Un minuto di storia nazionale e tricaricese. Il 18 settembre di 73 anni fa due giovani canadesi “liberarono” Tricarico e Benito Mussolini fondò la R.S.I.
Alle dieci del 18 settembre 1943 due giovani militari canadesi – un capitano, non ancora trentenne, e un soldato, un ragazzino – «liberarono» Tricarico. Fecero il loro ingresso in viale Regina Margherita su una jeep e si fermarono davanti alla bottega di Binetti. I Binetti erano marito, moglie e un figlio: Francesco (detto preferibilmente Binetti), Giustina e Cosimino, , anno più anno meno di me. Binetti gestiva una bottega di meccanico e una pompa di benzina in viale Regina Marcherita. La bottega era in una grotta ipogea, all’angolo di svolta nella piazza, con la temperatura fresca e costante delle grotte, e in essa Binetti conservava alla temperatura giusta vino e birra per la trattatoria gestita dalla moglie Giustina, e la birra Peroni la vendeva anche direttamente a un prezzo inferiore a quello che praticavano i barGiustina gestiva una trattoria in piazza; il marito. Cosimino è morto l’anno scorso; nulla so di una sua eventuale discendenza.
Dopo l’armistizio per la via Appia era un continuo passare di colonne di camion, blindati e carrarmati tedeschi, che velocemente andavano ad attestarsi sulle nuove linee per sfuggire al rischio di imbottigliamento per il previsto sbarco degli Alleati a Salerno. Nessuno aveva il coraggio di mettere il naso oltre i Cappuccini, dove i tedeschi passavano veloci senza entrare in paese. Solo un paio di volte fecero rapide puntate fino in piazza con una motocicletta sidecar. Ricordo la guardia municipale Rocco Paradiso, bianco come un panno lavato, togliersi il cappello con la visiera, simbolo della sua autorità e del suo potere, e nasconderlo dietro le spalle, mentre la motocicletta col sidecar gli passava davanti. Giungevano notizie dei due terribili bombardamenti di Potenza, che inghiottiranno nel nulla i giovani fratello e sorella Nido (Coppelascionta), di una bomba che aveva abbattuto il ponte alla stazione di Grassano, si vedeva il cielo oscurato dal passaggio di centinaia di fortezze volanti in formazione, che contavamo col naso in aria, aiutandoci con l’indice, avevamo assistito terrorizzati a un duello aereo, proprio sulla piazza, con sventagliate di mitraglia. «Si sono messi tutta sta paura per un peto do’ piccirillo mio» osservò una sfollata napoletana, vantando la sua esperienza di reduce dai bombardamenti su Napoli.
Il paese sfollò. Tutti si rifugiarono nelle vigne, nelle campagne, accampandosi come meglio potevano nei casini, nella casupole e persino nei pagliai. Era un settembre caldissimo, per fortuna (questo settembre del 2016 lo ricorda). Il paese deserto, camminando, lo sentivo rimbombare sotto i miei passi come l’eco di un vuoto. La mia famiglia rimase in paese. Non avevamo un posto dove rifugiarci e non avevamo notizie di mio padre, impegnato per il servizio militare alla stazione ferroviaria di Trivigno. Temevamo che gli fosse successa qualcosa di brutto e nello stesso tempo speravamo. Una mattina, all’improvviso, lo vedemmo comparire, e mia madre si mise a piangere. Papà ci raccontò che era riuscito a sfuggire ai tedeschi che l’avevano catturato: a Vaglio, mentre spingeva un camion sul ciglio della strada, approfittando della momentanea disattenzione dei tedeschi, si lanciò nella scarpata e, correndo lontano dalle strade, passando per campi e vigne, era giunto a Tricarico. Era un segreto, la cattura di papà, duro come un macigno sul petto, che mi tenevo da qualche giorno. Il nipote del farmacista Carbone, che era di Tolve, era venuto a Tricarico, ospite dello zio, e mi aveva riferito di aver visto mio padre nella piazza di Tolve, prigioniero dei tedeschi.
La sera del 17 settembre si era diffusa la notizia che stavano per arrivare gli inglesi e una piccola parte degli sfollati erano tornati in paese. Ma non c’era molta gente, la mattina del 18, ad accogliere i «liberatori». Di quella mattina c’è il breve racconto di Rocco Scotellaro, nell’Uva puttanella, denso di significati politici. C’ero anch’io a salutare i canadesi. C’era don Raffaele Ferri, alto e possente, il sudore gli colava sul bel cranio tondo e pelato mentre, sull’attenti, gridava a ripetizione «Viva i Liberatori!». Alto e possente era stato sempre presente, con la sua elegante divisa di capomanipolo (tenente) della MVSN (milizia volontaria per la sicurezza nazionale) al sabato fascista. Ma era un brav’uomo, don Raffaele, e siamo stati amici, benché egli avesse la stessa età di mio padre. Lui e la moglie – non avevano figli – abitavano in un palazzotto nell’allora via Roma e la mattina chi passava sotto casa sua lo sentiva declamare versi sconosciuti con la sua voce calda e tonda e tonalità modulate. Don Raffaele aveva una laurea in veterinaria, ma non esercitava la professione, aveva rinunciato a presentarsi al concorso per il posto di veterinario condotto, per lasciarlo libero a don Vincenzo Benevento (Spirdillo), che aveva sposato una sua parente, donna Mimma, figlia di don Carmine Ferri. Donna Mimma era l’idea di bellezza statuaria fatta persona. Sposò a diciassete anni, in prime nozze, un farmacista di Campobasso col quale ebbe dieci figli in poco più di dieci anni e, dopo questi parti, lei era rimasta più bella di prima, con la sua siluetta intatta, solo rimodellata come una pesca matura nelle spigolosità acerbe delle verde età, e il viso illuminato da una viva luce di soddisfazione, e il marito morì. Donna Minna, vedova, tornò a Tricarico. Non aveva ancora compiuto trent’anni. Corteggiatissima dai molti bei partiti della Tricarico di quel tempo (bei giovani che vivevano di sostanziose rendite), si decise infine, o si adattò a sposare don Vincenzo. La figlia che più le rassomigliava in bellezza era Pupetta (Vittoria), studentessa di medicina. Una ragazza che allora studiasse medicina era, se non uno scandalo, una stravaganza. A mia conoscenza c’era soltanto un’altra ragazza in Basilicata che seguisse gli stessi studi. Si chiamava Lucia Cardillo ed era di Palazzo San Gervasio, il paese d’origine della mia famiglia e della famiglia di Lina Werthmüller, la quale nei Basilischi racconta la storia scandalosa per i paesani ed esemplare per la la Werthmüller di Lucia Cardillo. Lucia divenne medico ed esercitò con onore la professione nel paese dei basilischi. Anche Pupetta completò gli studi ed esercitò la sua professione a Roma. Pupetta tornava a Tricarico, per le vacanze, con cortei di ragazzi ospitati nella bella spaziosa casa alla Porta del Monte, sul piazzale dove veniva posato il vecchio garibaldino, che Rocco Scotellaro ricorda in una sua bella poesia. Agli amici che Pupetta si portava si aggiungevano i giovani tricaricesi di belle speranze ed era uno spettacolo vederli passeggiare su e giù in piazza, Pupetta al centro e quattro o cinque ragazzi a un lato e altrettanti all’altro lato. Noi ragazzini di alcuni anni più giovani fantasticavamo su Pupetta, piangendo sulla nostra triste sorte di nati troppo tardi. Don Raffaele poