra ha chiesto molte volte al cuore d’essere sincero e il cuore gli ha risposto che le belle donne dovrebbero essere  impiccate.

Era sera e c’erano canti. Il giovane magro e breve Ramorra usciva di casa ricordando che suo padre aveva tredici anni,  quando già sapeva risuolare e mettere centrelle alle scarpe  dei mietitori.

– Dì, moccioso, dove si può trovare una donna? – gli chiese in confidenza un mietitore.

– E caspita! Guarda quante in giro! – rispose attratto il papà di Ramorra.

– Ma non di quelle che vanno in giro, né di quelle che  ricevono a casa, ma così, una donna bellina, amabile, affettuosa e niente altro, la sera dopo il lavoro. Una donna come quelle canzoni ce n’è al tuo paese? Dì, moccioso.

Quel giorno tanto sole c’era che non si distinguevano bene  le cose. Il padre di Ramorra, a tredici anni, tacque, si scalfì un dito perché picchiò forte sulla suola e non richiese denaro per le centrelle al mietitore.

Sera di giugno, questa, che inganna i più ostinati a fare i poeti o gli amanti scottati. Quei poeti che stanno di guardia sulla loro terrazza; come quercie antiche, per bearsi d’una  apparizione. Sera di giugno per Ramorra che scrive: Appare la luna / dal pizzo del monte / pian piano, silente. / Nuvole bianche di scorta. / L’alberello di contro / che sta per piccola eclissi. / Piccola luna che vedi? / Pupazzi, antenne luci spente della città / che tenta un agguato per te. Fuggi. / E la testa di quella moneta d’argento aggrottando le ciglia così, si lascia vedere soltanto / in un balcone di due ingenui amanti Luna / Luna / Luna Chiaro di luna / spicchio, falce di luna / se  te ne andassi in quella taverna / dove due donne ammazzano  un uomo!

« Voglio amare una ragazza », si disse Ramorra, e si lanciò nel corso, dov’era passeggio animato, come uno spadaccino.

Le ragazze, dai dodici anni, facevano massima presa su di lui, quelle che erano acerbe ancora, con le gambette ben  bene ritoccate, scoperte, quelle che si sarebbero lasciate baciare senza rimorsi, che gli avrebbero scritto letterine di Natale.

Ma ce n’erano che avevano ormai una personalità, facevano smorfie di sprezzo e andavano oltre dondolando la testa, rilasciati i capelli o cantando e fischiando.

Un gruppetto di ragazze è temibile, evitabile, faceva Ramorra, e forse arrossiva o ripeteva la sua poesiola sull’adolescente. Due ragazze fanno arrossire. Ma bene. Il problema era questo: seguire una ragazzina sola, non importa se aveva le gambette sporche alle caviglie, bisognava evitare lo sguardo degli amici, essere disinvolto, con una sigaretta in bocca, e poi badare che lei imboccasse un vicolo cieco. Bene! Lo im bocca! Ci siamo! E Ramorra subito all’opera:

– Signorina se voi volete, io posso in un momento dimenticare i torti che m’ha fatto la vita e sorridere e dire:  Io credo alla vita signorina! Se voi volete, questa notte aspetto  tramontare la luna; aspetto il gallo cantare, faccio una visitina ai miei morti in camposanto. E’ triste!

Un portone si chiuse su uno scroscio di risate.

Non è cosa – si disse Ramorra – così, quando avrò  abbordato tutte le più sporche ragazzine, Cecilia, Stella, Cristina, Lilli, avrò rovinata la mia piazza.

E ancora una volta Ramorra volle essere superiore.

Il tempo, vecchio maliardo, gettava pietruzze alla campanella dell’orologio, lì nell’angolo d’un palazzo monumentale.  Sotto e sopra per il corso c’era gente, ma Ramorra preferì  la compagnia d’un albero.

L’albero ha un’anima. Dimena trasognato, solenne, i suoi  rami flessibili al vento che ha la voce dell’amico alla porta  che aspetta; dice il vento parole segrete che Ramorra non può  tradire. E poi ecco: il rombo come di conchiglia leggera dell’aereo notturno, nella festa delle luci del cielo, che passa come stella cadente senza scia, piano.

Il cane che ritorna al suo posto a cuccia tra la polvere  e pezzi di carta che gli frullano intorno.

Ramorra si figurò l’ombra cara d’un giovane malato, come lui, di niente. Era la stessa sua ombra che il tempo gli  portava. Per anni, tutte le sere un sogno d’amore svanito.  Un anno in una città, un altro in un’altra città, Ramorra aveva  impresso in un fotogramma dell’anima tutti i visi, tutte le vesti, tutte le ragazzine che voleva mangiarsi con gli occhi.  E tutte queste ragazzine formavano un piccolo paradiso, dal  quale gli pareva di precipitare inesorabilmente.

Ramorra pensò a qualche amoruccio. Gli fu facile le prime volte. Nel vicinato giocava a marito e moglie con molte bambine che se lo litigavano, a quattordici anni si fidanzò  con una ragazza lontana da casa sua e l’amore era un’altra  cosa con questa. Se la sbaciucchiava sul collo, sulle orecchie  e sui denti, ma non l’amò a dovere. La ragazza, tra l’altro,  era sempre puntuale e venne che Ramorra la cercava solo se ne aveva bisogno e se n’era stufato. E quando ritornava  a casa e guardava sua madre, pensava di tradirla, e se per  caso partiva, faceva tanto che la mamma non lo baciasse.

Ramorra ricorda le donne, pompose nella veste corta, con  ciuffi di capelli, delle città. E le borse a tracolla e tutti gli  ingredienti di moda. Quella regolarità di vestire dava la nausea, le donne belle erano pur sempre belle. Quando passeggiavano per la città erano apparizioni e tutti rimiravano. Esse  non degnavano d’uno sguardo. La bellezza, si diceva, è sempre  altera e impenetrabile. Quando sedevano davanti ai caffè con  le gambe accavallate e quel nudo gonfiava le vene dei passanti.  E anche Ramorra nella mischia di coloro che andavano a vedere le gambe. Quando le vedeva con l’ufficiale, finalmente ardere di desiderio anch’esse…

Quando erano sole, veniva in Ramorra un folletto a dire  per la donna: . – Guardati, sei tutta carne, solo carne! Io ti  vedo il corpo, non vedo te, di te me ne infischio. Ti guardo  la linea e la polpa. E io sono un animale come tutti gli altri: voglio mangiarti tutta e avvicinarti e saltarti sopra.

Poi un folletto più mansueto consigliava Ramorra di compiere uno scempio o tirare un pizzicotto soltanto.

E Ramorra a vederlo chinava la testa come ogni passante.

Era inutile inferocire contro la scorza dell’albero.

Volle seguire un’altra ragazzetta; e questa:

– Ma non mi ci metto! Ma non mi ci metto! Stasera  è freddo, ritorno a casa.

– Ma domani! – Ramorra pregava.

– Neppure. Io non mi ci metto, io non mi ci metto –  e se ne scappava.

Egli ancora vagava per le strade deserte, origliava se venisse dal fondo uno zoccolio di donnetta. Poi, tornava all’albero della piazza che dava sulla campagna. Qui la festa dei  grilli indisturbata. La campagna era tutta un desiderio. Ramorra non ne poteva più, poteva mai bastargli di bersi dell’aria fresca? E lasciava dietro di se la campagna con i grilli  a trillare inutilmente.

Il tempo nostalgico continuò anche l’indomani.

Scrisse canti di arrivi e di partenze! Scrisse che aveva l’anima sfilacciata a brandelli per tutti i luoghi più solitari, che andava rincorrendo fanciulle lontane per le strade di tutti  i paesi.

La prima volta a Trento. Di questi tempi, in ottobre, le  vigne, come in sensuale contatto con la mano dell’uomo, si  facevano spogliare. Un sole moribondo, senza raggi, correva  verso ponente tra le nubi.

Dal paese di Ramorra a Trento son mille chilometri quasi,  il viaggio fu lungo. Appena dopo Verona, dove il cielo era  già bigio e basso, il treno entrò nei monti. Fu come entrare  da un pelasgico portone e il treno immettersi in una galleria  senza fine e Ramorra solo vivere l’ansia di un giorno di sole.

Dal paese a Trento son mille chilometri circa: la distanza  di un giorno di autunno da un giorno di estate. E Ramorra  ricordava il suo paese come un giorno di estate col sole abbagliante e con bivacchi di mietitori.

Ancora monti con membra poderose. Ramorra ebbe stupore di trovarsi in luoghi così estranei.

Era notte. Nei vagoni c’era un accento gentile e premuroso, i modi delle persone erano nuovi per lui e non ostentati,  sentiti. Ebbe stupore Ramorra di trovarsi in piena aristocrazia. Ritornando dal settentrione i meridionali dicono d’avere  avuto a che fare con persone civili. Ramorra non sapeva perché si sentiva umile in mezzo a quella gente: uno scalzacane  che ci teneva a mostrare le pezze dei pantaloni.

Una signorina gli stava attenta. Aveva i capelli divisi in  due lunghe e robuste trecce. Gli faceva tanta accoglienza con  delle belle parole a fior di labbra, che, a pronunciarle, i meridionali l’apparecchiano prima del pensiero. Ramorra se n’era  innamorato e quando s’accorse del suo stupore per lei, capì  che veramente, come gli dicevano gli amici, ci si può innamorare dagli occhi, dal sorriso, dalla veste, dal parlare, dal  modo di porsi a lavare. Si era innamorato dal parlare. Gli  aveva additato dal finestrino un largo fiume, senti con quanta  sicurezza gli disse che si trattava del Po.

Scese, prima di lui. Assicurando che sarebbe un giorno andata a trovarlo a Trento. Lo lasciò triste e lei, con quello stesso sorriso di prima, gli offri la mano. Si convinse più  tardi, per quell’episodio, che in città le conoscenze duravano  quanto le interviste, brevi e compendiose. Si dice di se stessi,  quelli del Sud, nome, cognome, età e professione, delle loro  terre, delle loro case, poi l’intervista scorre con l’ultimo sorso d’un bicchierino.

Quelli del Sud poi si sentono soli, cantano per le strade  le canzoni dialettali, ma con un nodo alla gola, scrivono alla  famiglia e si sentono finiti, come la donna di marito da loro, che uno la lascia, l’altro la prende, nessuna la sposa.

I! paese lontano è questo, dove nessuno ti conosce, dove  puoi essere figlio d’una bestia e non di quella mamma tanto buona e tanto triste.

Qui vide che gli si spezzava l’anima a brandelli, mentre  cercava tra le case quadre ed alte e pulite la pietra aguzza  della parete del vicolo al paese, o il suo albero di fico cercava  là nel suburbio, popolato di rumori di officina, di donne un  po’ dimesse, di chioschi solitari.

Ramorra ritornava al suburbio più spesso che non poteva,  per farsi amica qualche pietra della strada sempre allo stesso  posto; oppure si vedeva con una panchina dei giardini fuori  mano e guardava il sole che splendeva e che nel con tempo disegnava al balcone di casa sua un triangolino bianco, di  seta.

E c’era pure qualche vecchio a fianco a lui, che parlava col sole, che rifaceva la storia della sua giovinezza e del suo  primo amore e c’era una vecchia che cuciva. I ragazzi gli passavano davanti. Ramorra cercava di avvistare tra quelli il Pietro del suo paese, il malandrino che vuoI vincere sempre lui. Qui, in fondo, trovava un po’ di suo, anche se quei monelli non  lo chiamavano col nome e quei vecchietti non gli davano gomitate perché andasse a prendere loro un bicchier d’acqua  o non gli allacciavano le scarpe, come, da bimbo, i suoi nonni  che morirono.

Fatta qualche necessaria conoscenza, Ramorra ebbe ancor più sgomento che l’uomo in città avesse, indispensabilmente, una via, un numero, un piano e che tutta la città non  gli appartenesse da una piazza all’altra.

 

Frequentò il centro, tutti i fatti loro sul loro marciapiede,  niente schiamazzo niente allegria pubblica. Come nelle chiese  e nelle aule, come i frati e le suore dei conventi, povera gente!  ebbe quasi paura Ramorra.

Sulla sua strada, sul suo marciapiedi, alle solite ore, quell’impiegato, quella sartina, quel prete. Inconttarsi ogni giorno  alla stessa ora, passarsi di fianco fissarsi l’un dell’altro i lineamenti, senza potersi abbracciare come fratelli e gridare: Noi siamo fratelli!

Fu questo il primo lungo viaggio di Ramorra tra gli uomini diversi da lui di cuore, sì di cuore, che non si abbracciavano come fratelli e non si dicevano parolacce per affetto.

La solitudine tira a Ramorra e ad altri molti scherzi. Ci  spreme, si spreme che noi ci troviamo nel tempo fino al primo  giorno della nostra conoscenza. E Ramorra altro non vuole,  per raccontarsi. Ma mi fa osservare che finora mi son messo un bacucco e che debbo essere più triste per l’avvenire del  racconto.

Meglio era dire allora che la luna sorgeva come una lampada accesa sui capelli sciolti di una bella fanciulla.

Potere amare una fanciulla cui dire: Per te domani mi  possa morire mia madre. Farmi scompigliare dalle sue mani i radi capelli, amorevolmente. Nel suo grembo, come in quello di mia madre un tempo, viaggiare nei sogni, contento!

Ramorra che era cresciuto come un giglio, aveva pochi  amori da ricordare. Ma la sua passione gli rigurgitava alla  vista di un portone oscuro e cercava la donna nel buio come uno spettro affascinante. Talvolta pensava che vi dovevano  essere delle donne, pazze, come lui, di un amore al buio e  faceva su di esse le più strane congetture.

Donne così non s’incontrano che nel letto, in dormiveglia, Ramorra pensò.

Una sera, infatti, tornava dalla caccia per i vicoletti di donne perdute, ubriaco insoddisfatto.

Un albero ed a fianco una pompa di benzina se li vedeva  davanti come due innamorati che s’abbracciavano.

Ma fu così che una sera, in una città del Settentrione, con tutto l’ardire che poteva, guizzava dove la strada era vuota e una donnicciuola aveva il passo grave da guardia urbana.

Più volte le girò attorno, l’altra non era allarmata, né si mostrava curiosa. Poi un ometto anziano le fu accanto.  Si era al principio di una stradetta che portava all’ingresso  del loggione del teatro.

La donna ringraziò l’ometto anziano che scomparve. Dunque aspettava qualcuno, Ramorra si disse. Le fu vicino ed esordì con querimonie: – Buona sera, signorina, buona sera.  Sono tanto solo anch’io. Per dire che la vita è ingiusta per  me, dovrei piuttosto accusare la crudeltà delle donne. Ne incontro due per la via e ridacchiano e si baciano ed io faccio:  «Si, si, mi piace» e loro ridono forte e commentano «Mica è guardia civica, quel Tizio», indicandomi a dito.

La donna rise e fece un cenno di commiserazione. Doveva  la donna commiserare se stessa, Ramorra e la porta del loggione. Poi Ramorra chiese, la donna rispose; ella proseguì  che l’amica non le sarebbe stata puntuale se dovevano essere  passate le dieci.

Ramorra stiracchiò il braccio mostrando galantemente  l’orologio ed accese un cerino: non era né bella, né brutta,  piccola e bassa. Egli non fece illanguidire il discorso, si prestò  ad accompagnarla; le dette la destra e le girò intorno. L’altra  stringeva sotto il braccio sinistro una borsetta nera: non era né bella, né brutta, piccola e bassa ed aveva venti anni, come  disse.

– Solo venticinque giorni più di me – commentava Ramorra galante che aveva tre anni di meno. Ormai non passava  nessuno: c’era una scialba luna tra nubi di cenere sporca.

– La mia casa è lì, dietro quell’antica muraglia – profferì tristemente la donna. Ramorra si sentì per la prima volta superbo, e volle accompagnarla fino al sozzo portone ingombro di carri, l’altra si rifece e domandò 1’ora e disse di essere disposta a fare ancora un giretto. Rarnorra dopo alcune schermaglie, le passò la mano sotto il braccio: – E’ meglio vada  così! – disse con una voce apparecchiata.

La donna sorrise, poi parlò dei suoi vivi e dei suoi morti, tra cui un fratello di ventidue anni. Aveva mangiato polenta  con pane, aveva fatta pulizia in cucina, lavati ed asciugati  i piatti, sua madre si sentiva debole.

Era uscita ad aspettare l’amica: – Si doveva andare a cine insieme! – disse con amarezza.

Passarono il ponte di un torrentello.

Decisero di sedere sulla panchina. Nessuno passava.

– Possiamo darci un bacetto – e la donna l’accolse un po’ fredda.

Se ne dettero ancora. Era freddo e s’avvicinava Natale.

Fu fissato un appuntamento a domenica. Si scambiarono  «grazie e prego» della reciproca compagnia. Ramorra tornò  a casa con lo sguardo alto alle montagne con la neve, bianche  sotto un velo di nube.

Venne domenica. La mattina egli non era uscito per non  incontrarla. Ed anche lei aveva voluto che l’appuntamento  fosse di sera: doveva già essere buio. Lei lo avrebbe riconosciuto dall’impermeabile chiaro, e lui? Oh! lui l’avrebbe subito riconosciuta: – Ecco, disse Ramorra – mi siete passata  davanti senza riconoscermi.

– Oh – l’altra lamentò. Rina si chiamava. Si, Rina era  un bel nome. – Adesso non posso, ho da mangiare un po’,  lavare ed asciugare i piatti, far pulizia alla cucina e la mamma  è debole ancora.

– Facciamo alle otto e mezza, va bene?

– Intanto voi potete vedere un film, poi passeggeremo come l’altra volta, non importa andare insieme a cine. Ramorra disse sì e le disse parole «Ciao, arrivederci, buona  sera, a più tardi, ciao, arrivederci, buon appetito» tutte di  seguito, d’un fiato.

Girò nel passeggio: lo riconobbero alcune di quelle ragazzine ch’egli sempre adocchiava, anzi era la Teresa questa, quella tale Teresa d’un anno addietro, una delle prime conoscenze.

E perché non aveva nulla da ricordare Ramorra delle sue  relazioni amorose? Ecco qui: Teresa per esempio, Teresa la muta, prima delle scuole elementari, ora commessa di lavanderia: – Oh! lo sto bene. Sempre la stessa piuttosto! Guadagno anche adesso, alla lavanderia!

Era sommessa e buona, come sempre, in compenso parlava. Parlava di sé e s’accalorava. Diceva che guadagnava parecchio.

_ Sempre lo stesso anch’io non trovate? – Distrattamente si riprese il giovane – Vedo che avete un soprabito  chiaro, io un impermeabile. Siamo cambiati ai vestiti.

Lei non fece cenno, lo guardava e lui diventava comunicativo:

_ Rammenti? – ricominciò Ramorra – iJ. tuo soprabito stinto, il mio cappotto largo lungo scuro, un po’ scucito .. ?  Era di seconda mano, pensò tra sé. E quelle sere alla giostra?  Che la tua amica ti incoraggiava a parlare e tu neanche si e no rispondevi? Una sera fummo soli finalmente, girammo  per tutti i giardini, sul sedile ti inoltrai la mano nei capelli  e non parlavi. Come una cosa della notte mi sembravi, sentivo solo il tuo respiro. Mi mandasti una busta sfatta e poche parole scritte che mi dicevi di sl. Ci vedemmo, sempre ci vedemmo, e non parlavi finché mi stancasti.

Ramorra si riprende in tempo per chiedere scherzosamente:

_ Non t’aspetta nessuno?

_ Chi vuoi che mi aspetti!

_ Sarei tanto orgoglioso di vederti fidanzata con qualcuno _ disse Ramorra e non capiva il senso delle parole. La accompagnò fino a casa.

Dopo poco, mentre correva all’appuntamento galante, allo stesso posto dove si era congedato da lei, la rivide, rivide Teresa, muta ad ascoltare la dichiarazione d’amore d’un giovane, come una pecora che comprende la sua terra che bruca.  Teresa la muta! E brava! era ridiscesa nella strada.

Era già passata l’ora dell’appuntamento: la ragazza dei piatti ancora non veniva.

E quando venne ella si lamentò. Le dispiaceva sempre, far aspettare: – Questa sera si va per lo stradone. Lo stradone  che porta a Venezia, di là additò la luna, Venezia, nella sua fantasia, doveva essere sotto la luna.

Ritornarono. Non c’era un sedile dove potersi abbracciare, come la sera precedente. Passarono davanti ad una Chiesa e si fermarono: il giovane le prese la faccia tra le mani e  le chiese cosa avesse. Niente aveva, sembrava stanca. Andarono al sedile nel viale sul torrenteJlo. Si sedettero annoiati;  non sapevano cosa dirsi. Ma Ramorra si fece coraggio e spiegò  che era inutile e monotona la loro compagnia, se consisteva  soltanto nel dirsi i dolori l’un l’altro. Loro erano maschio e femmina. Potevano almeno un istante dimenticare. Faceva  freddo, potevano farsi caldo, materialmente: – No? _ chiese  Ramorra e le sussurrò a lungo.

L’acqua del torrentello ebbe un fragore che non si avvertiva più a cento passi. Lei era fatta contenta sulla via del ritorno  e cominciò a parlare di piccole cose con lena, ma Ramorra  era abbattuto e vuoto, perché niente gli bastava per colmarlo.  Non era valsa del tutto la pena. Si dettero la mano. Ramorra  prese il portafogli e l’altra con più lena: Mannò per amicizia  soltanto. Vi prego. E grazie della compagnia! – e scomparve  tra i carri saltellando.

Non si videro più. Il giovane non seppe spiegarsi perché  mai non le avesse detto il proprio nome, per farsi ricordare.

Non era valsa la pena. Voleva capire il mondo dell’amore  in quelli che amano veramente e subito si ricordava che una  sera, capitato alla stazione, aveva goduto una scena, che lui  credeva potesse solo essere scritta sui libri, di due giovani  innamorati.

Stette sul marciapiedi a guardare il treno già composto,  si faceva silenzio sui vagoni che erano scuri. Qualche parente  s’allontanava in fretta per il sottopassaggio.

Un giovane era rimasto e contemplava al finestrino la  fidanzata nascosta nell’ombra. D’un tratto si sente la voce  della ragazza, implorava: «scrivimi, scrivimi spesso», singhiozzava, chiedeva la mano del giovane e gliela baciava sul  dorso. Lui le raccomandava la calma, ma lei niente: con crescente singhiozzo usciva nelle più belle frasi d’affetto che  di solito si recitano sottovoce.

Il vagone ha il primo scatto e lei che si sporge tutta e  lui corre, tentano di toccarsi le dita; lui si caccia il fazzoletto  e salutare, e il fischio del treno strilla e lei ancor più. Al  giovane fermo e pensoso passa davanti l’ultimo vagone fracassando e chi sa nella notte quante volte si sognò la fidanzata,  quei gesti, quelle parole.

L’amore era culto fino al ridicolo, in taluni.

Rarnorra ricorda un uomo, che al telefono pubblico  – veniva gente al caffè ed altri attendevano all’apparecchio  che si spicciasse – piangeva: – Mia cara, non vengo, a casa  tua non sono gradito. Non insistere, cara, non posso, non  posso. E piangeva davvero. Qualche ora dopo arrivava la donna e piangevano tutti e due presso al tavolino con sopra le  tazze del caffè, perché si dovevano disgraziatamente separare.

Un amore come quello, col pianto, voleva Rarnorra ed  infatti: una sera, con una canzone in voga, in autunno, sotto  i portici, dove fuma la caldaia delle castagne arrosto e il lucicchìo .del fuoco va sul volto rosso della ragazza che smercia  e che Ramorra conosce; suonano il violino in un bar con luce  gialla; passano donne sole e uomini soli che si bramano; il cinema sfolla gente più melanconica; ai casini i soldati sono  pensierosi; alla giostra nessuno spara al bersaglio; su tutta la città l’alta montagna: una di queste sere Ramorra vide Iole.

Fecero all’amore come i bambini per qualche mese. Ramorra l’aspettava quando usciva dalla modisteria: portava un  berrettino a pizzo; quando la baciò, teneva le labbra scorticate  dal raffreddore. Alle sette, l’ora in cui si vedevano, non gli  disse mai «ti voglio bene», ma lo baciava con tenacia.

Tentava di far lite ed anche lei ci stava: – me ne vado! –  fingeva Ramorra, lei taceva in cagnesco. In quei momenti Ramorra si sentiva fresco e leggero. Correva ad abbracciarla,  lei restava scontrosa e poi gli bussava col gomito.

La domenica andava sempre a cinema ai terzi posti con  la mamma. Si videro tutto l’inverno; stavano seduti sulle panchine piene di neve. Il padre dovette accorgersene; venne a prenderla lui alla modisteria e così Ramorra non la vide più.  Ramorra ne pianse. L’era rimasta nell’anima. E ora, a pensarla, gli si strappava qualcosa dentro.

Con Ramorra lontano lei dove passava la mezz’ora di libera uscita dopo le sette? Era mai più ritornata a quelle panchine dove tutto era bianco nella neve e in due non sentivano  freddo? Stavano seduti proprio sulla neve.

Ramorra, che ama gli strascichi, ricorda che lole era com-  pagna di Teresa e che insieme parecchie sere esse riandavano  a bussare alla porta e poi scappavano giù per le scale. A Trento una sera Ramorra fece in tempo ad aprire e le vide li,  tutte e due: – abbiamo sbagliato – disse Iole.

– E’ il destino – determinò Ramorra. Entrate.

Le ricevette nella cucina e disse loro: aspettate.

Andò in salotto a cambiarsi le calzette, che erano bucate  e usci, la prima volta in vita sua, in mezzo a due signorine  che, come tali, erano bellissime.

Di Ramorra non si potrebbe mai completare lo specchietto degli amorucci, incominciati bene e finiti male.

Egli si innamorava di tutte. Attaccava discorsetti sentimentali e se il giuoco riusciva, se il suo amore era tutto un  indeterminabile discorso sentimentale, gli bastava, era contento e orgoglioso e non chiedeva di più per guazzare nei sentimenti.

Una, bionda con le trecce, la pelle colar pera, faceva con  Ramorra anche lei la malata sul palcoscenico. Disse un’intera serata di sì a Ramorra che toccava tutti i tasti delle sue cantilene d’amore. Ramorra se ne aspettava il premio; si dovevano  vedere, dovevano continuare, ma lei, aveva l’immancabile fazzolettino in mano, disse col tono solito la frase fatale dei romanzetti: – Ti amo, caro, ma non posso essere tua.

Al che Ramorra, sconfitto e umiliato, seppe gridare fortemente a se stesso il rimprovero solenne: che avesse davvero badato lei, dalla pelle colar pera, ai suoi discorsi?

Ella aveva badato che Ramorra era tre dita più basso  di lei, aveva badato alle sue gambe fini, ai suoi polsi ridotti  ai nervi, al suo petto pulito, alle scapole fuori.

Quando verso amanti più umili di lui apparve vittorioso,  la partita era meglio non averla giocata. Allora è tradire l’umanità quando l’amore si nega a chi lo chiede. E Ramorra tradì  l’umanità, commise il suo ultimo peccato mortale quella sera  che accese la luce nella vettura del treno. Una donna, appena  intravista in un cantuccio sotto il finestrino, tremò, egli smorzò la luce e si mise a sedere. Era certamente disinvolto

per quella donna nell’oscurità che doveva essere più infelice di lui.

Non pensava dapprima alla donna, di cui le scarpine bianche e le gambe nude si distinguevano nell’oscurità e che per  il resto pareva un pupazzo, un ammasso di cenci.

Ramorra aveva girato in lungo tutti i vagoni in cerca di  compagnia. E vedeva le donne appoggiate fiducia se ai loro  uomini, i giovanetti stringevano le mani alle ragazze e un vecchietto e una vecchia si facevano segno con le mani. Sotto  la luce azzurrata tutto era intimo: gli stessi sedili e le porte, i finestrini, le reti, i poggioli erano suppellettili amiche,  e come quelli domestici, dei viaggiatori che persino avrebbero  acceso del fuoco nelle vetture per riscaldarsi come al focolare,  in quella fresca notte di primo inverno. Ramorra passava nei  corridoi e guardava; passava come davanti le case degli altri  e n’era angustiato: avrebbe voluto il suo cantuccio anche lui  e la sua donna. Quella intimità degli altri era così allettante.  E gli innamorati? Si cantavano nenie nelle orecchie dondolandosi. E le comitive dei soldati e dei coscritti cantavano  e battevano pugni e piedi per fare armonia.

Ora, al buio, con la donna che poteva palpitare anche  lei, Ramorra si sentiva meglio. Accese una sigaretta sempre  dal suo posto. Cercò di vedere meglio la donna. Forse la donna, a quell’ora di notte, sola, ma!, forse voleva dormire e  lui che cercava qualcuno per fare del vagone una piccola casa.  Andò al sedile sotto al finestrino in modo che la donna gli  fosse dirimpetto. Fece molto sforzo per cambiare posizione.  Poi fu più sicuro di se, non ci si stava meglio che in due.  Domandò, gli fu risposto. Era donna che veniva via dalla città,  dove praticava una cura per i denti. Subito un po’ di ribrezzo  invase Ramorra: i denti! Signorina, sì, ma con i denti… offrì  una sigaretta. Era lieto che l’accettò; lei fumava, molto. Lui  assicurò che ancora ne avrebbero fumate di quelle buone. Le sue battute le disse a fil di voce e le pause quasi lo sotterravano. Se qualche luce dai binari adiacenti veniva, scrutava: lei sempre nell’ombra fitta. E’ quell’ombra aizzò l’istinto di  Ramorra. Le fu accanto, le toccò le gambe. Le gambe erano  liscie come scaglie, con peli radi radi e la carne floscia.

 

Una donna patita è donna, nell’ombra. Donna che poteva  essere madre. Donna che alle prime schermaglie di un giovinetto sentiva il sangue salire per un’effimera ebollizione. Tentata da un giovinetto gentile che offriva sigarette fino all’arrivo. Donna che non si dava, e lo disse subito, per non tradire,  può darsi, una offerta con un’altra. Ma forse era semplicemente la signorina anziana che rinnova ad ogni messa il suo  voto. Aveva il difetto di accettare sigarette da un giovane.  Così diceva di no e doveva ripugnare se stessa, vecchia, col  marcio in bocca. Tacquero poi, lei in un cantuccio e Ramorra  nell’altro, separati dal poggiolo. Si arrivò che si doveva scendere. La donna accese la lampada, raccolse i suoi fagotti guardò triste. Chiese se anche Ramorra scendeva. Vigliacco! Egli  finse di dormire e quella se ne andò sconsolata.

Aveva tentato una vecchia signorina dai denti guasti, aveva assaggiato la carne floscia con le dita, l’aveva rifiutata. E bravo Ramorra! Sa fare anche il cattivo!

Anche verso la donnetta fu cattivo. La donnetta, dappoco  maritata, s’era proprio ridotta male.

– Mi sento male per tutta – gemeva verso il marito.

Il marito innervosito correva al lavoro di mattina,  al buio.

Non le diceva: «sta meglio» ma «mi raccomando quei  broccoli per oggi!» e la donnetta nella camera che vide le nozze, passava il suo tempo a piangere. Ramorra quando la  vide per caso se ne fece subito il ritratto: con quella sua testa  piccola la donnetta che non aveva mai capito quel contare  del marito sul libretto di lavoro. L’aveva vista scopare la casa,  abbellita nella polvere col sole.

Quella donnetta chiese a Ramorra un po’ di amore mentre  stava per essere madre ma Ramorra, puntuale, aveva rifiutato.

Con ciò? Ramorra ha chiesto mille volte al cuore di essere  sincero e il cuore gli ha risposto che le donne belle debbono essere impiccate ed arse.

 

 

 

III

 

Costruirsi una vita.

Era il problema che subentrava agli affanni amorosi.

Un giorno perduto, annotava quotidianamente Ramorra.

Gli veniva il proposito di lanciarsi dalla finestra nell’oscurità, e volare e volando abbaiare con i cani, essere nelle cose della notte e gridare: un giorno perduto! E poi? E poi le  stelle scomparivano e andava dissolvendosi il manto della notte. Ramorra non sapeva che fare poi. Frattanto un giorno era perduto, e sulle dita contava probabili avvenimenti che,  se occorsi in serata, avrebbero potuto fargli gridare: un giorno,  stravinto!

E si domandava: – Se avessi lavorato tutto un giorno,  con la zappa magari, il piccone?

E si rispondeva: – Così era, era uguale.

(I contadini rientravano in paese, sulla sera, col piede  stanco e con aria morta. La lunga fila. Chinando ritmicamente  anch’essi la testa come le giumente. E l’aria anneriva e nelle  case un fuoco con la tazza del decotto. E i figli intorno illuminati dal fuoco. E nel pollaio le galline aprivano le ali come  sbadigliando. E la donna china sulla tazza. Il fuoco era subito  spento. Il contadino sospirava che il giorno era andato e s’accorava e, si sa, certo gridava anche lui che il giorno era perduto).

E di nuovo Ramorra si domanda; – Ma se avessi bevuto  tanto all’osteria in buona compagnia facendo bestemmie  e schiamazzo?

E si rispondeva: – Così era.

– O meglio, avendo abbordata una donna, se mi fosse  stato detto di si?

E – Così era.

– E se con la donna mi fossi baciato per la prima volta e lei sospirando … ?

E – Sempre così era.

Farsi una vita era per Ramorra come mettere su un pranzo quando anche l’olio manca, la cucina, un fiammifero. C’è solo la madia con tozzi e fette di pane. E dalle parti del Sud  si rinuncia ad un pranzo perché non si trova più spesso un  fiammifero e l’olio. Ci si accontenta del pane assoluto.

Bisogna capi do questo ragazzo: Ramorra vuoI dire che  la vita non è l’acqua di un fiume che scorre uguale sotto gli  occhi di un uomo sulla sponda, intontito. No. Aveva provato  per un anno a farsi solide basi di un avvenire e di tutto questo  tempo non gli uscì dalla penna se non uno dei suoi soliti colloqui con se medesimo.

E s’imbucò una lettera nella scrivania, un’altra la inviò  in Paradiso.

Nella prima si  mandò a dire:

« Tu hai vissuto con fragore per tutto un anno. Calarono  le nebbie inerpicandosi sui ceppi tagliati del bosco, le quercie  furono spoglie e rifiorirono, partirono le rondini e sono ritornate. Oggi è festa di quelle che tornano anno per anno.  Un giorno ti senti d’un tratto rinnovato e pur tutto ritorna:  questi fiori e questo verde e il biancospino che sfocia dal cespuglio. Ma tu perdesti controllo del tempo come ti fossi avviato, con numerosi bagagli, tu lo sai dove. E quando ti ricordi del tempo è al mattino, che s’annuncia con festanti soli di là  dal balcone socchiuso. Ogni mattino alla stessa ora tu parli  con quella voce dimenticata dei primi monosillabi. Io t’ascolto. E sulla strada, sotto il letto, ruzzano i bimbi smisuratamente fino agli ultimi minuti prima di scuola. A quell’ora,  sempre, quante riflessioni vai maturando e ti fai lo schizzo  della vita nuova. Dici di si, si può ricominciare daccapo, rifarsi matematicamente secondo lo schizzo. Qualche bimbo si  sente piangere, la mamma lo ha battuto perché non voleva  andare a scuola. Dopo l’ora di scuola, per la strada, ricordi?  C’era qualche donna seduta a lavare la verdura, diceva «buon  giorno» a coloro che passavano e domandava di questo e  di quello. C’era qualche bambino di quattro anni o di cinque,  che non giocava ancora.

Tu pure chiamavi fortunati coloro che restavano a casa,  i fratellini più piccoli, la mamma che cucinava e le comari  che venivano a prendere a casa il lievito o la tortiera. Ricordavi com’era casa tua a quelle ore, . quando tu non c’eri, tutta illuminata con la finestra aperta. Lo ricordavi quando a scuola  non andasti per un malessere. Ma non potesti neppure giocare.  I compagni ti avevano tradito: tutti a scuola quel giorno!

E ora pensi che l’umanità ti tradisce, se i contadini battono i sassi della strada con gli scarponi avanti giorno, che  vanno al lavoro senza rimpianti. Questi altri bimbi senza capricci e i bottegai che spicciano i clienti senza mai vedere  il sole in piazza a una cert’ora dove sta, quanta gente c’è in  piazza, chi sono, cosa dicono: questi pure ti tradiscono.

Non resisti. Levato appena, vai in piazza e vedi chi c’è  e senti che bell’aria c’è la mattina in piazza. E vedi pure gente  che non conosci e che stimi amica, seduta, capo chino. Qui  tu ti confondi. Rasente i muri passano correndo l’impiegato,  un muratore, qualche altro, frettolosi. Guardano verso voi, si sbiancano in viso. Tu vi leggi gran premura e affetto e  scontentezza. Questa è l’umanità che pure ti tradisce. Quelli  che non fanno come vorrebbero o come te, sotto il sole della  piazza, ozioso.

«Passarono i giorni, ogni tramonto in disparte concludevi che è sempre tardi ricominciare; ma se con un amico  (un impiegato, un muratore) passeggiavi, ecco dicevi ed eri maestoso: – Già verso il tramonto quanti atti giganteschi e mature riflessioni sono possibili ancora.

E’ sera con la luna. Ti stanchi a passeggiare. Staresti tutta  la notte fuori, così, a bearti delle cose sotto la luna che t’appaiono eterne: così le porte chiuse, i camini, i muri dei giardini. Con tutte le cose vorresti stare un po’ assieme e vedere  come la luna tramonta, ascoltando i gemiti di questi uccellacci notturni. Questi gemiti richiamano i morti e tu ti prepareresti a vederli passeggiare,  i morti in vestaglie bianche. Ma  un tuo amico accusa il sonno. Rincasare è una necessità.

E a ognuno casa sua, a ognuno il suo lettuccio e l’ombra.

Così gli uomini si arrendono, al sonno. Ma tu che! Non sei  convinto che la notte è fatta per dormire e le cose non credi  che dormano. Se l’uomo volesse, anche di notte le cose non  sarebbero abbandonate. Basta pensare: le sere di festa sono  i fuochi di artificio. C’è tuono e rumore e luce intorno. E  la banda che suona. Basta pensare: i contadini d’estate portano in paese il grano da remote contrade viaggiando di notte.  Cantano, sgridano le bestie. Arrivano in paese all’una, alle  due di notte e all’una, alle due ripartono. Cantano, sgridano  le bestie.

Per tante ore della notte il mondo tace abbandonato sotto  lo stupore di mille stelle. Per altrettante ore tu ti adagi nel letto nudo di anima e corpo. Ritorni al tuo essere primo. Qualcuno ti legge i più segreti pensieri senza che tu lo sappia.

Perché? A questo punto perché sei fermamente deciso a ricominciare domani? Vita nuova?

«Per un anno, capisci, lo stesso proponimento tradito e  ti struggi. Pensi a un altro mondo possibile a vivere con una sola volontà e premediti la partenza. No! Capisci, prima invochi un tuo domatore che si fa sempre desiderare, subito  dopo, bastano pochi amici, l’umanità sorella, una parola, un  discorsetto, un bicchiere.

Passa il tempo, ma tutto ritorna: la pioggia e l’aria nera  e il gelo. E a ognuno casa sua, ad ognuno il suo lettuccio  e l’ombra. L’ombra.

La decisione di oggi non sai se è quella che potrà durare  domani. Oggi è festa. Tutti gli uomini, anche quelli che ti  tradiscono, eccoli, allegri anch’essi, stanno in piazza sotto il sole. Oggi, tu dici, bisogna schivarli. Lasciarli soli. Oggi stare  in casa come fanno gli amici. Tradire quelli che tradiscono:  così è tra i peccatori.

Tu questa sera pensi che meglio sarebbe tradire tutti  quanti, uni ed altri. Chissà, domani, al mattino, che s’annuncia con fette di sole di là dal balcone socchiuso?»

Chi lo sa?

Il padre gli diceva le sere lunghe davanti al focolare, d’inverno:

– Tu sarai la mia fortezza, Ramorra.

E il giovane rincuorato rispondeva frettolosamente di si.

– Io, un misero operaio (vivrò fino alla morte il mio mito di ciabattino) – riprendeva il padre – ma avrò fatto  di te un uomo che se ne fregherà. Mi spenderò la luce degli  occhi, per te.

Ramorra non sapeva ringraziare. Si sentiva assai angustiato dal cieco domani. E il padre a riprendere per sognare.  _ Fatti quello che vuoi: avvocato, medico, prete, ma un uomo  con i fiocchi. Io per me non vorrò niente. Sulla lapide una  bella espressione, o se farai l’avvocato, vorrò venire a sentirti.  E poi un bastone, con la testa del lupo al manico ben intarsiato, un bastone d’argento. E con quello ti metterò sempre  paura se non fai l’uomo come si deve.

_ Si papà – diceva contento Rarnorra – e pensava che  con uno come il padre alle costole, non avrebbe sbagliato una  sola posta dell’avvenire.

Ma il padre morì. Ora lo piange, qualche volta, soprattutto perché non c’è un uomo come lui e con quel bastone  d’argento impegnato.

Ramorra al cieco avvenire preferisce la piacevole rotta dei giorni.

Quante serate burrascose, con la stridula fisarmonica, i bariletti di vino e i sudori dei balli!

La fisarmonica smetteva il ballabile richiesto, il soffietto  era chiuso sulle ginocchia del suonatore, che a ogni pausa beveva. Di fuori scrosciava l’acqua, si sentivano cupe voci  nella strada. Poi l’accordo riprendeva, allegro e svelto, e si  ballava la polka. Le coppie, mute e senza tenersi a mente,  saltavano in cerchio. La musica gridava, come la volontà del  destino, quelle coppie, e il giovanotto e la ragazza si volevano  bene, come sposi ubbidienti al destino che chiama e che lega.  Così legava la musica. E le madri da una parte e i padri dall’altra, vicino al fuoco, intenti ai passi, all’andatura, al giovane e alla ragazza, alle coppie tutte, buoni figliuoli che non  dovevano avere pensieri cattivi. Proprio così, la musica legava  e la mazurka piaceva. Chi guardava si sollevava sulle natiche  e i padri e le madri muovevano i piedi senza farsi vedere,  intenti sempre alle pieghe delle vesti e al modo dell’abbraccio.

Si dava finalmente da bere al suonatore, che con una  mano reggeva lo strumento, con l’altra il bariletto, alzava il capo verso il soffitto attingeva come a una fontanella. E i  giovani cacciavano le cicche dalle tasche, e mettevano insieme tabacco e molliche. E quando tutti si avvicinavano da uno ad accendere, si facevano buone confidenze, l’uno di faccia all’altro con le sigarette.

E poi passavano al vino, si facevano i brindisi, si battevano le mani, si giocava alla morra, tutti si sentivano grandi  e amicissimi, annegati in un trambusto di voci.

Mezzanotte, l’una, le due, nessuno si contentava. E la  festa non finiva al chiuso. Fuori si portavano le serenate. Si cantavano canzoni belle e sconce.

Ramorra cadeva in delirio e non poteva dimenticare mai  quelle sere. E i suoi amici, che tenevano il contegno delle persone civili e non si abbassavano a tanto, lo rimbrottavano con asprezza. Una sera, dopo bevuto, voleva morire. Ma i comizianti ubriachi sulla strada se lo prendevano in mezzo  e lui non voleva più morire. Il disgusto infine lo prese. Scrisse  la cosiddetta «lettera al Paradiso» rimasta lettera morta:

– «Cedi a Gesù Cristo la vittoria. A lui che dicono oppressore del male. Voler vincere la vita è come farsi asceta e penitente. Tu più volte hai tentato inutilmente. Dovevi negare tuo padre e tua madre e tutti i tuoi fratelli per tentare  una cosa simile. Così, desti pace alla coscienza e fosti un uomo  soltanto, uomo comune. Uomo che s’ubriaca, gioca alle carte  e fuma, e mangia e dorme quanto vuole. Uomo che desidera  la femmina come il cane d’estate, come i muli alle fiere. Andavi sempre cercando di occupare il tuo tempo parlando con  gli amici di te. I giorni passavano e le stagioni come fogli  scartati di un libro nuovo e pregevole, ma tu non t’accorgevi  e nulla conquistavi: tuo padre a quest’ora aveva un figlio.  E un giorno dicesti che non era del tutto perduto il tuo tempo.  Le tue avventure le contavi a tutti. Quelli ti ascoltavano, ti chiamavano «bravo» e tu ti sentivi orgoglioso come il contadino che ha avuto raccolto buono. Solo la notte sapevi che eri un vinto e Cristo era il vincitore. Ma t’addormentavi cosi  presto!

Una sera ti dissero che tra gli uomini talvolta succede di non rialzarsi e rimanere nel letto come gli uccelli sugli alberi, quando c’è neve. Niente di meno, quella notte non  dormisti, per restare guardingo e prendere le misure convenienti, se ti fossi sentito mancare. E da quella sera la tua  coscienza torna a parlarti col linguaggio della minaccia. La  tua coscienza! Tu la combatti.. E’ un frugolino sempre scontento che morde o, come si dice, porta scalogna.

Ma come si fa? Dare ragione alla tua coscienza credi che  sia fare oltraggio a tutto te stesso e dimenticare che prima di tutto sei uomo, come gli altri.

Tu pensi: ecco, è il pelo che mi manca, il pelo del lupo e di innumerevoli esseri umani. Vuoi essere come gli altri.  Duro come il chirurgo, inflessibile come il giudice, tenace come un latitante. Il bandito, guai se fosse in guerra con la  sua coscienza! Cosi pure l’avaro, l’imbroglione, il ladro, il  custode di cimiteri. Può darsi che tu abbia la veste del traffichino ingenuo. Cerchi di accontentare nel contempo la tua  coscienza e il tuo desiderio. Quando servi l’uno e l’altra tradisci, pensi che sei vinto, Cristo è vincitore.

Non può durare la tua ignavia. Tu morirai certamente  molto tardi, ma in tempo per pentirti e mettere a posto le  carte del tuo viatico, Perché nessuno ha mai detto al Signore:  _ Soggiogami, da vincitore, Signore, io non mi arrendo! -»

Davvero povero Ramorra!

Non sapeva che volere. Quante aspirazioni, quante lenti per l’avvenire! Cose incominciate, poesiole, articoletti, drammi di tre atti e tanti quadri! I suoi amici volevano una sola cosa, l’ottenevano ed erano contenti. Ramorra voleva l’impossibile, s’era messo in testa di vedere il suo nome o gridato  come quello d’un calciatore o scritto grande sui libri. Voleva cominciare sui giornali, ma fini con l’impartire lezioni private  guadagnando qualche sigaretta e intanto gli andava a genio  frequentare i suoi amici d’infanzia. Gli faceva nodo alla gola  se gli dicevano che lui da gran tempo non li guardava più, superbo dei suoi studi. Questi artigianetti di una lira e mezza all’ora gli dicevano dell’umanità sofferente che resta dove la  mettono e non pensa di arrivare dove non può.

L’autunno, nemico di Ramorra, gli tese lo scherzo più  crudele: gli furono rubate le valigie in una stazione. In una valigia c’erano certe cose scritte, i momenti più belli della sua vita.

Ramorra si accorse che il mondo si approfittava delle  sue valigie e delle cose utili dentro, delle sue camicie nuove, delle sue maglie di sotto, dei suoi butirri, non dei suoi sentimenti. Cose perdute dell’autunno! Ci contava. Poteva farne  un libro, chi sa? Ramorra non badava però che il vento rubava  le foglie agli alberi e non c’era rimedio.

Si ritrovò solo nella stanzetta di casa sua, di sera quando tutti dormivano e il fuoco in cucina era coperto di cenere. Ogni giorno si convinceva della sua inutile vita, se la grazia  gli fosse mancata di un amico o la nota di una canzone. Serrato tra quattro pareti, con la nube di fumo e I’apatia dei mobili, sempre quelli, non voleva, non poteva stiracchiare una  grama esistenza; sentirsi trascorrere il tempo tra cumuli di  cicche, come gli attori del cinematografo.

Intravide un avvenire disastroso: con una pancetta aristocratica sedeva dietro un lungo tavolo smosso di registri mastri  e carte varie, con una penna infilata all’orecchio, ogni tanto  guardava annoiato sulla strada. Brutto avvenire. Ramorra si  ostinò sempre più nel pensiero di morire, da imbecille così  com’era, e da eroe, suicidandosi.

Morire per le cose, sempre quelle, per il mattino e la  sera che non cambiano mai, per i pranzi alle stesse ore, per i pomeriggi delle domeniche, le partenze dissipate, gli amici  diventati uomini, per Dio che non scendeva sulla terra a dire  «Cambiamo faccia a questo mondo!»

Quante cose Ramorra voleva dire, erano sempre le stesse cose.

La madre, al paese, l’aspettava la sera, sola, vicino al  fuoco. Egli s’accorgeva che aveva menata una giornata peggiore della sua, che il sonno non valeva a far dimenticare.  Incontrava nella mamma lo stesso cupo desiderio di vivere  diversamente e diventava scontroso. La mamma pure lo capiva, scopriva la carbonella per lui e subito se ne andava a  letto, e lui restava, appoggiato alla focagna; povera madre cui Ramorra gridava scrivendo la bestemmia: «Muorimi, mammamia, chè ti vorrò più bene! »       ‘

Venne il giorno di Sant’Antonio Abate, dopodomani di  San Mauro Abate, suonarono le campane per festa. Quell’inverno ancora non s’affacciava, gennaio fu tutto una splendida giornata di sole. Ma Ramorra, non per questo, decise di scappare da casa perché voleva morire.

Andò al fiume, dove s’incontrò col vecchio sulla sponda.

Decisero di morire insieme, perché anche il vecchio era sfottuto. Dopo che fecero lamenti e pianti, dopo che dissero che  sì, era l’unica, di morire perché il cuore non dolorasse più,  faceva al vecchio Ramorra: -Io lascio le scarpe chè le porti  il passante a mia madre.

Un cane abbaiava sull’altra sponda, faceva di no, di no  con il capo; dal paese, che pareva vespaio, giungeva un vocio, dal campanile scendevano tocchi, il cielo nell’acqua melmosa  del fiume sembrava rabbuiato, il fiume correva e giunse pure di là, da quei pini, un vento caldo, che era una voce.

Il vecchio si avanzò nel fiume col bastone, piano, quasi  per non farsi male. E diceva «Su, forza» a Ramorra « altrimenti ne pigli col bastone. Sù, forza, dei ragazzi non ci si può  proprio fidare. Sù, forza» e Ramorra piangeva: Sì! Mi slaccio  le scarpe, voglio che le tenga mia madre da qualche passante.  Vengo subito.

Cadde in ginocchio, chinò il capo, piangeva, vedeva a un  metro da sé tumultuare l’acqua del fiume.

Il corpo del vecchio s’allontanava con le onde, frattanto.  Allucinato e preso da pietà per il vecchio, che aveva tenuta  la parola, Ramorra si erse: – Addio, addio vecchietto, addio!

Già i cavalloni lontani sommergevano tutto. Il vecchietto non poté rispondere e Ramorra si salvò.

.

Il ricordo ci lega a una parte consumata della nostra vita.

Per Ramorra lo stesso presente era già ricordo. Forse,  non a torto, faceva poesie. Si crede che i poeti facciano del presente un eterno ricordo. Ma la vita di un uomo, se così fosse, null’altro che ricordo, dovrebbe eternarsi limitandosi, annullandosi nel giorno, nell’attimo. Ramorrino tutto questo ha temuto, si è salvato dall’annegamento e si è salvato dalla morte con il ricordo eterno di una parte di se stesso già sprecata. Ora dice che potrebbe far la lotta con la vita, anche  se debole. Essere un altro se stesso con la mentalità dei migliori. Dice che bisogna fermamente decidere picchiando il tavolo col pugno duro. La sua generazione s’avvia con un treno che anche lui dovrà prendere. Può essere il treno dei coscritti  o quello che spinge sulla porta di una pensione. Dice che quello che sembra è una falsificazione di se stesso. Vuole essere,  invece, per tutta la giornata, quello che ogni sera si riprornette  vedendosi in un cerchio di luce suo padre davanti, un po’  triste. Ecco cosa farà: sarà tutto se stesso, obbedirà a quella voce che parla in lui, finora inascoltata. Tutto se stesso.

Intesi.

Ah Ramorral Che aria di buttarsi a mare dopo questa colazione! Adesso ti andrebbe di fumare tanto per non saper  che fare, ma forse ti alletta più scrivere una lettera a qualche  amico. Passa un uomo antipatico sotto la finestre: è colui  che fa tutto con regola e pensiero, poggia il bastone pianino,  guarda un po’ intorno nella via, finalmente si inguanta le mani. Ma tu! Ah Ramorra! Stamane ti soffoca il sole e le nubi  non sono che soffioni sollevati dall’inerzia del mondo.

Il romanzo era finito e Ramorra mi disse: – Voglio partire, qui non ce la faccio.

Ed io, questa volta, scocciato, duro e secco incominciai:  – Partire per piangere all’altra sponda i tramonti dei  giorni perduti che vale? – Gli chiesi. – Lottarsi conviene,  disprezzarsi. Tu ti vuoi troppo bene, mio caro. E chi ti piangerà alla fine, talmente ti sei pianto da te? Oh caspita! Mi  hai fatto diventare cicala per narrarti e tu sei una mosca:  le mosche il caldo prima le intontisce e l’inverno l’ammazza.

Ramorra si scolorì, colpito nel debole, ed io divenni più  forte di mai.

– E – ripresi – s’io riesco, com’è mia volontà, a vincere me stesso, non avrò più compassione di te. Ti prenderò,  ti lascerò come una bella antica canzone che vale per la digestione e magari sotto la luna una notte che io non l’abbia aspettata. Tu ti roderai, tu ti struggirai nell’isolamento come  un’amante spregiata. Finirà che tu venga dimenticato.

– No! – m’implorò Ramorra.

– Sì! – gli gridai – devi andartene ormai.

E lui: – Campana non suona se non la tocchi col martello. Sono triste. Aiutami!

Dopo che feci un atto di rifiuto e dissi: – macché! – lui di nuovo:

– Dimmi almeno addio! ‘

Mi arresi subito. Non dovevo, dopo tutto, fare il crudele.  Ci dicemmo addio tendendoci le mani. Egli lacrimò.

_ Anch’io – dissi per rifarlo – sono contento di averti fatto un romanzo in cui ci figuro. Poi tagliai corto:

_ Via! – Ramorra si ridusse in frantumi di specchio.

Ero vittorioso, felice.

Fu quando scorsero i problemi minuti per riempire di  uno specchio nuove stecche di legno del guardaroba (e dovevo  far colletta tra i patenti e non potevo dire che è inutile a  ognuno lo specchio) fu allora che piansi amaramente e avrei  voluto andarmene con lui, seguire la sorte del caro magro e breve Ramorra, ma non potevo. Mi guardai intorno. Le quattro pareti della mia stanzetta sembravano comprimersi e finsi  ancora di morire e, innamorato moribondo, come volessi svelare un lontano amore agli ultimi istanti, ricominciai: «Io  Ramorra lo avevo nell’anima da un pezzo … »

Ecco che uno si distrae al bivio, si perde. E chi gli dice  «Prendi da questa» e chi «Prendi da quest’altra ». E uno  resta là, stordito. Aspetta che le gambe si muovano da sole.

Tricarico, 1942 – novembre 1943.

IL PAESE

 

Tutti d’accordo: per le tre di mattino sarebbero arrivati sotto casa il compare Giuseppe e sua moglie, con l’asina. Essi che dovevano a quell’ora levarsi per arrivare per tempo in una contrada presso la stazione, si offrirono ad accompagnare me e mia madre alla stazione per farci prendere il treno.

Caricarono i nostri bagagli sull’asina. Ma pure a quell’ora un altro compare aveva messo a disposizione due ragazzi suoi e due muli perché ci scortassero. I ragazzi, Ninuccio aveva 18 anni e Paolo un po’ meno, tardavano a svegliarsi.Ninuccio soprattutto che avrebbe anche lui preso il treno per andare la prima volta in città. Giuseppe, il compare, era impaziente.  Alle quattro, massimo, bisognava avviarsi per fare in tempo, alle sette, a prendere il treno:

– Mentre, – si affannava a dire – la corriera parte alle sei meno poco, noi dovremo arrivare prima, prendendo scorciatoie una dopo l’altra.

Finalmente Paolo scese da casa nella stalla a prendere i muli, poi scese Ninuccio, tardo con le mani sugli. occhi.

Ci avviammo. Il padre di Ninuccio e di Paolo, dietro il nostro corteo, raccomandava il muletto a Paolo, gridando forte di non montarlo, di non metterlo a galoppo. Svoltammo senza guardare nessuno le finestre tappate di ombra calda che si sarebbero aperte dopo molta strada.

C’era buio, nei tratti più oscuri accendevo la lampadina che mi doveva servire nel treno. Quando Ninuccio me la scorse  volle trovarsi in tasca le cartine, sfarinare il tabacco forte  e ravvolgersi una cicca. Si era appena sulla rotabile, si guardò tutti adestra in un vallone calmo di nebbia bianca, come lago. La moglie di Giuseppe ci disse:

– Le ragazze a mondare si bagnano le gambe – e rise.

Ninuccio ancora:

– Si rinfrescano – disse con la bocca piena.

Bisognava salire a cavallo sui muli e sull’asina: io e Ninuccio sul mulo più vecchio; mamma sul muletto nel basto, Paolo ne portava la cavezza perché era pericoloso lasciarlo a se stesso. Giuseppe fece complimenti alla moglie. Lei piccolina, con la sua veste lunga e larga, preferì andare a piedi: – La faccio ogni mattina questa strada – disse con tanta convinzione.  La vidi far passi lesti da monaca, avrei voluto scorgerle i capelli bianchi come nebbia sotto lo scialle. Il compare Giuseppe decise. Lui si mise sulla groppa dell’asina carica già dei bagagli, e ci precedeva. Poi veniva il muletto, poi il mulo vecchio, mio e di Ninuccio. E la moglie di Giuseppe andava scartando i sassi di lato.

Si pensava alla nebbia. Nelle conche tra i monti, finoa una certa altezza, dilagava, formava dei ponti. – Il mare – mi disse Ninuccio – da noi non ci sta. – Il mare – gli risposi – è molto lontano da noi. E subito dopo una pausa, parlammo d’altro.

Lui disse che se veniva chiamato a fare il militare, si  sarebbe gettato con un salto sulle ragazze; chi gli avrebbe  detto niente? – Mentre di quà si può giocare solo quando  si monda il grano, ma ‘le ragazze vorrebbero … Sono i genitori! – Lui però una ragazza l’aveva salita. A quell’ora dormiva.  Gli domandai, staccando che faceva in campagna, tutto il giorno, d’estate. Mi disse che più volte si metteva a dormire nel fieno.

– Ma ci sono i serpenti, non hai paura?

– Che? – recise lui – del muletto ho paura, che scappa o me lo portano via. E allora lo lego con un capo della cavezza a un albero e con l’altro capo alla mia mano; così se lo staccano dall’albero, staccano anche me .

. Volevo chiedergli com’era l’annata, ma lui continuò che sognava le ragazze. Che ieri domenica a sera aveva ballato in una casa, aveva ingoiato tanto vino che se lo sentiva ancora in bocca adesso.

Venne la prima scorciatoia, scendevamo nella nebbia.

– Siamo nel mare – dissi.

– Macché mare – disse lui – mettiti il fazzoletto sui capelli perché punge e prendi la bronchite!

C’erano di là le masserie e s’affacciavano i cani ad  abbaiare:

– Sono i fondi di Monaco – m‘avvertì Ninuccio.

Gli altri andavano avanti silenziosi; Paolo tirava la cavezza ma forse camminava dormendo. Giuseppe scese dall’asina e rimase dietro a fare bisogna. Scendemmo tutti e camminavamo a piedi perché era scomodo. I mulicosì incominciarono ad annusare il terreno strappando ciuffi d’erba. Così conNinuccio parlammo delle cose della terra, aspettando che Giuseppe sisbrigasse. Penso che poteva già aggiornare, ma noi  si parlava ancora come fossimo all’oscuro. Giuseppe ci raggiunse. Veniva l’altra scarciatoia tra due file di querce in piano. Dicevo:

– I serpenti nell’erba stanno dormendo.

Ninuccio diceva a Paolo che non s’azzardasse a mettersi sulla groppa del muletto, ma Paolo l’addomesticò lisciando  il pelo, finalmente senza scosse salì sulla groppa. Fummo tutti  attenti e Paolo fu tanto lesto da non lasciarci  il tempo di  gridare prima di spaventa poi di gioia. Ninuccio però sembrava rabbioso e, volto versa di me:

– Va là coi serpenti – disse – di là, più avanti, troveremo campi di fave e ne mangeremo.

– Su in paese non ci sono ancora.

E disse che venivano i luoghi bassi, il frumento e l’avena e l’orzo crescevano meglio e i frutti vengono prima carnosi sugli alberi:

– Questi luoghi però non sano nostri, appartengono all’altro comune,sono dei Grassanesi.

L’asina davanti si arrestò. Giuseppe disse allora alla moglie:

– Bè, tu te ne vai di quà, che vieni a fare alla stazione?

Diceva alla moglie che lui sarebbe venuto con noi. La comara ascoltò come una giovane sposa. Venne da mia madre e da me, disse:

– Buone faccende e ritornate presto.  Noi rispondemmo:

– Statevi bene.

E la vedemmo allontanarsi tenendo sollevata la mano che ci aveva dato.

Il compare la richiamò. Poi dando passa all’asina coi talloni, diceva:        ,

– Accendi il fuoco con qualche ramo. Mettiti sul letto fino a che sale la nebbia e prepara la colazione.

Alzai gli occhi, vidi che nebbia tanta non ce n’era. Doveva essere così. Verso una certa ora la nebbia saliva a far le nubi e il cielo tristo. Ora galoppammo allegramente nel piano. Ninuccio se ne scese dalla groppa mentre si galoppava, s’inoltrò tra le piante verde-cupo delle fave, tutte le tasche le riempì e di quelle che mi portò io detti alcune a Paolo sul muletto  e Paolo disse:

– Tra 15 giorni!

– Tra 15 giorni – disse Ninuccio.

– Anche da noi fave a non finire!

Ancora era discesa adesso. Ci venivano incontro buoi e cavalli usciti al pascolo e sempre nuove e più belle masserie dei Grassanesi.

– Quei cavalli – disse Ninuccio – il padrone li ha comperati piccoli e per poco e adesso, com’è quel cavallo che ci guarda con la testa alta, minimo ventimila carte grasse.  Guarda ancora quanti sul ciglione, una trentina, dove ne trovi al paese? I Grassanesi sanno fare, meglio di noi e sono pure favoriti perché posseggano il piano.

Ragliava venendoci incontro un’asinella sarda. Ninuccio diceva:

– Che infelice! Guarda che pare una capra, fa i passi della gallina, che scema! e annusa il muletto che vuole? Brr.  Brr. Brutta scema!

L’asinella rimase dietro di noi e ci guardava sbalordita.

Ninuccio disse:

– Eccone un’altra scema, giù. Il padrone non ha che pensare, compra quelle bestie inutili e sceme per lusso. Il padrone è grassanese. Io vidi la masseria con una torretta troneggiante e pensai come il padrone poteva divertirsi con le asinelle e le altre cose di lusso.

– Tutto è lusso, che fai? – gli .dissi – non pensi a quelli che sono partiti con la corriera?

– Fessi loro, vanno pigiati e il viaggio finisce subito  mentre la strada è lunga e non vedono tante cose e rischiano  di restare a terra.

Allargò la mano, la spinse intorno dominante da sul mulo:

– Non vedono tante cose – disse – Ecco quà quanti  fiori! diceva nomi di fiori e di piante in dialetto, che non  capivo: – quest’erba i Grassanesi la mangiano; acerba  è, molto.

Lui a Grassano non c’era mai stato benché fossero pochi chilometri. Facevano festa grande a settembre in onore  di Sant’Innocenzo. Ci fiancheggiavano lembi di terra con fiori  bianchi e papaveri ed erba verde. Sembravano vesti di fanciulle. Ninuccio guardò che mi piaceva:

– Lì- si mise. ad insinuare – una ragazza, eh?

Ma gli risposi:                .

– Passa la gente come si fa?

Non sapeva.

Ci mettemmo a correre, fummo di nuovo sulla rotabile per dove sarebbe venuta la corriera, ed eravamo d’un tratto vicino alla stazione, fatta di un po’ di palazzi, di rotaie e di gente nera che girava attorno. Le acacie a destra e a sinistra con i grappoli appassiti dell’altra estate parevano donne partorite, neanche Ninuccio sapeva perché. La corriera ci raggiunse.

Noi fermammo i muli per non farli adombrare. Si dette grande aria Giuseppe, diceva che l’asina s’adombrava, ma Ninuccio ne rise. La corriera ci passò. La guardammo, era una gran cosa, che non poteva fermarsi a perder tempo. Ninuccio  fu rabbioso, perché si doveva un po’ prima accelerare per non farci sorpassare”

– Ma non ci pensiamo – poi disse a Paolo – tu ritorni  e se attacchi la strada giusta, puoi arrivare in campagna nostra molto presto.

Paolo disse di sì. Giuseppe si sbrigò a scaricare:

– Grazie – ci fece – caffè non accetto, farò colazione con mia moglie.      .

– Saluti a tutti – disse trionfante mia madre, che scesa dall’asina, si metteva a correre in varie direzioni, diceva di  far presto e si vedeva confusa.

Ninuccio mi scosse:

Guarda, guarda che c’è quel soldato paesano che Paolo

gli offre un passaggio sul mulo e rifiuta, senti: «no grazie,  vado con la corriera, non mi ci troverei, si arriva tardi, no grazie! »

Paolo disse al soldato: – Tanto piacere – e gli fece saluti con la mano.

_ Ciao – disse il soldato con voce di femmina.

_- Statti buono _ gridammo a Paolo io e Ninuccio e la mamma, e: – Attento che non cadi.

Così il paese era finito alla stazione con quelle parole.

 

 

 

 

LA FESTA

 

La prima festa capita di maggio, con le ginestre e le fave  piene. Il buon tempo fu a spingere la moglie del Duca Sanseverino che trovò bello il posto dove i pastori, entrati tra le  quercie una volta e due per legnare, avevano fatto largo ed  era nato il piano. Ed era stato istradato anche uno zampillo  fino alle pietre dove si sedevano di solito a far merenda.

Oggi si prende una delle cinque balilla per arrivare al  bosco la giornata della festa.

Pochi anni fa – invece – venivano in una stessa macchina soltanto il primo cittadino e i preti e bastavano tre viaggi a Ferdinando con la sua Lancia a sei posti per portare a Fonti tutti i professionisti e i proprietari.

Gli altri andavano a piedi o nei traini o con le bestie, generalmente scalzati per devozione alla Madonna, «che in Fonti sta».

Da quindici anni a questa parte, dalle mezze guerre alla guerra, alla fine prima le biciclette e poi le moto, infine le  balilla e i pullmann hanno ridotto .il numero degli scalzati. Se le cose andavano bene o male, se gli uomini non scrivevano o tornavano, bisognava correre alla nicchietta a deporre fotografie e cornicelli, ogni tanto capelli, o scarpette di bambini o la veste bianca della sposa che morì nell’allegria, tutta roba di prima. E perciò i dieci chilometri sono coperti di gente, come prima e più di prima, dal paese al bosco. Sui traini traballanti si canta la vecchia storia del pittore pugliese, cui annottò nel bosco pieno di lupi e la Madonna glì chiese: «Bel  pittatore che vai pittando – perché non me la pitti la cappella? » Diventò cieco perché aveva risposto alla voce pretendendo duecento ducati di compenso, ma poi capì e mise i colori alla cieca su una pietra.

L’alba viene per istrada a chi si avvia con i vecchi mezzi,  cantando la storia del pittatore.

Dal venerdì sono arrivati i venditori ambulanti che fanno trovare il piano imbandito di tavole e carrozzini con i giocattoli, le arachidi e le prugne secche. Anche sezioni di bar e di cantine ci sono .

. Da San Chirico hanno tuttora il coraggio di portare un  paio di barili di vino, li piazzano sull’erba con i litri e i quarti  di latta, certo che vendono, ma non vale la pena del trasporto  e le spese di dazio, vendono a qualche pazzo isolato, perché tutti gli altri arrivano forniti di maccheroni e carne e vino  e dopo la visita alla chiesetta, finita la messa, le fedeli gridano  i loro canti e vanno a far colazione vicino al pulpito e nella  sagrestia.

« Ointanì, Ointanà » così cantano e le funi dell’altalena  si stirano.

C’è la gente di almeno dieci paesi, i compari si salutano, si mettono insieme, si vedranno l’anno venturo, ma gli altri  che non si conoscono si guardano con curiosità e gelosia; se  portano il mulo o la fisarmonica, se li confrontano e può scoppiare per niente una lite, specie tra i giovani.

 

Nicola, daziere giovane, è stato mandato da Tricarico a fare il servizio. Ha preso la bicicletta, porta la coppola con  la pezza, da dove spiccano le maiuscole ricamate in oro delle  Imposte e Consumo. Egli se la sente in cielo la coppola, sta tutto dentro alla bandoliera che lo cinge. Guarda dalla sua aria alta e mossa le donne a piedi e i cavalieri sui muli e spinge lo sguardo dal suo seggiolino al parabrezza delle macchine per scoprire: nessuno può portare più di due litri di vino a persona, deve essere per proprio consumo, se no si contravviene e sono pronti il blocchetto e la matita. Nicola vuole fare un buon lavoro, non si salverebbe neanche la Madonna in persona.

E gira e capita dai venditori e da quelli di San Chirico, che devono mostrare il permesso perché il bosco è agro di sua competenza. Gli piace sentirsi sulla bocca il lungo bacio dei venditori che gli fanno complimenti ed inviti alla merce, perché ora egli è passato a controllare tutti i posteggi.

A mezzogiorno sparano i fuochi, è la vera festa, le bestie si impauriscono, le tende delle baracche si piegano, il vocìo  dei paesi si perde negli scoppi, allora Nicola si accorge che deve cercarsi la compagnia perché coppola e bandoliera lo hanno abbandonato.

Ma ecco che si rincorrono, sotto le quercie, verso la fontana una diecina di giovani, spiccano le loro giubbe di velluto  e le camicie celesti, la lite è scoppiata, un bruno di Tolve  è stato accoltellato al braccio da un sammaurese proprio quando sparavano i fuochi. «Addivozione dei Sammauresi »  è scritto sulle panche della chiesa, fatte fare da loro che si  sentono i meno forestieri dell’ambiente. Quelli di San Mauro fanno trenta chilometri di scorciatoie per venire fin qui. Portano il distintivo del partito comunista e lasciano cantare per tutti la loro paesana, una vecchia che arriva a Fonti, vestita di nero, va in sagrestia, si spoglia per mettersi in bianco, in solennità come un prete, e comincia a cantare la catena alla Madonna. «Alla una colonna – quant’è bella la Madonna – Tu sei la Madre – Tu sei la Regina ».

Alle due, alle tre, alle undici colonne, canterà fino alla 13 la sua interminata catena che riprende poi da uno.

Il tolvese si è trovato isolato, altrimenti succedeva una carneficina, corrono dai gruppi, dalle coperte sull’erba dove  sono pronti i piatti.

– Non c’è festa senza incidenti, – ha detto il capo guardia, – sono forestieri, è stato per una ragazza.

E’ tornata la pace, nel piano i potentini ballano con la fisarmonica, le loro donne cittadine portano le vesti di lusso. I paesani dapprima si avvicinano, ma notando i balli di un’altra maniera e sempre le stesse coppie e certe mosse, si devono allontanare. Allora vogliono ballare anche i paesani, basta con l’altalena: chitarra e mandolino, fisarmonica pastorale, polka e tarantella, mazurka. Gli albanesi, i campomaggioresi, Grassano, Anzi, tutti meno i potentini, i preti e le autorità e Nicola, che è ripartito senza bandoliera e la coppola sotto il braccio  perché sudava, e il fazzoletto pieno di nocelline per la  mamma.

« Tricarico e San Chirico – è un sol paese – fateli ballare – sti tricaricesi ».

Difficile, ma si sono trovati dalla stessa parte, partiranno gli ultimi, indietreggiando dal muro dov’è pittata la Madonna: « Noi mo ce ne andiamo – ci vediamo l’anno che viene –  e se non ci vediamo più – Madonna aiutaci tu ». Riprende il cammino, molti non arrivano al paese, si fermano alle terre a lavorare. I salariati del posto rialzano le verche, menano i buoi al bosco, al loro casone i fontaiuoli accendono il lume e lo straziuso, che tiene un po’ di animali: pecore, capre, porci  e due bovini, abita accanto a loro in un pagliaro con la famiglia, rimette al suo cane il collare di ferro contro il lupo.

 

(Maggio 1951)

 

 

 

 

FILI DI RAGNO

 

Mia carissima Tilde, dopo la vana attesa di mie notizie ti sarai messa con un altro, era nel tuo diritto ma io sono ampiamente scusato per i fatti che ti scriverò. Non conosco il tuo indirizzo, tu stai oltre la frontiera, le frontiere io non le ho mai viste, so quelle dei miei paraggi a memoria e ne  sento l’aria quando esco e rientro per qualche viaggio. Uno di questi viaggi l’ho speso per trovarti dopo la tua ultima lettera, alla quale non ti ho dato più risposta. Ti cercai a Roma dove stavi prima, a telefono la tua amica (c’era un maledetto baccano ai telefoni di piazza S. Silvestro) mi fece capire appena alcune parole. «Maison des etudiantes» capii; della via, del numero niente: ci fu uno di quei tuoni nell’apparecchio; e il nome sentii, chissà quale, d’una di queste cittadine della Svizzera che vado carezzando qui vicino sulla carta.  Staccò subito la tua amica, ritelefonai, non rispose. Dovette partire anche lei. Tutto mi seppero dire, al portone, fuorché i suoi indirizzi che logicamente si portava in un angoletto dell’agenda e c’era anche il tuo. E me ne accorsi che doveva partire dal tempo che mi fece aspettare dopo l’annuncio del mio nome a lei da parte di una voce maschile: io stetti all’apparecchio e sentivo ciabatte nei corridoi, carte smosse, porte sbattute, e di nuovo ciabatte, tu sai come si sentono queste cose. L’effetto che mi fece Roma senza di te. Lo dissi a Carlo il nostro amico. Lui, bravo ciabattino e buon paesano, proprio ci tenne, per qualche sera, a guarirmi e mi portò da Marino, alla stazione, sul Pincio, a casa di Cristo, voleva  farmi sperare, tu lo sai come è sempre contento. Dovetti salutarmi anche da lui perché non avevo più soldi e poté credere che fossi guarito col vino asciutto, ci mettemmo a cantare le aspre nenie di qui e sfottemmo all’uso nostro le persone. La sbornia mi passò già nel treno, tuttavia (chi può sapere cosa avevo combinato con una donna a fianco?) quando fui lucido tu ancora non c’eri, c’era quest’altra donna: me la spassai al finestrino, ero felice di lei, delle bravure con Carlo che se ne venivano a una a una e mi facevano ridere da solo. Non so certe donne come la pensano, rideva anche lei, disse che ero bello. A me, se dicono questo, mi mettono le chiavi in tasca, ero capace di aprire tutte le porte, di correre più del treno. A quegli sciocchi di commercianti e gagà fumava il naso di vedermi così coccolato. Mi guardarono una volta abbracciato a lei, ancora una volta, potevano dire schifezza, si voltarono come preti a contarsi le dita. Più furbi poi dovettero assistere al nostro teatro fissando il finestrino illuminato, di là ci controllavano bene, là ci specchiavamo io e la mia donna. Che le combinai? Avevo un biglietto da visita di un mio collega, una pera, non lo conosci, che si fa chiamare dei Principi di Aragona, gli detti quell’indirizzo per mio, figurati  la mia donna. A Napoli voleva scendere a salutare certi suoi parenti al Vomero, che l’accompagnassi. Mi fu facile negare per il controllore, che bucando le chiese ossequioso « Salerno? ». E allora a Salerno se volevo; già, ma mi aspettava il fattore del feudo della mia stazione e di là – in macchina _ dovevo ripartire per l’altro mio feudo di quella pera del mio amico. Insomma, scusami, a Salerno nel finestrino opposto mi vidi perso. Lei scese gettandomi pugni e baci, le avevo dato appuntamento a qualche giorno. Pensavo se ne fosse andata al diavolo finalmente; quando chiesi una gazzosa con le ultime lire e il treno si mosse, la sua figura precipitò sdegnosa verso il sottopassaggio nera, ti giuro, chissà che bestemmie! Era un’insegnante, mi aveva, prima di sapermi principe, qualificato bello. Allora ti dico mi vidi perso. Tu, Tilde, correvi sulle tue strade, io cominciavo a sentire le mie frontiere nel fumo della prima galleria.

Adesso mi trovo dentro i miei confini, li conosci, e qui per sentirti vicina devo rifarmi al giorno in cui tu li violasti.

Ero, uno dei soliti giorni, apparso nel sole di mille candele della mia piazza.

Era una domenica mattina, tutti i miei paesani fanno la loro apparizione nel sole della piazza. Io passavo rasente, i gruppi che si erano già fermati e che piantonavano la nostra bella piazza sotto il sole. Non si sa mai dove andare da noi, la domenica mattina. Io mi vergognavo, passando, di non avere nemmeno un gruppo che mi facesse bisogno per una qualsiasi delle mie discussioni. Mi sedetti ad un angolo del caffè,  non sapevo spiegarmi perché mi ero fatto elegante e perché  quell’eleganza era così inutile. Misero i dischi nel caffè, i gruppi non ne furono sorpresi, rimasero sugli stessi ciottoli a confabulare e si vedevano solo i mantelli qualche volta muoversi. Io sentivo le chiamate delle squadre che giocavano il tressette, sentivo la musica, mi misi una gamba sull’altra. Te li ho raccontati poi questi confini su una seggiola al lato del caffè.  L’orologio scandì i quarti di ora, venne il turno dell’ultima canzone napoletana, il brusio dentro il caffè venne aumentando, i gruppetti fecero la folla e io mi sentii sempre più confinato sulla mia seggiola. Allora venisti tu. Ti vidi in una macchina lucida, di profilo. Erano i tuoi capelli, era la tua carne bianca e lentigginosa. Corsi come fanno i facchini quando arrivano le corriere, ci salutammo e non eravamo che semplici amici di qualche settimana prima, eppure ci sentivamo già innamorati. Ti meravigliò la mia corsa e la mia ansia nel darti la mano, io mi meravigliavo della tua venuta che era un’apparizione. Conosciuta in un convegno, in Svizzera poi, che volevi da queste parti? Ti avevo chiamato dalla mia seggiola. Ti feci scendere, menò il vento tra la folla la tua lunga veste a campana, tutti mi videro allora, nel caffè ci fecero  largo, l’omone dietro il banco ti versò gli occhi addosso. Ce ne andammo a casa, mia madre lavava e ti fece un segno di saluto col capo e si mise da allora a correre su e giù, lieta di poterti servire.

Con lei – si può dire – compisti il primo miracolo. Io non sono stato mai dolce di sale con lei, mai le ho dato dei  punti di lode per i suoi miseri servigi, ho sempre liticato per i colletti a punte, per le calzette doppie di cotone, per le mutande larghe, per tutte le cose vecchie che sa fare. Con te divenne una serva a modo e ti contentò, non è vero? Lei fa sempre così quando ‘si vede sostituita da me, quando si sente isolata; la prende il broncio della scolara mandata per un rimprovero all’ultimo banco. Dall’ultimo banco mia madre sempre mi ha voluto più bene, ha fatto di tutto per rientrare nel cerchio del mio affetto. Si accorse subito dell’importanza che ti conferivo. Ti portai nella mia stanzetta dove ci fu tanto  facile entrare nell’aria che ci conveniva. Guardasti dal balcone la rotabile che taglia la cima della montagna, da dove venisti con la tua macchina lucida. Toccasti il guanciale del mio letto dove ti saresti coricata le notti di soggiorno nel mio paese. Era così tenace il mio silenzio, così prepotente ciò che in silenzio ti chiedevo che insieme decidemmo di uscire all’aria aperta delle strade; era venuta proprio allora mia madre a bussare piano alla porticina se volevamo qualcosa. L’inchiesta che dovevi fare sui nostri bambini, sulle nostre scuole, ci portò via pochissimo tempo. Ricordo come ti rispondevano gli interpellati fissandoti la faccia bianca e lentigginosa, meravigliandosi della tua bellezza e che il tuo corpo lungo era impiegato in quelle minute faccende. Molti giovani mi chiedevano con gli occhi di presentarti loro, volevano il piacere di arrivare a un passo da te, di toccare la tua mano e in me cresceva l’orgoglio di essere balzato su dalla mia seggiola, di aver avuto in dono te, piovutami d’improvviso nella piazza. A tavola le mie sorelle, i miei nipotini ti tenevano a mente. Scesero a toccare il c1ackson della macchina, vi si sdraiarono dentro come in salotto. Volesti accontentare la loro curiosità e organizzammo la gita nel bosco, lasciandoci sola a casa la serva mia madre.  L’autista era così elegante e compito che ci pareva un padreterno che ti possedeva al lato lungo tutti i viaggi. Inzeppammo la macchina dei bambini, pareva una giostra volante, fazzoletti, scialli, l’abito bleu dell’autista, i paesani e le donne erano  tutti sulle porte, accorsi a vederci. Stretti, mi passasti il braccio sulla spalla, affabile. Il tuo seno lo sentii al mio fianco come un tenero pugno. Lo dovevi sapere che io non ti avrei mai parlato, che il mio amore per te l’avevo detto nel silenzio della stanzetta. Io facevo come mia madre e tu avresti dovuto toccarmi per prima. Nel bosco i vaccari sentirono l’aria di festa che portavamo, le guardie comunali si misero più volte sull’attenti. Qui era la piantata degli olmi, là degli aceri, più  in là il fosso delle nocelle. E poi il Santuario alla Madonna Nera e, dentro, le nocche di capelli mezzo inceneriti delle giovani spose che avevano fatto il voto. Si disse «Andiamo alla Fontana della Cirasa». Ti vidi rimbambita in tutto quel verde, tra le quercie e il cielo in esse, come una vacca addormentata. Le guardie comunali misero il fuoco sotto l’olmo alla Fontana della Cirasa, arrostirono la carne, il vaccaro sfilacciò le treccie, io passavo il bariletto di vino e bevevamo, a turno a garganella. Ti fecero i brindisi, allargavano le braccia, i vaccari, ti cantarono «Alta colonna mia, alta colonna».  Allora cessò lo sciacquio alla Fontana della Cirasa, stavano tutti zitti, l’armonica di una guardia si prese il possesso del bosco. Mia carissima Tilde, era tutto per te, sono sicuro che i vaccari e le guardie ti sognarono la notte, quando il lupo  s’accosta e chiama alla Fontana della Cirasa. Adesso avevo  bisogno di parlarti perché mi prendeva la gelosia per l’amore che tutti ti protestavano, adesso ti volevo sola. Rientrati, subii a malincuore l’invito dei giovani a una festa di ballo. Facevano a gara per averti, qualcuno in disparte, senza il mio permesso, ti parlava. Feci come mia madre, non ballai una volta con te. Usciti, era già tardi, ma tutti e due sapevamo che questa era l’ora  decisiva.

Maledetto me, sono un bambino vizioso. Da te, nelle città, ovunque forse e non qui, i giovani con le loro donne si legano le mani, vanno rompendo l’aria e saltano. Saltavi anche tu e i capelli si gonfiavano. Significava che era venuto il momento nostro. Per te pareva naturale stringerci le braccia già sulle strade. Io mi ricordai della mamma dalla finestra ancora accesa dopo la mezzanotte, sapevo che stava dormendo sulla spalliera della sedia intaccandosi la fronte per aspettarci. Volli chiamare da sotto: – Ma … a! – Lei si schiarì la voce:  -Eh? -fece.

– Vengo più tardi – dissi.

– E quella? – domandò

– E’ con me, veniamo più tardi, va a dormire.

Le strade con la lampadina pubblica in fondo tenevano a destra e a sinistra le porte chiuse.

– Ti porto a vedere il paese come si vede di notte dalla  passeggiata.

Fino alle ultime case ti facevo da segretario e ti scartavo  la strada. La nostra passeggiata qui lungo la rotabile ha le sue tappe definite. Incomincia dall’ultima casa dopo la quale ci sono in fila le robinie. Fa tutta un’ampia curva la rotabile per mettersi parallela al paese che si schiera così davanti a noi scoprendo man mano i suoi grappoli di luce. Per vederci in faccia viene a noi lo scialbo candore del brecciame. Le robinie fanno ombra e di più ne fanno i pini della città dei morti, che è proprio sopra la curva. Questo faceva per noi: l’ombra dei pini, le luci del paese schierate, lo scialbo candore della nostra rotabile. Così nelle notti io e qualche mio amico veniamo da queste parti a sognare il paese disabitato, a contarci le nostre vicende, a far proposito di partenza.

Così io con te, lungo la passeggiata, parlai che il paese mi piaceva senza i suoi abitanti, che speravo di andarmene. Ti piacque la mia melanconia che era quella stessa del paesaggio tutto nero, una tavola nera e sempre lontane le luci  degli altri paesi. Perciò forse, sciogliendo con un moto del busto i capelli all’aria, mi prendesti il braccio, io mi ebbi di nuovo la grazia del tuo seno, un tenero pugno. Eravamo oramai sulla via giusta per volerci bene. E volli che ritornassimo per la scorciatoia a zig zag che scende nella valle per risalire al paese. Si passa per un convento e c’è avanti il viale aperto dove le monache vanno a passeggiare. Risalimmo al paese, sentivamo la nostra carne vicino, andammo al punto alto a sederci sopra l’erba ai piedi della torre Normanna. Potevano essere le due, le tre di notte, il cuculo riempiva gli androni vuoti della torre. Saremmo rimasti a dormire su quell’erba, ormai si era troppo addentro l’un per l’altro.

A casa entrammo da ladri, c’erano i letti di mia madre, delle mie sorelle, dei miei nipotini, io ti condussi nella mia stanzetta dove fui lesto a baciarti con il terrore di vederti  sotto la luce.

Ero anche terrorizzato la prima volta che ti scrissi, ma tu sei stata sempre così brava, è un vero problema togliermi  di dosso la timidezza di pecora che mi ha dato mia madre.

Mi portasti poi a Potenza, si arrivò di notte, le orchestre suonavano i pezzi al Patrono della città, in albergo si voleva stare  insieme, ma il guardiano notturno, ti ricordi? mi scacciò con  un’ occhiata.

L’indomani sera era l’ultima ombra che io potevo vivere con te perché dovevi ripartire. Nella villa comunale ci sdraiammo le ultime ore, anche tu ti sentisti male, ma me lo hai scritto, è più male per chi resta. Mi vidi le orchestre disfatte, rividi la villa comunale, rientrai nelle mie frontiere, rividi mia madre e le monache e la Torre Normanna che la notte si rianimava al canto del cuculo.

Per darti una parte di me quando te ne andavi, a Roma ti indirizzai da Carlo; chi altro che lui, aggiustascarpe, può  essere mio amico che sta a Roma? Egli ti riparlò di me e del paese, mi scrisse meravigliato che io fossi stato capace di te e della tua amicizia, aggiunse alcune maliziose domande, se ti sapevo, se ti avessi toccata.

Scrivesti, mi portavo le lettere in tasca, ne portavo una  finché si sgualciva in attesa dell’altra. Andavo la sera alla posta a mettermi in fila ed aspettavo la tua lettera come un  piatto caldo. Me la mettevo in tasca e con quella ti parlavo, ero sicuro sempre di averti già risposto. «E’ lungo il tuo silenzio» mi scrivevi.

Quando si mette la penna sulla carta, le parole qualche volta dicono di più, qualche volta dicono di meno. All’ultima lettera annunciavi il tuo irrimediabile saluto, dovevi andartene nella tua Svizzera, il lavoro era finito, come risponderti più?

Bisognava raggiungerti, tenerti con me una volta per sempre: mi preoccupai di avere i soldi, di farti la sorpresa; ma i soldi sono i miei nemici dichiarati perché vogliono essere rispettati, io al contrario li getto sui tavoli e non mi pare  mai presto di metterli tutti fuori. Così non ti trovai a Roma. Mi ebbi le tue ultime cartoline, bei panorami, belle rocce e  steccati e mucche della Svizzera. Dove ti rispondevo? Che addio posso ora darti? Mica torni più qui. Perché e a chi scrivo questa lettera?

Ah, certo: i ragni mettono i fili in faccia al primo passante della strada e chissà che tu non muova la mano alla fronte, un giorno, dicendo; – Questo è lui, è vivo, è rimasto al suo buco.

 

(giugno 1948)

 

 

 

SALA D’ASPETTO

 

Venne un gattone grigio, ma pulito, nell’atrio lucido della  stazione nuova di Ancona, strisciò sotto l’ombrello d’uno col cappotto al quarto sportello, seguì una sua solita pista per i castelletti delle pubblicità, adorni di begonie e asparagina, sopra c’erano l’orologio che muoveva come mani le sue lance  ogni minuto e le viste delle città marchigiane, il castello di  Urbino, la Torre di Sinigallia, l’Arco e Macerata e Fabriano  e Ascoli.

L’agente l’accarezzò, così pure il controllore di entrata, lui indifferente curvò la schiena e se ne salì sui libri e giornali della rivendita, dove poteva essere di casa.

La signora contava gli spiccioli e sfogliando, con pari indifferenza, gli dette un’amorevole sventola per liberarsi.

Fu la tosse da uomo della signorina che voleva il suo romanzo a creare attenzioni reciproche tra noi che si aspettava  sugli scanni, spalla a spalla.

La signorina allora fu presso di me col suo giornale, lo  aprì nel punto giusto, si chinò a leggere. Parlavano solo il carabiniere, il controllore e l’agente sottovoce.

Sottovoce venivano i treni e ripartivano, per la mia partenza mancava un’ora e più. Tra me e la signorina, ne venne  un’altra. Erano diverse: la prima con i capelli ravviati molto sulle orecchie faceva tosse da uomo e leggeva, la seconda aveva pure il suo giornale in mano, non leggeva, irrigidiva spesso la punta del piede ogni volta che dovevano muoversi i suoi  nervi e i suoi pensieri.

Mi accorsi che la seconda guardava spesso la prima, subito dopo di me, quasi seguendo il cammino del mio sguardo perché quella mi era più presto entrata negli occhi: lei non si muoveva mai, ogni tanto tossiva, aveva spartito attorno al corpo il soprabito, una gamba sull’altra, nude, bianche.  Chiuse finalmente il giornale, quando si alzò non era più lei a vederla camminare, il nudo della faccia che si estendeva sopra le orecchie non era una cosa sola – come prima –  col nudo delle gambe.

In piedi aveva nascosta la faccia nel soprabito, che era  sceso lungo il corpo. Andò alla sputacchiera, vi stette che l’orologio si mosse con una mano, io aspettai che ritornasse  agli scanni, invece prese la via dell’uscita e le vidi la faccia rossa e gonfia, non le era riuscito di sputare.

Intanto c’era più gente agli scanni e a uno a uno gli occhi degli sportelli si illuminavano e cominciavano le file.

Seguii sopra le spalle di una signora dai capelli a cocuzzolo l’andarsene della signorina che ancora si gonfiava per cacciare fuori dalla bocca, vidi che si appoggiò vacillante alla ruota  di una carrozzella, allora decisi di seguirla perché mi aveva preso. Si rifece subito, salì nell’autobus, la seguii, scendemmo  al teatro delle Muse nero e affumicato.

Si avvicinò al gruppo (c’erano dei gruppi nella piazza con  le mani in tasca, giacchettoni neri, giovani alti e uomini tagliati come tronchi, facchini, scaricatori); uno dei giovani puntò le mani sul gradino, al vederla si erse, le fu vicino, le mise una mano sulla schiena, si guardarono senza parola, lui la  tirò fuori dal gruppo, li vidi venire verso la pedana della fermata dev’io ero rimasto, poi lei, la sentii la prima volta parlare: che voce fina, non l’avrei indovinata dalla tosse!

Disse accennando a me: «quest’uomo mi segue». Mi  aspettavo dal giovane una guardata di sdegno, che era già  naturale alla sua faccia, invece addirittura mutò il volto in  un sorriso: «Vuole qualcosa dalla signorina?» mi chiese. Come parlò, avrei potuto anche dire la verità, forse lui me l’avrebbe ceduta, ma forse si sarebbe l’abbuiato. A questo  pensiero mi vidi perso, ebbi la forza di rispondere:

– Cosa potrei volere? Chi le ha chiesto niente? –

Andiamo, fece il giovane, e lei: – Eppure – disse –  mi pareva.

Si allontanarono. L’uomo di un gruppo parlava rivolto  al mare e gli altri ascoltavano con gli occhi a terra. Quando  ripresi l’autobus di ritorno, la signorina e il giovane erano  dietro la vetrina di un bar a vedermi.

Attaccai i miei occhi alla lastra dell’autobus, la voce di  quella donna mi risuonava dolce. Se avessi risposto che la volevo, se fossi riuscito a parlarle nell’andata prima di scendere mentre ella mi fissava voltandosi! L’autobus era pieno ora, si scendeva tutti al piazzale della stazione, dovetti muovere le gambe. Perché dovevo affrettarmi a prendere il biglietto, provai a tutti gli sportelli, urtando le persone in fila. Cacciavo i soldi giusti in mano, poi mi pareva di perderli, Li rimettevo in tasca; ogni tanto tastavo il petto a sentire se c’erano.

Il controllore era al suo posto, rideva verso la rivendita, io capii, per il gatto.

Quando fui sui binari e mi parve dal sottopassaggio uscire all’aria delle campagne col treno in corsa, fui toccato alla  spalla da una mano che mi girò indietro: due carabinieri mi  fissavano.

– E’ lui! – disse, venendomi sotto l’altra signorina che mi era stata al fianco nell’atrio.

Ecco i miei documenti, che volete? – dissi ai carabinieri.

Non occorre – risposero.

E’ lui lo schifoso! continuava la ragazza.

Mi urtò al braccio. Si addensarono su me tanti volti e il treno arrivava.

– Devo partire, ecco i documenti — ripetei.

Tutta una lunga processione di gente era dietro di me, ragazze saltavano in coda per vedermi.

– Ma? – chiesi per la strada.

– Vergogna! – gridava la ragazza e correva avanti i carabinieri per parlarmi sulla faccia.

Il carabiniere le fermò una mano: – Vedremo in caserma – disse.

Mi cadde il velo agli occhi per il biglietto, la mamma  al paese, la sorella che mi aspettava a Forlì, forse già stringeva  i cappotti ai piccoli, li caricava puliti sulle biciclette e si  avviava per l’ora dell’arrivo.

Quando si aprì lo spioncino al portone del1a caserma sussultai, era la faccia di Gullì, il carabiniere mio paesano.

– Gullì, – vedi se è giusto! – gli dissi ridendo.

Lui disse, richiudendo dopo la signorina:

– Vai sempre girando! – ma non mi guardò più in faccia e rimase alla porta.

Tirarono altri carabinieri una panca, lì stetti a sedere.

Guardavo la stanza, i disegni dei moschetti, le frasi stampate  sui muri. Un militare passava nel corridoio con lo spazzolino e l’asciugamani, disse:

– Gullì, hai visita dei tuoi? – Sentii Gu1lì dire no a  suo modo, con delle sillabe borbottate. Nella stanza dov’ero si dettero il cambio, nessuno che mi avesse detta una parola, il tempo passava ai balconi.

Chiesi di poter accendere una sigaretta, non mi risposero  né sì né no; dopo, mentre la cercavo nelle tasche, il più alto  coi baffetti parlò:

– E se ti chiama il Maresciallo? Potresti aspettare.

Non fumai, e fu giusto, ché subito i tacchi della signorina  suonarono nel corridoio. Venne Gullì sulla nostra porta, si  menò il pollice alla spalla per chiamare il più alto coi baffetti,  e questi, alzandosi, gli rispose con un giro d’occhi sul mio  capo, ma Gullì disse:

– No, vieni, chi lo sa?

Il biondo, rimanemmo io e lui soli, estrasse la scatola di cerini, flemmatico, sfilò un pezzo di matita e si mise a  far segni, piegava a un lato la sua bella testa di santo, io  capii: aveva temuto che gli dessi parola. Fece punti e croci  e cerchi agli spigoli, sulle faccie esterne della scatola, sul tavolo ricalcò l’orecchietta e la suddivideva con punti e l’allungava.

Allora mi volsi ai rumori delle macchine sulla strada, appena udivo anche le voci della gente. Mi feci cadere la forfora dai capelli, mi morsicavo i polpastrelli delle dita. Ci tenevo a non respirare forte, ma non riuscivo. Erano sospiri, certuni così profondi, mi accorgevo che per ognuno il biondo si fermava più sui suoi scarabocchi.

Lo stesso scrosciare del mare di Ancona era, in quel silenzio, accanto alle mie orecchie.

Solo alle cinque, vidi l’ora al braccio dell’altro dopo che  fu ritornato e mi parve una certa grazia avuta da lui, tutti e due si alzarono, si stirarono le giubbe sul ventre, fui introdotto nell’ufficio del sig. maresciallo.

Notai come mi guardò in prima, senza dir parola, senza  rispondere al mio saluto con inchino: mi osservò tutto, forse  non gli sfuggì certo moto dei muscoli alle mie gambe, restrinse  gli occhi a fissarmi, io n’ero tutto investito, mi abbottonai la giacca, per presentarmi meglio, egli andava spiando in me, cercando un buco, uno spiraglio che gli permettesse di decidere, sull’istante, della mia sorte. Fui il primo a parlare mentre egli continuava a ispezionarmi, avevo tanto bisogno di parlare da quando mi ero licenziato dagli amici:

– Maresciallo mi sono fermato presso amici, proseguo per Forlì da mia sorella, ecco la mia carta.

Rise. Aveva già deciso di me?

– E perché, con questo, non si può sfilare la borsetta  di una signorina e trenta biglietti da mille, eh? Una ragione  di più, voleva farne dono alla sorella o alla fidanzata …

L’interruppi e lui alzava la voce, mi lasciò dire:  – No, mai più, cosa dice?

Gli raccontai per filo e per segno da dove venivo. Non riusciva a leggere bene il mio paese sulla carta, gli dissi:

– Domandi a Gullì.

Non ne fu sorpreso, doveva già saperlo, rise:

– Bella sorpresa per lui!

Ripresi il racconto dei miei passi nella città, la stazione, il gatto, la signorina, l’altra:

– C’era un’altra, tossiva come una dannata, le stava a  fianco.

Mi fermai.

– Vediamo il tuo portafogli – disse.

Non lo feci muovere, mi alzai, rivoltavo tutte le tasche,  gli misi carte e giornali e sigarette e un po’ di moneta sul tavolo e mi davo coraggio, mi pareva uno scherzo.

– Dunque innocente, eh? Nome, cognome e tutto.

Gli apersi la carta, alzò la voce:  – No, dillo tu.

Perché sbagliai l’anno di nascita? 1943, fece risate di  bambino il maresciallo.

Si mise alla macchina. «A domanda risponde. Nego. Sono innocente»: Quando firmai lessi: «in oggetto generalizzato», ero io.

A una porta chiusa alle mie spalle fecero rumore. Il maresciallo si volse e anch’io, era alla parte bassa della porta, pensai a un cane che raschiava per entrare. Il maresciallo  si levò, poteva avere una quarantina di anni, appena un po’ di pancia portava avanti con quell’età e con quel grado, di  statura media, il petto in fuori. Addirittura corse verso la  porta e s’inchinò, prese tra le braccia una bambina, la sua, nervosissima che non stette un momento ferma.

– Portatelo in camera di sicurezza – ordinò all’appuntato rimasto come una statua al suo tavolo, io rimirai la bimba che si arrabbiava sulla tastiera della macchina e lui fu  pronto a dire:

– Dategli, se vuole, da mangiare.

Gullì non si vide. Era smontato e fuori libero.

Mi dissero: – Slacciati le scarpe, dacci la cinghia e la cravatta. Vuota le tasche.

Non ho saputo mai dire in quel momento che cosa mi sentivo. Dovevo sorridere con una faccia che non era più la  mia, l’uomo certe volte è un nonnulla nelle mani degli altri. Ritornai a me dentro la cameretta di sicurezza, mi tastai le ginocchia. Non volli mangiare. Un altro era già fuori sapendoci fare, pensai. lo mi mettevo nelle mani della sorte e badavo  di non infastidire Gullì, sperando che si fosse mosso da solo  alla pietà.

L’indomani rividi la luce, alla guardina prima, al portone, nell’atrio lucido della stazione, ero libero, non mette conto  riferire i pensieri della notte una volta che il piede cammina lesto sulla strada. La città era sveglia completamente. Erano vive le rotaie, che pure tengono sempre il buio luccicante delle notti. Sulle rotaie il treno era pronto. Con la partenza ogni  cosa si disponeva sul proprio binario. Il fischio del treno suonava nelle orecchie di mia sorella che ancora una volta preparava i bambini e spiava da un angolo alla stazione. Gullì depositava in camera di sicurezza la signorina dalla tosse da uomo  prelevata nei pressi del teatro delle Muse, l’altra riaveva la borsetta, non il denaro, e il mio indirizzo per le scuse e gli  auguri cordiali.

Devo mettere capo a far bene, mi ha scritto Gullì, al che  io voglio rispondere che non è buon affare propormi il fidanzamento con la giovane vittima, ricchissima, andante. Lei ci starebbe, mi ha scritto Gullì, ma a me piace più la ladra, la poverina mi crederà ancora un poliziotto. Tossisce, che fa?  E’ bella, sa leggere intieri romanzi, e scucire borsette, mantiene il suo amore a un facchino disoccupato.

 

 (1949)

 

 

SUONATA A DISTESA

 

Febbraio di quest’anno. Un oblò è la lampada accesa sul  mio capo, di fronte è l’armadio con lo specchio e l’oblò dentro che cammina come proprio a fior d’acqua perché tutta la stanza dell’albergo si muove al terremoto della strada e quindi  sbatte violento lo specchio dell’armadio. Non ho dormito.

Quando finalmente la luce del nuovo giorno è venuta nella  stanza come un terzo lenzuolo che tutto fasciava, me e le pareti, allora mi sono addormentato, abbattuto e vinto come in un fosso, le ferite ai piedi non dolevano più.

Tutto il giorno trascorso ho camminato da Stella Polare di Napoli a Portici, lungo la strada più suonante del mondo,  dove la miseria canta a distesa: i carretti dei cavoli, i deboli  fanali di luce celeste; i traini ammantati di sacchi vuoti; i tram che galoppano e sventrano i bassi: giornali, donne e uomini, bambini ai marciapiedi; i pezzi di biancheria e i quarti  delle beccherie, la sedia con le caramelle e l’uomo che si frega  le mani e chiama, i cesti con le cipolle e la rec1ame «Gente  currite, currite».

Sono entrato da Nicola, mi aveva fatto chiamare sapendomi a Napoli. Il giovane che è venuto mi ha detto:

– Sono collega di Nicola all’università Agraria di Portici, Nicola non si sente bene e vuole per un poco la sua compagnia e, se riparte per il paese, vuole affidarle un incarico,  viene?

Nicola, ricordo la sua faccia butterata, fu l’ultimo ad avere il vaiuolo, mentre la mamma, già ammalata, lo allattava. Ragazzo, uomo sfortunato, ma testardo, ricordo le sue grida  quando studiava. Batteva il pugno sul tavolo, allo stesso punto come avesse afferrato qualcosa che non sarebbe più scappata via, e gridava vittoriosamente le date di storia, i versi latini  e greci. L’estate voleva guadagnare, ricordo le sue proteste  alle autorità perché lo mandassero a controllare le trebbie delle aziende al tempo del raccolto. Bicicletta e cappello di  paglia, si mangiava trenta chilometri di strada al giorno, a fine campagna era contento per il guadagno e perché le piaghe  del vaiuolo s’erano ristrette al sole. Nicola, questo toro, rientrato dalla prigionia, si mise a viaggiare, non c’era altro mestiere per lui o vocazione, bisognava vendere e comprare. Ha  smesso da un paio d’anni, per riprendere gli studi e tornare  tra i banchi, nelle camere di pensione, con i libri annotati, a gridare, a battere i pugni, a tenere con i capelli la materia  fino al giorno degli esami.

L’inferno che ha fatto la strada per Portici con i suoi  fossi, con le famiglie cacciate fuori dalle case a ingrossare  il più vociante proletariato, mi preparava a rivedere Nicola.  Per i Granili c’era folla a scavare nel letto d’un palazzo distrutto, cercava ferro vecchio da vendere, non si sarebbe detto, pareva la stessa folla di un cimitero la festa dei morti,  indaffarata e china. E una tra le casette, cavate nei muri ancora in piedi, pareva una mascalcia, invece c’era scritto sopra  «Barbiere».

Si vede un po’ di mare lordo sotto le gru, tra gli ultimi varchi del porto. Ma poi non c’è più niente da vedere, si cammina tra due pilastri uguali di case che non finiscono più. Non finiscono a Croce del Lagno, dove comincia Portici, e  comincia perché così è scritto.

L’autobus si è arrestato bruscamente in un atrio che non è una piazza, o era la piazza d’armi del palazzo reale di Portici,  Il cielo si chiude sopra come un coperchio: dove sta Nicola?

Devo passare la seconda buca aperta al palazzo e ritrovare la corrente del Corso, agitata già dal passaggio dell’autobus.  Qui Portici finisce e comincia Resina, lo dice la scritta sul palo, alla curva d’un marciapiedi, tra una casa e l’altra. Secondo le informazioni, per trovare la stanza di Nicola, devo passare al marciapiedi opposto.

La stanza del mio amico aveva su un angolo della volta dipinto un ventaglio dal margine sovraccaricato di fiori, e volanti, perse in due punti, erano due farfalle.

– Cosa guardi? Sono qua. – E’ stata la voce di Nicola. Stupidito ancora della strada e poi delle scale, solo quanti gatti tra i piedi, credendo di entrare in un salottino di attesa, non ho cercato il volto di Nicola. Ancora non lo scorgevo, con tutta la sua voce, perché, abbassato lo sguardo dalla volta,  mi sono visto in uno specchio, alto forse quattro metri, e  opposto c’era un altro, della stessa enorme grandezza, dunque ero in mezzo alla galleria infinita di specchi. Sotto, un lungo divano coperto da un lenzuolo; più in qua, in mezzo, che lo  toccavo con le ginocchia, il letto di Nicola, che ha riso salutandomi:

– Sono un principe malato.

Poi ha detto ancora:

– Devi fingerti mio parente e dirmi che mia madre è  ammalata e mi vuole. Non lo crederesti, sono in trappola, devo uscirne. La padrona di casa è gelosa anche dei miei amici. Non esco senza il permesso, che mi dà soltanto se viene  l’altro suo amante resinese. Che faccio? cerchi i miei libri? Sono allineati in quel canterano, chiusi a chiave. Il primo  mese che non pagai, mi procurò il lavoro. Dunque starei bene:  la donna e il lavoro, a due passi dall’Università. Come sta  mia madre? Le ho mandato a dire che ho fatto un esame,  ho preso 23. Ti meravigli del numero, è un voto assurdo,  ma si usa. Poverina lei, mia madre, chi può aiutarla? Le mando dei soldi, che ho. Lei mi scrive: «E quando ti laurei che  possiamo stare insieme? Io ti faccio la cucina e tutto e poi  ti sposi e spendi meno e sei meno solo». Se adesso vuoi sapere che faccio: dietro questo casone dove abito si chiama Cuparella …

Nel mentre, è venuto l’amante resinese, Nicola si è vestito  in fretta e siamo usciti. La donna, padrona di casa, è sgusciata alla porta, l’abbiamo sentita per le scale:

– Tornate con buoni affari!

– Sarebbe il fratello della mia fidanzata – casi Nicola mi ha presentato all’uomo. E poi, volto a me:

– Di qua è la Cuparella.

Anche il nostro paese potrebbe chiamar casi il suo rione  saraceno. Il mare è giù, sotto le case, ma qui pare che sia  lontano mille miglia.

Ho visto il rione saraceno del mio paese, i sassi di Matera, il «ghiascio» di Gravina in Puglia. Si passa ovunque per un  arco, dentro l’arco c’è un orinatoio, e l’aria di questo circola  per le stradette.

– Vendono a leccate la ricotta, vedi, nelle foglie dei cavoli.

Quelli lavano stracci, li sciorinano sulle funi, da porta  a porta.

Quello che vuole? E’ l’esattore della luce.

I bambini e le donne stanno dietro una vetrina, raccolti intorno al Ietto. Il letto allaga la casa. – E lì?

Siamo dall’aria dell’orinatoio, dal silenzio delle donne, dei bambini, usciti al baccano, d’un tratto. Friggitoria all’angolo, sotto una tenda: una fanciulla spezza un mazzo di spaghetti, la mamma rotola col mestolo una caldaia di reggimento.

– E’ la salita di Pugliano, la mia università!

«Le vesti a una lira pigliate!» gridano. Montagne di vesti  sfatte, sottovesti rattrappite, calzoni, giubbe, cappotti:

– Ci vorrebbe un lavatoio e delle donne, – ho detto  a Nicola.

Ma le nostre parole non corrispondevano più in quel baccano. Borse da donna, pellicce, vere, lunghe pellicce ordinate  per terra, intiere con le maniche in croce. Sulle montagne  di roba la gente in gruppi; in sù, in giù una fiera di colori  e gli uomini e le donne, formiche, che vanno da una montagna  all’altra, toccano, prendono uno, dieci pezzi e li rilasciano  e passano altrove. Le donne scelgono i loro corredi nell’abbondanza. Altrove: fette di baccalà, residui, ferramenta, ruote gommate delle carrozzelle per bambini. E per tutta la salita il grido fermo dei venditori: – Scartate! Scartate!

Nicola è entrato in un crocchio, quando un carrettino  è salito con due balle di merce nuova. L’ho aspettato un’ora  o due. Ho chiesto che facevano nella casa dove poi tutto il crocchio è andato, mi hanno risposto:

– Conciano la merce con la naftalina.

– Non hanno altro mestiere questi venditori?

– Erano operai una volta.

Che po’t’evo chiedere più a quelli e anche a Nicola? Stanco, ho preso il tram che si vedevano le scintille violazzurre  del filo. La stessa suonata a distesa della strada è entrata  nella mia camera d’albergo.

 

(Portici, 8-16 febbraio 1951 

 


 

LA  CAPERA

 

Francesca, mia madre, poteva essere la terza o la quarta del suo giro: la capera veniva in casa i giorni pari e la domenica. Mia madre si sedeva, d’estate davanti la finestra, d’inverno davanti al focolare, e mia sorella scopava la casa prima  di sedersi anche lei.

La capera aveva qualche centinaio di abbonamenti, o si prendeva soldi o grano; oggi che può prendere? non più di due,  trecento lire per ogni cliente. Ma non è ben sicuro: i barbieri, considerate le spese che hanno, guadagnano forse di meno.  Ad ogni modo ho voluto scrivere a mia madre pregandola di mandarmi a dire tutto quello che sa intorno alle capere, che pettinano lei e le altre donne in paese. Precisamente quante ce n’erano ai suoi tempi, per intenderci, venti, trent’anni fa. Come fossero arrivate a quel mestiere, se per guadagnare o se abbandonate dai mariti emigrati. Ne conoscevo una che non sapeva più notizie del marito in Argentina. Quanto prendevano, in grano o soldi, prima e quanto ora? Quante clienti aveva ognuna? Quanto tempo durava la pettinatura?

Scarnano i pidocchi, li schiacciano e chissà perché io le  ricordo tutte con l’acquolina in bocca mentre serrano le unghie dei pollici, mettono l’aceto nei capelli, ne fanno le treccie, e infine il «tuppo»; poi, come i medici, vanno a lavarsi  le mani.

Mia madre mi risponde che è tutto vero ciò che le chiedo:  poverette, campano ancora sulle vecchie, benché le ragazze  con i capelli corti non hanno in paese il parrucchiere, che  ogni tanto, da cinque sei anni a questa parte, viene con i suoi ferri, fa un mese di lavoro e chissà quando ritorna.  Avevo sperato che mi dicesse di quella col marito in Argentina,  ma, senza ingannarmi e senza nemmeno spiegare i particolari nella lettera, mia madre ha fatto l’indifferente e la sociologa, come si vedrà, e basta. Allora, senza il suo pregevole· aiuto,  cerco io di ricordare anche questo.

Francesca, lei era fresca sposata, i suoi capelli erano fini e però legati l’uno all’altro che a toccarle il tuppo sulla nuca  e il rigonfio ciuffo della fronte diceva la capera che sembrava  prendere la cera in mano. E non è che se ne veniva uno almeno al pettine. Bisognava tirarlo apposta e qualche volta la capera lo fece per il gusto di vederlo luccicare: o al sole della finestra  o alla fiamma del focolare luccicava lo stesso. Il colore era  contrastante, chi diceva quello delle barbe del granturco, e  appunto non un filo uguale all’altro, e chi parlava del miele  colato. Un uomo con la cassetta, che entrò in casa mentre lei era seduta a pettinarsi e chiese oro vecchio da vendere e mia madre rispose che non ne aveva, disse che prendeva i suoi capelli e li pesava a grammi. Mio padre corse dalla  bottega e lo sbattette, lui e la cassetta, per terra, gli anelli  andarono in bocca alle galline e poi il maresciallo dei carabinieri li voleva da mio padre. Allora mio padre era geloso,  mai sia per chi ci capitava per una semplice parola. Tanto  è vero che fece gli occhi cattivi financo al marito della cugina, che era, in fin dei conti, suo nipote. Il quale, poveretto, accorgendosi di quegli occhi e non potendo sfogarsi dalla rabbia, si morsicò la polpa dell’indice e la sputò per terra. Aveva  detto «Zia Francesca, attenta, ti cade la pettinessa» e allungata la mano sul tuppo.

Il grande ritratto a colori fa vedere mia madre di quei  tempi, fresca sposata. Poi vennero i primi figli e il vaiuolo  nel ’20 e lo prese, e nel ’23 nascemmo vivi io e altri trecentotrenta bambini in tutto il paese.          .

Mia sorella più grande mi ergeva sulle punte delle sue dita e mi baciava tra le gambette facendo «pisci, pisci», e  una memorabile sera di Natale le orinai sugli occhi.

Ma lasciamo andare di me che c’entro per quel che vidi a tre, a quattro anni: mio padre lanciare i piatti per aria, fumanti com’erano, le forchette, la schianada di pane, solo il vino, l’orciuolo non toccò; mia madre era la porta chiusa della stanza, era tutta la stanza buia che parlava: aveva chiuso bene dietro, per difendersi, e ora gridava come un capretto  «Puttaniere, ubriacone, malavita», a mio padre. Io ero seduto accanto a lui e gli vedevo la faccia larga agitarsi come  acqua nel bacile e vino schiumoso.

Andò alla porta, l’abbatté col ginocchio e con la mano aperta, mise il ginocchio sul ventre di mia madre:  – Ti affogo – disse.

Arrivavano i vicini di casa in folla:

– Che succede? Calmatevi. Quando mai, proprio voi. Dall’ultimo gradino mio padre disse:

– Non è niente, favorite.

Entrarono i contadini, le vecchie e le giovani, mio padre  offriva da bere; quelli, per prendere il bicchiere, scartavano  i piatti rotti:

– Capita sempre — disse uno – beviamo, alla salute.

Le donne s’insinuarono nella stanza, mia madre era in un angolo e non la videro:

– E’ andata dalla zia – veniva avanti a dire mia sorella.

Se ne andarono tutti, non si può dire contenti o scontenti,  lanciando a mio padre timorosi sguardi e saluti. Fui portato a letto, ma mi svegliai. Non so quanto poté durare, ma veniva  da quell’angolo dove la vidi, come una veste appesa, mia madre: si sbatteva il capo alla parete e si strappava i capelli.

La mattina appresso, dovevo lavarmi, dovevo fare i bisogni, nessuno veniva a prenderrni dal letto, né mia sorella, né mia madre. Passò il tempo della pulizia, sentii la polvere in gola e il rumore delle sedie e del tavolo pesante.

Viene o non viene la capera?

Venne e sentii chiedere: «Francesca» a mia sorella che rispose:

– Oggi non se la fa, la testa.

– Come, è occupata? E’ in campagna? Sta ammalata?

– Nemmeno io me la faccio più con voi, non venite più qui – riprese mia sorella, che sentii parlare a lungo sottovoce.

Allora vidi mia madre levarsi tra il suo letto grande e la parete, spettinata, come la sera prima; aveva dormito per terra, ma i suoi occhi erano buoni e mi guardavano e si capiva che stava ascoltando attentamente il discorso di mia sorella  alla capera.

Infatti mia sorella entrò e disse:

– E’ una buona donna però, l’ho pagata. Se l’è avuta male, un altro poco piangeva.

– Quella puttana! – disse mia madre e quindi venne  a prendermi, mi fece fare i bisogni, mi lavò, mi mise sulla  sedia accanto al fuoco, aveva i capelli sciolti. Ora tutti in silenzio, io stavo a guardare le fiamme, mia sorella a tirare il pettine della fronte di mia madre oltre la spalliera e si piegava per terra. La capera invece allungava i capelli in aria.  Mio padre incerava lo spago con lo stesso gesto.

Quella capera non venne più, ne venne un’altra. Quando si nominava la prima, c’era la stessa scena della sera dei piatti.

Ma mia madre ha dimenticato o ha finto. Ecco quel che  pensa delle capere e ciò che me ne ha scritto:

«Riguardo vuoi sapere per le capere nei tempi di 30 anni  fa e più, tutt’e le donne si facevano pettinare perché portavano il tuppo con le treccie e non se le potevano fare da sole, e  c’erano più di 50 capere, ognuna teneva chi 40, chi 50 chi 30 clienti, cioè persone: se in una casa c’erano due o tre persone che si facevano pettinare, ogni persona in un anno dava o grano o denari. Se. una se la faceva ogni giorno, dava un mezzetto di grano, sono quattro stoppelli, l’anno. Se poi se la facevano due volte la settimana, davano un quarto, cioè  due stoppelli, se la facevano un giorno sì un giorno no, davano tre stoppelli e lo davano colmo che era il peso giusto: ogni stoppello era sei chili di grano. Così, pure adesso pagano lo  stesso, vuoI dire che ora va più caro il grano, ma sono più poche che ora si pettinano, diverse fanno da sole. Adesso,  devono essere troppe, una ventina di capere. Poi quelle che  pagano a moneta, secondo come va il grano, danno mille lire quelle che danno due stoppelli di grano. Poi si dà il regalo a Natale e a Pasqua, prima davano una lira, ma L. 20, 30  e pure 50. Per fare la testa adesso stanno poco: secondo le treccie, stanno cinque minuti. Prima stavano di più, c’erano  pidocchi e poi ogni tanto le facevano con l’aceto e olio tiravano i lenni che facevano lìinsetto. Ora no, che si anno messo il diddittì, non si vedono più pidocchi. Vuoi sapere per quale  motivo facevano le capere. Ripeto, primo non se la sapevano  pettinare e ognuna cercava farsela fare, e quelle che avevano  più bisogno facevano questo mestiere, certe lasciavano vedove con i figli e pensavano a guadagnare, certe erano abbandonate dai mariti, andavano in America, non le scrivevano più, certe non potevano arrivare con i lavori del marito e si davano  da fare le mogli, e certe la facevano pure per guadagnare,  quel grano che avevano lo davano a mutuo per fare negozio, e qualcuno si faceva anche la proprietà. Prima però, ma adesso sono poche a farsi pettinare. Non altro saluti».

(Gennaio 1952)

 

 

 

SALVATORE

 

Salvatore teneva i peli sotto le ascelle dove si sente il solletico, li ebbe prima di tutti noi, e la spiegazione più semplice fu che lui era spesso bastonato dalla mamma con il nervo di bue e che, dopo la scuola, andava sulla rotabile a spingere la carriola per aiuto al padre cantoniere, e quindi era più forte, e più duro era il muscolo al braccio destro che irrigidiva per prova davanti a noi.

Sotto la torre, un giorno mi disse che non voleva tornare a casa, a costo del nervo di bue; perché voleva farmi vedere una cosa.

– Guarda – mi disse – io tengo una guagliona abbasso alla Saracena, che tiene già le menne, andiamola a trovare.

Camminammo per la piazza e scendemmo alla Saracena.

– Si chiama Lucia, sta sulla scala fino a tardi. Capita che esce a prendere il lievito o qualche servizio da una vicina, e io la voglio portare in un portone, perché la devo toccare. Ecco, non ti far vedere che guardi, non ti voltare adesso, qui è la casa.

Gli altri ragazzi giocavano a mazza in fossa e ci videro.

Eravamo stranieri, io e Salvatore, nella Saracena, perciò ci chiamarono dietro «Michelasciutti, imprenaove» che erano i nomignoli in voga e noi ci stemmo zitti e quelli aspettavano che ci voltassimo.

Intanto per guardare alla finestra di Lucia, dovemmo tornare indietro, facendo finta di niente, e poi di nuovo avanti e indietro. Lucia si vide come un lampo al vetro della finestra, Salvatore mi stava trascinando prendendomi il braccio perché corressero subito i miei occhi, che corsero, ma alla finestra c’era il fumo del focolare e quando ripassammo si vedeva già luccicare la fiamma perché faceva notte nella casa di Lucia più presto che nella strada, dove i caporioni ora ci venivano incontro a urtarci col gomito, prendendo la rincorsa, mentre gli altri ci ridevano, seduti per terra.

Dissi a Salvatore:

– Andiamocene, che qui succede la guerra. Ma lui rispose: – Non te ne incaricare.

Mentre diceva così, un saracenaro mi fece cadere la coppola con un colpo da dietro e io per riprenderla e Salvatore per guardare alla scala e alla finestra di Lucia, voltandosi, non vedemmo 1’autore che si era nascosto.

– Alle mamme vostre! – fece Salvatore a quelli che ridevano per terra.

– Alle vostre – ci risposero da dietro.

– Alla tua – e Salvatore si lanciò sul primo che si trovò alle spaIle, e tutt’e due rotolarono per terra.

lo ci pensai un poco e, visti accorrere gli altri alla lotta intorno a Salvatore, mi avvicinai a un bambino che era più piccolo di me e che gridava di piacere tenendosi un piede in mano:

– A quella  zoccolona di tua madre!

Gli tirai un calcio sulle mani ,e poi gli andai sopra, ma perché spinto da palme e pugni sul dorso, dando una capata alla porta che si apri. Fui pestato, Oramai non mi difendevo, cercavo un buco in terra per respirare.

– L’affogate, – disse una voce di donna – fatela finita.

Fu lei che mi toccò, la padrona di casa, e io nel rimettermi in ginocchio le alzavo la veste col capo, sicché mi sentii un altra sua botta sul collo:

– Eh, eh! Che sei una gallina? Alzati.

Vidi le scarpe sue e le calze e le mutande bianche, lunghe come i pantaloni degli uomini e, con tutta l’aria che ora avevo per respirare, mi sentivo morto e volevo stare un altro poco disteso con la bocca a terra, la gonna mi girava attorno e la voce diceva:

– A chi sei figlio? Dove stai di casa?

Dovette piegarsi su me e io voltai da dove la gonna si aprì per rivedere le due gambe di mutande, che rassomigliavano a quelle delle bambole.

Salvatore veniva alla porta proprio mentre la donna mi alzava per vedermi negli occhi, che aprii e così vidi lui e la faccia della vecchia che mi teneva e i suoi grossi orecchini penzolanti. Salvatore teneva sulla spalla la mano di un uomo che disse:

– Ora andatevene, non vi fanno più niente, dritti alle case vostre.

Arrivammo sotto la chiesa, dalla cima della strada scendevano i muli carichi e i contadini. La prima parola che mi disse Salvatore fu questa:

– Vedi quello che porta la zappa al collo? E’ il padre di Lucia. Ora quella esce per scaricare la legna dal mulo, va alla stalla che si trova più in là della casa. Tu come ti senti? Noi giriamo da sopra e, vico dentro vico, arriviamo a un punto dove possiamo vederla; quei fetenti giocano nella strada di sotto, andiamo.

E andammo.

Lui sapeva bene i posti. Non c’era luce nella strettoia ripida, che aveva due tre porte, nessuna illuminata, una nera di fumo incrostato, che la toccai per sostenermi, doveva essere un vecchio forno, ora abitato, perché si sentivano voci di gente. In fondo, sulla strada, c’era una pezza della luce pubblica più lontana: potevamo così vedere chi passava e correre qualcuno dei saracenari, che certamente, se giocavano a briganti e carabinieri, venivano anch’essi neI nostro nascondiglio.

L’ultima porta verso la strada era la stalla del padre di Lucia, che avremmo vista a quella luce.

– Zitto, zitto – disse Salvatore.

Stavamo al disotto del piano della strettoia, addossati alla porta di una cantina. Mi sentii sicuro toccando il catenaccio della porta: mi tolsi la cinghia e cominciai a manovrare con l’ardiglione nella tacca del  catenaccio. Non sapevo fare a botte, ma ero specialista dei lucchetti e serrature, Salvatore un altro poco cadeva riverso in cantina, perché il battente dalla parte sua si aprì sotto le mie mani.

– Adesso ci vorrebbe che ci portano a San Francesco, in galera, se ci scoprono, – disse.

Scoppiò, mentre si dava un’occhiata in giro alla cantina, il rumore del mulo abbasso alla strettoia e Salvatore corse ad affacciarsi:

– Non c’è, non c’è, che facciamo?

– Niente – gli risposi – ce ne dobbiamo andare.

Ma lui dovette, sconsolato, appoggiarsi alla parete: – Che umido, senti.

Passò un poco e riprese:

– Tu aspettami qua, io scendo alla strada e mi faccio un giro; se la trovo, la porto qua, che è un posto che mi fa.

Lui uscì, io socchiusi il battente. Veniva un bell’odore di vino e di mele appese e di cotogne, c’erano sarmenti per terra che si sentivano sotto i piedi, ma, dopo un poco che rimasi fermo per non fare rumori, i sarmenti e certi legni in fondo alla cantina c’era qualcuno a smuoverli e i rumori, prima dolci come parole, si fecero più forti e non erano solo per oggetti toccati, anche qualche bottiglia squillò; ci furono cinguettii che non erano fischi all’orecchio, erano i topi che riprendevano i loro giuochi e le macerie, e sarebbero arrivati in collo a me. Mi difendevo pestando i sarmenti per farli tacere. A un tratto non bastavano più i sarmenti, che i topi potevano anche credere mossi da uno di loro e forse per questo sarebbero venuti a cercarmi. Allora detti un calcio alla parete, rumore non ce ne fu, per quanto mi dolse la punta del piede. Correvo alla porta quando una luce filtrò dall’alto. Feci in tempo a uscire e chiudere la porta, serrai anche piano iJ catenaccio agli occhielli.

La luce scendeva per una scaletta di legno in tutta la cantina, io potevo vedere la scena dal cancelletto di ferro sopra la porta, e vidi due piedi e una sottana: una ragazza reggeva in mano la lucerna, nell’altra un orciuolo. Era una bambina della mia altezza, aveva il petto come Lucia, che metà risaltava, metà faceva ombra.

Mi voltai ai passi che venivano dalla strettoia, era Salvatore che correva e mi tirò e non volle vedere, perché disse:

– Sono seguitato, scappiamo.

Affannosamente rifacemmo i vichi, Salvatore avanti e io dietro. Quando ci fu il piano della rotabile, dopo la chiesa, ed eravamo sicuri, ci pareva di correre come le due motociclette della milizia stradale. Ora si poteva rifiatare, Salvatore volle parlare prima lui:

_ Il padre di Lucia era sceso a sedere sulla scala e fumava il sigaro. I saracenari mi hanno visto e hanno rifatto lo stuolo. Allora mi è venuto in mente di parlare al padre di Lucia, potevo dire dove sta Tizio o Caio e invece gli ho domandato un fiammifero e lui ha detto sì e mi ha tirato un calcio. Me ne sono scappato. Lucia starà facendo i maccheroni.

Era un’ora di notte:

_ Andiamocene a casa – gli dissi – e dimmi come è fatta, a chi rassomiglia.

_ Non me lo domandare, mi viene il tremito. Facciamo così, andiamo sotto la torre e parliamo e di là scendiamo a casa.

Così facemmo. Salvatore mi prese sottobraccio, disse che Lucia era dell’altezza mia:

_ Porta già il corpetto come le mamme nostre.

E io pensai e gli dissi che l’avevo vista, ma lui scartò che Lucia fosse scesa a prendere il vino in cantina, continuando a dire:

– Se la vedi, se la vedi!

Lo sentivo tremare, mi affrettò il passo verso la latrina, che era una casetta con la luce di rame sulla strada della torre.

-Tu non capisci, devi aspettare un altro anno o due.

Si sedette su una pietra, era stanco e bastonato:

– Tu avviati, io adesso penso a Lucia.

(1952)

 

PACE IN FAMIGLIA

 

 

 

Come lei, mia madre, voleva liberarsi di me e forse non  le importava un momento che io nascessi o no, così io voglio  oggi che lei muoia, perché ho pena della sua esistenza e voglio  che sia finita.

Non conta soldi senza lunghi viaggi da una casa all’altra  per aver prestiti e saldare, è la sola volta che esce con lo  scialle di astrakan, lo stesso che ebbe in dote.

Non vuole vendere la casa perché spera che noi figli, dopo  la morte del padre, la sopraeleviamo; non la vigna che è fatta  vecchia e la vorrebbe vedere ripiantata.

Ha preso il grano a debito, due quintali, va al mulino  a debito, al forno, alle botteghe, ma non per lei, che campa  con la cipolla e il torso meno cotto di pane e i pezzi duri  che restano nella madia.

Serafina ha passato guai di malattie nella sua casa di città, mentre il marito, sottufficiale dell’esercito, era a fare il  mese di campo; voleva centomila lire e lei è accorsa a trovare  la somma e a mettere le firme alle cambiali, sempre appoggiando sulla vigna.

Nicola si è ‘trovate con i conti sbagliati all’ufficio. Fifoso  com’è, ha riparato e trema ancora e tiene il diabete e spende  le settemila lire d’insulina e ha moglie e tre figli.

Antonietta prende la pensione di vedova, 12.000 lire al  mese, e abita con i due figli insieme a lei nella camera di  sotto.

lo non mi sono laureato, non ho fatto i concorsi, nemmeno quello di cancelliere, e tengo un grosso debito da levare  per conto mio e per il cesso che ho fatto fare nella scala perché  dovevano venire certi amici da Roma.

Nessuna l’aiuterà, nella casa riescono i topi e i tegami  si fanno neri fuori e dentro.

Ha la nefrite che le gonfia mani e piedi. Ha male al cuore,  saldo e rugginoso come il ferro da stiro.

Ed io che avrei capito certe cose della vita, so solo dire  che lei deve morire. Voglio la notizia, il telegramma – non  ditemi male – quando gli amici mi invitano a un momento  di quiete della barca sul mare e dirò loro: seguitate, non è  niente, dirò o almeno sento che potrei dire.

Fosse una volta che non le trema la voce e non tiri il  fazzoletto azzurro e nero dalla tasca del grembiule per sparecchiarsi gli occhi. E poi riprende a dire:

– Chi lo sapeva che  pure la vecchiaia mi portava tanti dolori dei figli.

Fammi un caffè, dico io, e smettila.

_ Non puoi mai ragionare con questo – dice ad Antonio, il mio amico che la guarda.

 Ci guarda bere il caffè, ritornata felice: – C’è un po’  di posa, bè, che volete? – Dopo io me ne esco, lasciandola al fuoco.

 

Passano tre giorni delle mie vacanze e lei non riesce ancora a parlarmi, perché a mezzogiorno, lei, Antonietta e i figli,  o hanno già mangiato o mangeranno dopo, stanno zitti attorno  alla tavola e mi mettono i piatti uno dopo l’altro. La sera  porto gli amici a bere, giochiamo alla morra, parliamo della  politica sbagliata e di quella da fare, prendo io la parola,  e dico innanzi tutto a mia madre di andarsene a letto, se  tutto è pronto: il vino, il pane, ,il formaggio e le uova e i  peperoni. Lei dice buonasera a tutti e, imboccata la porta,  trova il suo letto e di là mi sta a sentire.

Mi sono ritirato certe volte alle tre di notte e all’alba,  ella era sveglia, a qualunque ora per dirmi; – Eh, che cosa!  – con amarezza.

Viene a trovarmi, anche questa mattina, alle undici, finge di prendere nella mia stanza le mollette per spandere i panni,  ma non osa aprire il balcone, poi dice, girando nel buio:  _ Da tre ore c’è l’assessore che ti aspetta. E sono venuti  tanti altri. Che dico? Di aspettare?

Le rispondo che mi pare la morte in persona e che mi  lasci dormire, con l’assessore mi vedo più tardi. Scendo e le chiedo se è venuto qualcun altro, bestemmio perché non ha fatto salire una donna che mi interessava. .

Mangiamo tutti, è domenica. La carne come la voglio,  fritta o arrosto? E’ incarita, ne ha comprato un quarto solo  per me.

Mangiatela anche voi, ecco.

– La carne, noi? – fa lei e Antonietta aggiunge: – Non  ne voglio. Solo la carne ci manca!

– Ci sono tutti questi maccheroni! – Dice Rosa, la signorina mia nipote. Avanzeranno per stasera.

– Tu ne butti sempre di più, sei di mano larga.

– Non si pèrdono. – Si dicono madre e figlia.

– Senti, Roccù, ti dico una cosa, non t’inquietare. – Mi dice Antonietta.

– Avanti, avanti che c’è?

– C’è un signore che vuole a Rosa.

– Sempre le stesse chiacchiere, non ne voglio sapere, ci sono stati tre o quattro che la volevano. Che fretta avete?  Pensate alle cose essenziali. C’è la polvere sui libri …

– Madonna, facciamo pulizia ogni giorno!

– Basta, basta, zitti.

Mi alzo e me ne vado nella camera di sopra ad aspettare  la donna che mi interessa e che tra poco è qui.

Le ho ritrovate al fuoco, mia madre, Antonietta e Rosa  che si sono voltate alla buonasera della donna, che se ne va.  Splende alla parete la rame, padelle e tegami e coperchi che  non si usano mai, si tengono per vista dal primo giorno di  matrimonio, è la dote della donna, da 10 a 20 a 30 pezzi.

La rame di casa mia è mischiata tra quella di mia madre  e quella di Antonietta. Cerco largo, per sedermi, Rosa si alza,  si alza mia madre, io mi occupo tutto il focolare allargando.  le gambe e loro si danno indietro, solo mia madre ogni tanto  spinge il palettino per governare la legna che bruciando cade  fino ai miei piedi.

Vedo un telegramma sulla fornacetta, è già aperto. Si  dice che da un paese vicino domani arrivano i genitori del  giovane che vuole Rosa. Ma che m’importa? Dico. Io parto  domani, voglio che nessuno dorma nel mio letto, ci siamo  intesi? Guardo Antonietta che è il ritratto del padre, ha una  faccia grossa, non è sentimentale, non si ribella solo a me, ma sarebbe capace di uccidere chiunque altro. lo dovrei rispettarla, perché è la prima sorella, è nata nel 1908, ha una  figlia da sposare, e poi è vedova.

Pare ed è più piccola della figlia, bianca e rossa in volto, con le mani conserte. Sono rari i tempi in cui la prendo a ballare la tarantella al mio fischio, e lei si accalda e gira come  un fuso. Solo quando ho bevuto le dico che si può risposare:  _ Si, _ mi risponde. – Portami un americano o un grande  scrittore coi milioni, io le faccio la serva. Ma se no, perché  non mi fai trovare un posto in un casello ferroviario o alla  Maternità? Scrivimi una lettera a quel cornutone di… – Nomina sempre un uomo politico diverso, a seconda che sa chi  si è interessato a Roma per questo o per quello.

_ Hai capito tu, le dico, nessuno. Trovati una casa e lì fai entrare stranieri e cittadini che vogliono tua figlia.

_ E si, va bene, come dici tu.

_ Portali dai tuoi suoceri, tocca a loro. Ma si può sapere quando te ne vai?

Antonietta si alza, va a prendere un’altra legna. Rosa si accomoda la veste, abbassa gli occhi, viene la legna, mia madre  s’inginocchia ai miei piedi e soffia a lungo sul fuoco.

Antonietta si siede. – Quando te ne vai? -le ripeto; lei  ride con le mani conserte. Io prendo il telegramma e lo getto  nel fuoco. Si guardano tutte e tre, Antonietta mi ride ancora e  quando mia madre dice: – nemmeno sorte di fratelli! – le  tremano le labbra e piange, guardandosi con gli stessi occhi  buoni di prima e il petto le sobbalza sulle braccia come prima  quando rideva. La mia sedia cade per la rabbia che mi viene, e me ne esco.

 

Incontro per le scale Pancrazio Schiavone, il vecchio:  _ Beato chi ti trova, ti debbo parlare. – Mi bacia con i suoi baffi di vetro. – Se hai da fare, torno più tardi.

Me lo porto sopra nella mia stanza, da dove raschio col  tacco perché accorra mia madre a portarci un bicchiere. –  lo devo vedere che combinare – comincia Pancrazio, dopo il sorso, – con questo figlio, che mi ha portato l’odio in casa. Dammi un consiglio: posso cacciarlo lui con tutta sua moglie  dalla casa? La casa è in petto a me, non ci ha che fare la  buonanima.

– Perché, è così buono tuo figlio!

– Si, come il pane al forno, – dice Pancrazio con una risatina, Questo vecchio assomiglia a mia madre, penso io  subito. E’ bello, ha la faccia rubiconda e luminosa, di un  porcellino lavato, senza la barba fatta. Da come lo ricordo  a com’è non gli manca nulla, è rimasto curvo come ‘sopra  le viti alla vigna, quando ce la faceva lui. Se ne è visto bene,  ce lo diciamo con gli occhi, nella sua vita con le donne, in  America e qua. E’ peloso ancora di setole grigie e castane  e bianche. Ha una salute di porco. Gli occhi, che gli devo  vedere sotto le sopracciglia cascanti, sono a farlo rassomiglia-  re a mia madre, li tiene sciolti, con la cornea ‘e il bianco  sbattuti.

– Tuo figlio, gli dico, lavora continuamente. Non si  vede mai in giro. Perché vuoi cacciarlo di casa? E tu come  resti solo? A fare i vermi?

– Sono contento che mi vendo tutto. Ho 76 ,anni, mi  sento di lavorare e lavoro e ancora zompo. Te’. – Leva una  gamba. Poi mi getta le due mani in faccia, tenendomela. _ Hai  visto? Non è questo e nemmeno i soldi. E’ lo scoraggiamento.  Posso cacciarli?

– Sì puoi cacciarli.

Ma io voglio sapere meglio le cose. – Ci sono tante cose  da che si è sposato. Quella scrofa della moglie e lui pure quante me ne hanno fatte. Appunto stamattina, lui doveva andare  in campagna, ora cantina e stalla hanno un’entrata sola, gli  ho detto: Carichi le bestie di un po’ di letame, che può guastare un  capitale di vino, e lo porti alle vigne. Eh, lo hai sentito  tu? Da un orecchio gli entra, da un altro gli esce, a schiattare.

– Tiene le terre sue e quelle in affitto, ma io mi lavoro  le mie. L’altro anno suggellai il mio granaio, ma il grano lo  vendette lui, e lui mi mise i soldi in tasca. Che ci fu quella  volta! E passa. Comprai una ciucciarella. Lui un giorno se  la prende « La porto al mercato, vado a comprare un maiale». Io non andai al mercato che non avevo niente da vendere  né da comprare. Se ne venne che l’aveva venduta. Quanto  l’hai venduta? « 14.000 lire ». Gli avevo dato dal mio portafogli settemila lire per fargli comprare il porco, che costava  17.000. Mi aveva detto «Tata, dammi settemila lire non mi  arrivano i soldi e devo cambiare il vaglia del Consorzio ».  Va per consegnarmi i soldi della ciucciarella e mi dà 14.000  lire, senza ricordarsi delle altre settemila prestate. Allora se  le teneva per busca sulla ciuccia? Allora tanto valeva chiamare  lo zingaro per sensale. E passa.

– Mi hanno discacciato tutti gli altri figli dalla casa che  adesso non si fanno vedere per non arrischiarsi in una lite: Maria, come se non fosse figlia a me, i figli suoi come se  non fossero miei nipoti, e Tatonno viene ogni tanto a vedermi,  lui è il più grande, e, per non dare occasione, viene scappando  ogni due tre sere.

– E’ la moglie, quella scrofa, la causa. Quanto ci vuole  ad accompagnare una morticina? Si è ritirata dopo mezzogiorno, per fare ceci e fagioli con le altre femmine. E io a  tenerle i bambini in braccio.

– Sono andato per aver ragione per il ritardo, ho avuto  torto. Si è messa a esclamare. Da chiacchiera in chiacchiera,  è arrivata la madre per avvocato, che si trovava passando,  che combinazione, e siamo usciti di palo in frasca. Sono sdegnato. Ti deve mettere un punto d’ago in collo? Sempre all’ultimo momento. Poi dice che la vado censurando. Mi fa  male il letto. Ho due materassi, sono di lana; se non li tocca  e li sbatte, finisce che si dorme a tavolaccio.

Lo interrompo: perché non la richiamava volta per volta? Suo marito non la unge mai a dovere?

– Non manca che prende bastonate. Ma le scappasse  una lacrima? Macché!

Voglio mettere ordine e capire le cose, gli chiedo a caso:  – Lava? Ti lava la biancheria? Ti fa andare pulito?

-. Di lavare, lava, ma l’acqua la pago io, duemila e dispari lire il ’51.

E allora che succede? Sono cose da niente. Ci penso e  poi gli dico: – Vai facendo vecchio.

– Ti pare? – Scotola il capo cinque o sei volte. – Ti  pare? – E penso che vorrebbe dirmi che neanch’io posso  capirlo: – Quando entra l’odio in casa, non si può fare più  bene.

Ora gli occhi di Pancrazio sono più sciolti di quelli di  mia madre e la sua voce acida si fa tremolante: – Quella,  che non so come mio figlio andò a cercarsi, si fa consigliare  dagli altri. E’ stata capace di dire … Gli altri l’hanno consigliata: Per farlo star zitto, dì che ti voleva offendere. Qualche  volta io mi sono accostato al suo letto, le avessi fatto una  carezza, dal primo giorno l’ho odiata. Io sono vecchio, ma  non mi metterei, non ha il mio sangue legittimo.

– Lascia stare queste cose, – gli dico. – Tuo figlio piuttosto non prende parte né con l’una né con l’altra?

– Quello o sta zitto o s’inzolfa.

E i nipotini? Pancrazio piega il capo, vergognoso perché  ha un botto di pianto: – Mannaggia! Sono quelli che mi tagliano la strada!

Piange con piacere e continua: – Sono quattro. Una non  la posso vedere che è picciosa somiglia alla mamma. Ma i due più grandi, Pancrazio va già a scuola, fanno lite a chi  deve coricarsi con me e abbracciarmi prima. E la più piccola,  solo che mi sente alla tosse, piange ché vuol venire da me  e me la devono portare a letto, rifiuta la mamma. Sta cacciando una lingua, non ha nemmeno due anni. Certe volte le faccio  il culino rosso rosso, ma facciamo la pace immantinente con  un bacio e non c’è niente più. Con la madre e il padre, invece,  è un odio continuo. Non è come Antonio e Pancrazio, che  se le danno con santa ragione e poi non c’è niente, ritornano  tutt’uno. Loro bambini fanno così, e noi no. lo dico sì, ci  rompiamo, per esempio, la testa, si mette la gente in mezzo  e c’è la pace, e tutto è finito. Invece no. Manca la cosa più  pregiata, essenziale, la contentezza. In qualunque ricca casa,  se non c’è la contentezza?

Beviamo, alzando i bicchieri: – Il vino, per esempio,  si consuma quello mio ogni giorno da capo in coda all’anno.  Lui ha un botticino di tre barili, ah quello gli serve per quando  deve mietere!

Dopo la bevuta, non so proprio che dirgli.

_ Va bene, – gli dico, – sai che devi fare? Come fanno  in certi paesi e città che vado vedendo. Alle feste, e in certi  giorni, i compleanni, gli onomastici, tu chiama tutti i figli e i  loro figli, ti metti a capo tavola e mangiate e bevete. Guai a  chi dice una parola contro. Sai come fanno? Accendono le  candele sulle torte, le spengono col fiato e poi si baciano uno per uno.

_ Pure sarebbe buono, – dice Pancrazio. – Avevo un compagno in America, era abruzzese. Dalle parti nostre, mi  disse, stiamo tutti sotto il padre e la madre alla stessa tavola.  Poi, se il padre e la madre con l’età perdono l’idea, ci sono  il figlio e la nuora più grandi che fanno i capi di casa. Le  femmine comandano alle femmine, e il capo di casa agli uomini. Ma pure qui ci sono le case in accordo. lo tengo invidia  di Mincuccio Strazzanera, una scheggia di cristiano, lo sai.  Bè, lui ha trovato una nuora che gli fa sempre « Tata tata ».

_ Io non mi cerco la morte; quando ci penso mi viene il mal di ventre, ma certe volte …

 

Scendo al fuoco, a mia madre chiedo della nuora di Pancrazio.

_ Poveretta, lui le dà certe mazzate per niente, quella se le tiene e se ne scappa qui da noi. Sta facendo vecchio anche lui.

Mi viene una risata, le dico che ho promesso di chiamare il figlio per fargli la scuola. Quello può cacciarlo di casa.

Ora veniamo a noi: chi è che vuole Rosa e che fa e dove sta.

Antonietta dalle scale, mentre si toglie lo scialle, sente di che parliamo. E’ un capo macchinista, nativo di Tolve,  che sta a Bari. Ecco la fotografia. Di famiglia buona: Il nonno  di Rosa è d’accordo, ha stabilito una dote di trecento mila  lire. Solo che c’è la gente nemica. Antonietta dice: – siamo  sfortunati. Gli hanno scritto questa lettera anonima. – E’  un foglio di carta quadrettata: – E’ la copia che lui stesso  ha copiato qui davanti a noi. Ecco qua:

« Non vi illudete di quella miseria di dote. Non bastano neanche in viaggi di andare e venire da Bari. Un capo macchinista può prendere i milioni, non so come lo fate. Quella dote  la prende un macellaio; trecento d[ soldi più due stanze. Di  questo ne parla tutta Tricarico, primo. Secondo, fate le compera del gatto nel sacco: non sa fare niente, non sa lavare e  stirare neanche un fazzoletto, non sa scrivere nemmeno, tanto  vero che gli altri fanno la brutta copia. E’ una cretina che  ci ha appena la seconda elementare. E’ buona solo a ballare, ché la mamma la porta a tutti i festini e a tutti paesi  chissà esce qualche cieco, ché qui non la guarda nessuno.

E’ buona solo alla pittura. Dal primo giorno ci vuole la  persona di servizio. Poi è ammalata, è stata parecchie volte  a Bari, ha un tremolio al braccio, va avanti per via di cure;  se lascia un po’ le cure, ci viene quel male, piena piena di  reumatismi, ecc. Informatevi, non vi credete che sono cose  false, tutto vero. Io sono un vostro amico stretto, vi conosco  bene. Ingannare un giovane è un peccatone, infossarlo, tradirlo. Poi non vi dico la famiglia: maneschi, linguacciuti, il  nonno e lo zio carcerati, badate bene che non sono di condotta  buona, non dice proprio con la vostra famiglia. Io sono un  grande vostro amico. Non vi innamorate di quella miseria  di trecentomila lire ».

E’ una bella lettera! dico. E lui che ne pensa? Chi è l’anonimo? Antonietta mi guarda sconsolata: – Hai visto? _  Aspetta che mi infiammi a cercare l’anonimo. E poi è tutto  vero. Io sono lo zio, andato in galera, linguacciuta e manesca  sei tu. Tua figlia si pitta quando io non ci sono. Le lettere  le scrive mamma, che ha preso l’abitudine e il mestiere per  le lettere in America. La corea minor Rosa l’ha avuta. Ed  è sicuro che trecentomila lire sono una miseria, anche col  corredo a dieci e a quindici. Vediamo ancora. Il gatto nel  sacco è giustissimo. Guardala lì, quanti anni ha? Diciassette.  Non bastano la veste civile, la collana e la permanente a una  per sposarsi. Con un capo macchinista dei treni a vapore una  deve lavare notte e giorno. Io non l’ho mai vista lavare, lavate  sempre voi due. La tenete come un ritratto. Vammi a prendere  dieci nazionali semplici e due africa, giusto cento lire, dico  a te.

 

Rosa ride a un angolo della bocca, è più alta di me, stringe  le cento lire nella mano.

Antonietta e mia madre si accostano con le sedie; – Starai a tavola domani? Parti poi domani. Come devono dire  i parenti, che ho i fratelli superbi?

Non rispondo, me ne salgo in camera a pensare.

 

Vado e vengo: Eh, ho, sono i saluti con mia madre. Mi  porta la valigia alla corriera in piazza alle quattro di mattina  col caldo e col freddo. Fatelo laureare, dice ai miei compagni,  me non mi sente. Trovategli un posto buono, almeno mi manda cinquemila lire al mese. Un poco lui, un poco l’altro figlio,  posso campare. Due chili di olio, due di sale al mese, trecento  lire di forno, le tasse le paga quell’altro. E poi c’è la legna,  i fiammiferi, qualche soldo sempre ci vuole per un po’ di  erba, per non fare pasta e pane continuamente. Quando ci  sono loro si spende, quando portano i loro compagni amati.  Ma mi togliessero i debiti, io sono contenta, almeno i più  vecchi, ché non ho faccia di camminare per la strada.

Sono le sue mormorazioni, io non mi fido di sopportarle.

Mi chiamano amici, parenti, zii e cugini: un altro poco che  deve campare, mi dicono, dalle la consolazione, prenditi la  laurea.

Il signor Montesano mi vuole parlare: ho finito gli studi?

Ha una carta di mia madre, la voglio ritirare? Sono comodo  stasera? «lo qui sottoscritta Armento Francesca dichiaro di  aver ricevuto dal Signor Raffaele Montesano e sua moglie Angelina Trifone 13 somma di L. 7.000, dico settemi1a, ricevuta  a mutuo, con l’obbligo di fame la pronta restituzione il mese  di gennaio 1945. Mancando al pagamento possa il Signor  Montesano e Trifone valersene della presente a tutti gli effetti  legali. Io qui sottoscritta dichiara e mi obbliga come sopra.  Tricarico 10 luglio 1944. Armento Francesca ».

Sento gridare mio fratello Nicola, scendo a sapere i  fatti. Sta facendo la predica a Antonietta: – Qui comando  io, il vino non lo prendi per i tuoi forestieri, fattelo dare  da tuo suocero. Io pago le tasse, le fatiche le faccio fare io.

– Ma mettete le cose a posto, – dice mia madre – dividetevi la roba e fate quietanza.

Mi vedono comparire, si quietano. A Montesano mia madre dà la sedia migliore e Antonietta va a prendere il vino  per lui. Nicola, con la bella faccia rossa butterata mi strizza  l’occhio, è già fatto a vino. Si è trovato a casa del compare,  gli ha mangiato tanto salame, e ha bevuto.

 

– Sono le quattro, devi partire?

Si accende la luce nella stanza e compare mia madre con  la veste nera.

– La sveglia è suonata alle tre e mezza. Ti devo apparecchiare la roba?

Se ne scende, io dormicchio ancora, risale: – Metto qualche oliva?

– Sì, e un po’ di salame.

– Me lo dicevi ieri, non ne abbiamo.

Non fa niente, dico. Lei riesce. Vedo il cacciafumo sul  letto Oltre il balcone. Battista, il compare, è già nella stalla  a prendere i muli, arrivano i rumori, se ne va in campagna.  – La corriera se ne va, – dice mia madre dalle scale.

Nicola, mio fratello, con la moglie e i figli, dorme nella  stanza accanto alla mia, non ai saluteremo, il suo bambino  ha fatto una scorreggia.

– Ti ho fatto il caffè, – dice mia madre.

Dovrei svegliare Nicola se ha mille lire per il viaggio.

Per darle a Montesano, non ho più niente. Mi serve solo il  viaggio; una volta lì, ho la pensione pagata e devo avere lo  stipendio.

– Caffè, caffè la madonna! – dico a mia madre, che viene  con la tazza. – Non ho i soldi per il viaggio e devo partire stamattina. Fatteli dare un momento da Battista.

– Credevo che mi lasciassi qualche cosa, se vengono quelli per Rosa. Stesse bene di salute, trema ogni tanto nel letto. E povera Antonietta tutti la dobbiamo maltrattare? Ma  corro, se no Battista se ne va.

 

Mia madre e la spazzina sono uguali, portano tutte e due  le valigie in capo.

 

(Roma, 15-16 febbraio 1952)

 

 

 

 

 


 

I CONTADINI GUARDANO L’ARIA

 

 

Quando c’è qualcosa di nuovo nell’aria dei miei paesi, qualcosa che viene di lontano a visitarci, lo puoi sapere subito dalle faccie distese, inespressive, terribili.  Ho fatto fotografare ai forestieri quando i miei compagni improvvisamente allentano la zappa nei banchi  dello scasso perché devono all’orizzone scrutare il cielo  nuvoloso. Mi hanno nella sera predetto il tempo della  mattina: il vento, il troppo gelo, la grandine, tutta roba  che casca da lontano. E ogni giorno sono entrato nel  mondo loro, chiuso da un patto incrollabile. Essi vestono e parlano e giudicano secondo un accordo che li  avvince, si riconoscerebbero in qualsiasi parte della terra; quando un loro figlio è di razza, può diventare un  padreterno, è difficile sempre che tradisca una regola.  Così c’è un patto dei portieri delle vostre città, grigi  e assonnati? Solo, essi si reputano primogeniti; il primo  lavoro umano fu di sollevare una zolla, tutto venne poi  di lì. Essi danno il pane, essi danno il vino. Per loro il mondo cammina. Sono consapevoli di tanto, ne sono  fieri, hanno sempre l’aria paterna anche se pregano una  grazia, che non va mai loro negata. La terra è madre,  il cielo è nemico, il cielo è un bambino capriccioso che  sa fingere e mordere. Perciò i contadini guardano l’aria  sempre sulle porte.

Bisogna appunto aderire inizialmente a questi articoli statutari della concezione contadina della loro primogenitura e dei capricci del cielo, poi ti lasciano entrare. E sei con loro e quanto più tu riesci a comprenderli tanto più essi sanno capire le tue verità, le ragioni di un partito, che diventano verità e ragioni del  patto contadino.

Abbiamo discusso tante volte un artigiano, un operaio, un uomo che scrive e tutti loro. Nelle feste abbiamo potuto senza scosse mettere insieme il jazz e la  zampogna. Perché? – Stiamo bene noi – dicevano –  starete bene voi. Noi daremo il pane, voi farete le scarpe nuove, alle figlie daremo il mobilio e un corredo.  Un giornale, un libro, eccome se bisognano!

Fu cosi che vennero a gridare con noi o a sorridere  con l’occhio lucido come una zappa. Chiedono sempre  ora « Come va per noi? Che dicono i giornali? Ce la  faremo? Attenti e forti ce la faremo ».

E proprio questa combattività intelligente (- abbiamo aperto gli occhi – dicono) è questa combattività  che contrasta con tutta una vecchia storia del conservatorismo contadino, che si assume da qualche parte  operi ancora nelle campagne. Secondo questa storia i  contadini sarebbero naturalmente portati per l’ambiente, il clima mitico del loro lavoro, a una rigidità di concezioni, a quell’astuzia del granaio pieno, all’investimento dei capitali nel buco del mattone. No, questa è davvero una vecchia storia, dei nemici loro che sono  tanti a cominciare dal cielo. « Eccoli fanno il contrabbando, mettono in disparte i milioni! ». È stata la parola  d’ordine degli anni scorsi che si accompagnava all’altra  della inferiorità di classe. Li ho visti amareggiati per  questo: zotici, zulù, analfabeti, soldati di prima linea  che altro avevan da essere? Uguale rampogna non fu  mai finora spiccata contro di essi. Evidentemente si  trema per il loro occhio aperto, si trema che questa  gente finalmente si svegli, che getti un grido di rivolta  contro l’incomprensione. Essi non vogliono niente, i  contadini, gridano non per avere le scarpe lucide, sempre la zappa hanno avuto tra le mani e avranno. Solo  chiedono meno tasse, un lavoro pulito, una casa, una  strada, una fontana.

lo e l’artigiano e l’operaio dicevamo sì col capo e  loro ci volevano bene, brillavano di saperci loro amici.  – Per il resto, – dicevano – noi abbiamo le spalle  pronte a tutti i pesi.

Un vecchio riprese che i contadini dal principio del  mondo sono stati i padri operosi e buoni dell’umanità.  Hanno saputo che tutto nasceva da loro, non hanno  mai pensato a un potere che già era in loro mani. Essi  hanno sempre perdonato come i padri perdonano sacrificando se stessi per la vita, dell’umanità, per il pro-  gresso, per il pane che fa muovere le gambe. Hanno  sempre pensato che tutti avevano comprensione dei  loro bisogni, della loro fontana e del pilaccio, della  strada. Hanno votato nei tempi, per tutti i candidati  che promettevano di più: Nitti, Giolitti, Giolitti, Nitti,  una baraonda che non capivano o capivano e perdonavano. Al mondo ci siano pure le vespe insieme alle api!  Hanno pensato che tutti ‘i candidati non potevano essere in malafede, perché fare male ai contadini significava fare il male di tutta l’umanità. Hanno votato finora, per tutti, moltissimi per il Piano della repubblica  americana che avrebbe costruito fontane e strade. Ecco:  essi hanno una funzione duplice, prima di avanguardia  e di guida. In questa essi agitano i loro problemi, scendono sulle piazze a gridare i loro bisogni e sono allora  capaci delle alleanze più vaste. Poi cadono nell’attesa  paziente perché la terra è una padrona severa da ubbidire con dura disciplina: si danno al lavoro, sono assenti, fino a quando certe scadenze li richiamano sulla  piazza a negare o ad accettare (le elezioni, la rivolta, la guerra). A questa scadenza sono venuti finora impreparati o soli a combattere contro tutti.

– Ridatemi il voto! – ha gridato un vecchio in  una sezione D.C. a un deputato governativo. – Non  avete fatto né la riforma e nemmeno la fontana! –  E una protesta ingenua, ma altamente politica.

Il patto contadino, operante per i secoli già nella  sua natura, avente tutte le qualifiche per le più vaste  alleanze con altre forze sociali, deve avere un contenuto di politica, questa che una volta era la parola delle  vespe che pur dovevano vivere e che li invitava alla  rinuncia come Cincinnato.

È la prima volta che essi stracciano qualcosa dal loro  statuto, rinunciano di essere paterni perché sentono gravare il cielo nemico e i suoi elementi: il governo e la  guerra.

 

°°°°°

 

 

 

UNA TESTUGGINE

 

 

Sarebbe un segreto non farsi prendere dalla malinconia in queste giornate natalizie, eppure nel vicinato  i camini che fumano lenti sulla strada, come i panni  sparsi al sole si prendono i nostri pensieri dentro i loro  pennacchi.

E morta stamane la testuggine, l’avevano tenuta nella crusca, vicino al fuoco per conservarla calda e viva.  Già si muoveva così poco, la mattina levandoci la tro-  vavamo sulla piastrella bianca della fornacetta che pareva un ornamento come le corna di capra, un po’  più alte verso il soffitto. Franco non se n’è accorto; egli  è uscito subito con la palla per giocare. Paolo che gioca  con lui dà sempre dei calci forti e due volte la palla è  scomparsa nel vicolo e tocca scappare subito dietro  perché va a finire di sotto, alle strade parallele, di vicolo in vicolo, e se la prendono gli altri ragazzi che giocano alla lippa. Casi Franco è tornato a casa che noi

21

 

eravamo già a tavola, si è intese le grida di mamma perché il riso era a colla.

Io m’ero alzato dopo di lui, sono più grandetto e  devo dire che mi piace fantasticare sveglio dentro le  lenzuola, mi vengono già dei pensieri che il babbo mi  fa scrivere in un quaderno quando si ritira dall’ufficio.  Sono le vacanze e devo solo questi compiti al babbo.  Serafina mia sorella lavava per terra, la mamma si è  messa a ripulire il riso, io giravo per le due stanze, mi  rivedo ogni mattina le mie cose; i guanti sono un po’  scuciti, ma vanno ancora bene e devo mettermeli tra  qualche giorno, mi sono provato il basco che devo incignare il giorno di Natale, la cartella è sempre appesa al  chiodo, dietro la panca il cerchione di bicicletta è polveroso, non potrei spingerlo oggi con le strade fangose  e non farebbe quel canto sulla rotabile come di estate.  Allora mi ricordo della testuggine sulla fornacetta:  – Levati con quello schifo! – mi dice la mamma.  L’ho presa con le due mani allo scudo e al piastrone e  me ne sono andato nelle scale per stuzzicarla. La testa  e le zampe non si muovevano come sempre quando io le  faccio sentire il mio fiato vicino. Poi l’ho scossa sulla  corazza aspettando che si muovesse come un’automobile  a carica, ma solo le zampe per l’urto hanno raschiato  un istante i mattoni. L’ho guardata allora nell’occhio,  era aperto e nero e luccicante, ho preso lo spillo dai  calzoncini e mi sono messo a pungere, quante altre manovre non ho tentate! Mi pareva che ci fosse qualche  cosa come nelle automobili a carica quando la molla si  allenta o le ruote si svitano, le ho guardato di nuovo  l’occhio nero, io so quanto sono furbe queste bestie e  mi sono adirato, l’ho punta nell’occhio, l’ho sbattuta  per terra, infine l’ho gettata in fondo alle scale, sono risalito sulla panca a giocare con le cartine « Stella ».

Serafina col suo straccio è passata alle scale, a me le  cartine sfuggivano di mano cosi ero eccitato. Per prenderne una da sotto la panca, c’è voluto il palettino e  raschia raschia ho sporcato il pavimento. – Te la vieni  a prendere o la getto? – mi ha chiesto Serafina. Gettala, le ho risposto e mi sono affacciato alla finestra,  l’ho vista nel mucchio d’immondizia, c’era un cerchio di  sole e a lato l’ombra d’un cammino, non c’era Paolo,  non c’era Franco, la palla doveva essere finita al Pre-  cettone, alle ultime case del paese.

La mamma si è messa a sciacquare il pentolino della  crusca riponendolo al suo posto e mi ha detto: – Ti è  passata, e tutta, la fantasia della testuggine! –

Nello sgabuzzino dove mamma aveva rimesso il pentolino erano attaccati a una cordicella i coperchi di latta, ne ho preso due per fare la banda e suonare a piattini. Ne veniva un fracasso che mia madre gridava e  non si sentiva finché è corsa a battermi sulle mani.

Non potevo più stare nella casa, quando la mamma  mi batte ella è nemica e estranea e io mi controllo come  davanti al maestro di scuola, sono uscito. Tutti i miei  compagni e mio fratello Franco avevano preso strada  lontani dal vicinato, ero solo e senza guardare la bestia  tra l’immondizia sono andato a sedere al portone del  Notaio dove c’era sole.

Il primo a tornare è stato Paolo. Sua madre come  un banditore si era affacciata più di una volta a chiamarlo « Se non vieni, non vieni, ma se vieni! ». Così  chiamano le mamme pensando ai figli nascosti nei portoni che non vogliono rincasare.

Paolo si avvicina alla testuggine e la prende e sta  per portarsela via mentre io gli corro incontro e gli scappa di mano. Allora l’ho ripresa, sono risalito da  mamma: Deve essere morta -le ho detto – stanotte.  La conservo al babbo per vedere. L’ho messa alla finestra all’aria perché la mamma ha detto che poteva puzzare.

Il babbo è tornato frettoloso come sempre strisciandosi le mani. Mi veniva da piangere quando hanno messo i piatti in tavola. Il babbo mi pareva cosi stanco;  per la prima volta ho studiato nuovi pensierini per il  compito della sera, avrei parlato di babbo e del suo  ufficio lontano, della testuggine morta che stava all’aria  della finestra, del riso che ogni ventisette il babbo ci  portava nelle tasche. Franco, già corrucciato, non ha  detto niente quando gliela ho mostrata, babbo invece  si è mosso sulla sedia, mi ha fatto girare dietro e ha  smesso di mangiare: – Rimettila alla finestra, si asseccherà, ne faremo un fermacarte per la scrivania.

Franco appariva sempre corrucciato davanti al suo  piatto che fumava, a un tratto è scoppiato a piangere,  io gli facevo il verso e lui saltava, è finito sotto il tavolo e li man mano si è addormentato. Serafina è stata  lenta a sparecchiare, la mamma ha chinato il capo sul  fuoco e babbo ha aperto il suo giornale.

È. successo il solito pomeriggio di festa, babbo è  uscito e tornato, sono venute le comari e certe amiche  di Serafina, Franco di nascosto ha mangiato il riso (ce  n’era tanto nella madia che nessuno aveva voluto) io  alla finestra guardavo la partita di calcio sulla tempa di  Santamaria, cosi la sera è calata.

Di nuovo hanno apparecchiato la tavola e ci siamo  disposti intorno allo stesso riso del pranzo e il babbo  ha guardato la mamma e Franco si è levato sul seggiolone aprendo le braccia: – Zitti, zitti! – e tà, una scoreggia, non ne potevamo più dal ridere. Serafina ha  risputato un boccone nel piatto.

– Domani è Natale – ha detto allora la mamma.

Ci siamo dati tutti da fare per prendere il gallo dallo  sgabuzzino, che volava sulle mensole e per le scale,  Franco veniva dietro con le forbici, per il colpo al  collo.

Non si è sciupato il sangue che colava in un piattino,  il gallo era inserrato con le zampe sotto il coperchio  della madia, lo abbiamo squartato come un porco.

Non c’era più altro da fare e mi hanno lasciato solo  per il compito di domani. Sulla piastrella bianca della  fornacetta ho rimesso la testuggine, sto scrivendo la  lettera, domani mi sentiranno: «Babbo mio, mamma  mia, abbiamo scannato il gallo per sentirci felici, ma la  testuggine era morta da sé. Vi voglio bene. lo, Franco  e Serafina vi vogliamo bene. Ogni giorno vi tiriamo  un po’ di sangue, genitori amatissimi, per crescere, per  sentirci felici, grazie, grazie di cuore. Aspetteremo la  tua venuta dall’Ufficio, babbo, prima di mangiare; ci  puliremo da soli le scarpe, mamma, andremo a fare la  spesa … ».

Ma come devo dire, a questo punto, che, tanto, il  babbo e la mamma mi assomigliano alla testuggine?

 

°°°°°

 

 

LA POSTULANTE

 

 

Nella casa di Prospero si accedeva sotto la gradinata  che portava ai piani di sopra ancora sconnessi dalle  bombe. Vi era la vetrina coperta di cartone, c’era scritto su un lato « Portiere» con la calligrafia di Vincenza, tonda e inclinata.

Subito si vedeva il letto grande, sconvolto sul fianco  di fondo. Era lì l’altro figlio di Prospero paralitico come era nato. La madre era morta da lì a poco. E Prospero  aveva da girare in quell’unico vano con una scarpa  sempre da rattoppare.

La guerra era passata cosi: attorno a Prospero l’odore  delle cucine che invadeva il cortile e su un lato della  finestra, nella debole luce della casa, il volto stanco della moglie morta che mirava avanti a sé.

Vincenza si faceva il letto da quando non era più  bambina e l’allievo di suo padre cominciò a guardarla  nel petto. Fu allora che divenne lei la padrona della  casa. Furono anni in cui la casa si fece più buia; le sere  veniva l’allievo a piazzare il cuoiame ai calzolai delle montagne. Egli era uomo da poter vivere, in breve,  seduto a una poltrona, cosi sicuri andavano i suoi affari, e per lui Prospero e la sua famiglia si sfamò. Prospero non si rassegnava al pensiero che in tanti anni di  portiere e di calzolaio non era stato capace di mettere  un soldo nel comodino, dove ora conservava i biglietti grossi dell’allievo. Né poteva a lungo non vergognarsi  di essere ormai mantenuto, lui con la famiglia, da quel  ragazzo che pochi anni fa aveva ricevuto, piccolo e goffo, davanti al deschetto come apprendista. In questi pensieri egli si aggirava per la stanza come un cane vec-  chio, non aveva più coraggio di mostrarsi al grande portone per guardare nella strada. – Sentimi, figlia, –  disse ancora una sera a Vincenza, sperando di intenerirla – ormai potresti solo tu salvarmi. Il giovinotto ci  mantiene. Gli ultimi denari per il vestito erano suoi.

Vincenza ebbe una pronta reazione di pianto: –  Dunque, – disse – non è che facevate a parte!

Il padre se lo vedeva davanti carico di anni e di questo tormento di essere mantenuto. Promise che avrebbe  pensato a lungo sulla proposta di andare in sposa al giovane. Non usci più di casa. Aveva sedici anni allora.  Cominciò a guardare con occhi gonfi il fratellino nel  letto, cominciò a guardarsi addosso anche lei, l’indomani non si rifece le treccine; sciolti cosi i capelli, si accorse del suo petto che montava e quando di nuovo  l’allievo ritornò, ella si sentiva rubata dai suoi occhi e  non le veniva di sentirsi sposa a lui. Ma il padre più di  tutto era cambiato. Gli vedeva gli stessi occhi avidi del  giovane, era il suo complice contro di lei.

Quando il padre le disse ancora, insinuante e mellifluo, di far gentilezze all’allievo, allora gridò la prima  volta sul viso del vecchio che non se la sentiva.

 

Nel palazzo di fronte abitava la famiglia della madrina, volle andare da lei, dalle sue figliuole a parlare.  La madrina tornava dalla messa la domenica mattina,  Vincenza si fece vedere. Dalla strada additò la gradinata nel suo portone, disse: – Madrina mi sento morire là dentro. Il fratello piange più la notte e il padre  e un giovane mi spiano.

Raccontò per filo e per segno le cose. La madrina,  una signora dalle linee dure al volto, parve dapprima  scossa e scrutava la ragazza severamente. Ma via via che  il racconto di Vincenza si sviluppava ella andava distendendo il suo volto pensando all’occasione felice di prendersi la ragazza al servizio e di compiere una buona  azione. Le prese la mano, le disse soltanto: – Starai con  me, – e Vincenza la seguì leggera, come se partisse la  prima volta per un lungo e piacevole viaggio.

Il lungo e piacevole viaggio durava ancora nei primi  gioni della nuova vita nell’ampia e bella casa della  madrina; lavorava, usciva alle compere, recitava il rosario la sera, dormiva con la più piccola delle figlie in  un grande letto soffice.

Le altre due figlie della signora studiavano, sempre  nervose nelle loro stanze. Una sera vennero dei giovani  a trovarle. Vincenza andò ad aprire e uno di loro non  smise più di guardarla. Quella notte si vide ai piedi del  letto, nel sogno, un’informe macchia nera, un uomo.  La macchia nera era curva sulla linea del suo corpo disteso. Chi era quell’uomo, che stava per saltarle su, e  non c’era difesa, non c’era via di scampo?

Vincenza era giovane e soda, lo studente l’aveva  guardata, l’allievo del padre la voleva, il padre aveva  fatto quella faccia orribile chiedendole di sposarsi. Quel  povero padre rimbambito non aveva altri pensieri che questo, e la sua faccia lo esprimeva senza riserve, senza  veli. Chi era quell’uomo che la tentava nel sogno? Suo  padre?

Vincenza si svegliò e quella macchia nera di suo padre  le rimase negli occhi fino al mattino.

– Non ci andare più in quel buco d’inferno, – le  aveva detto la madrina, – con un padre simile, con  una simile tentazione.

Ma vide gente al suo portone quel giorno, e una sua  amica le mise una mano sulla spalla senza parlare, Vincenza si avviò verso la vetrina; le fecero largo, Prospero stendeva una mano sul cadaverino del fratello per  cacciargli le mosche: – Paoluccio mio! – gridò Vincenza in lacrime, e fece per inoltrarsi, quando Prospero  si piegò a terra e poi, brandendo il martello, venne  avanti per colpirla: – Fuori di qua disgraziata, fuori  di qua!

La stessa gente le fece largo, usci sulla strada e si  mise a correre sperando di trovare il giovane allievo per  dirgli di sì, per tornare a suo padre e piangere Paoluccio.

Passò del tempo, Prospero era impazzito e solo, e l’allievo non si vide, Vincenza andava da una chiesa all’altra, col velo, e aveva tratti di monella cosi staccati  dal suo viso melanconico e pensieroso. Gli zii, dopo  qualche esitazione e rimorso, si accordarono con la madrina per avviare la ragazza in un convento.

La madrina volle patrocinare ogni iniziativa e non  fece passare giorni che, agghindata come una sua figlia,  trasse Vincenza avanti al Vescovo.

Si, è vero, voglio farmi monaca, – disse al Vescovo ammirato e felice.

* * *

Ha trovato un’amica, postulante come lei, e le ha  raccontato il suo fatto, ed ha saputo i fatti dell’amica  nell’ora della passeggiata. Il paese è di fronte con le  sue case ammucchiate su una collina arida e sassosa, il  convento è dall’altra parte, dopo il vallone e il ponte,  in mezzo ai cipressi e al verde degli orti e alle terre  maggesate cinte dai pioppi lungo il vallone.

Per passeggiare, in fila e con le mani nelle maniche,  si esce dal convento al parco con i tigli. C’è un tiglio  più alto e più odoroso dove si sentono le api. È in cima al viale largo. Per regolamento, nelle passeggiate, le  suore dovevano allargare i polmoni, anche spiritualmente, con un conversare gaio ed elevato, ma nemmeno le professe riuscivano, per quanto facessero, a sentirsi ricreare sotto i fiori odorosi del tiglio. Parevano  rondini ferme per partire nel loro abito bianco e nero.  Vincenza vestiva da postulante, un vestito di lana nero  lungo fino ai piedi. Le avrebbero tagliato i capelli, alla  vestizione, le avrebbero imposta la sufficie bianca, e il  velo nero dagli orli bianchi, e il grembiule di mussola.

« Figlie che domandate? » avrebbe detto il Vescovo  e le postulanti « Lo Sposo, il Diletto» e avrebbero ricevuto l’abito e la candela. « Sia lucerna ardente nelle  vostre mani per andarGli incontro, per essere ammesse  alle Sue nozze ».

Poi la voce del venerabile vecchio avrebbe parlato  di terre lontane dove piccole postulanti negre attendevano le sorelle bianche, dolci missionarie di pace e di  amore. E per Vincenza l’immagine era già quasi realtà.

Scordarsi del padre e dell’allievo, del fratellino paralitico morto, delle amiche e del Corso con l’altoparlante, dello studente: era ciò che voleva Vincenza. Era  meglio qui per lei, gli uomini, i contadini passavano al di là del muro con le loro voci, con i loro scarponi. E  che domandava Vincenza? Era giusto rispondere al celebrante, il giorno della vestizione, «Come il cervo  desidera le fontane di acqua cosi desidero te, mio Dio »?

All’ora dell’adorazione le suore in tulle bianco, a turno, comandate dai tocchi della campana, scendevano in  chiesa. Sull’ostensorio illuminato che pareva una fiamma  nell’aria c’era il grande quadro del santo benedicente.  Era allora che Vincenza si straziava « Che domandate,  figliuole? ».

A un’adorazione, un mattino, il santo le apparve trasfigurato come il padre, impazzito, minaccioso, tentatore. Gridò, le altre suore non si scomposero. La madre  venne a prenderla. Mancavano due mesi alla vestizione, doveva riempire la regolamentare domanda per essere accettata al Noviziato. La madre l’aiutò a scriverla.  Si poteva leggere tra l’altro: « Sono venuta qua, perché  avevo paura degli uomini ».

 

 

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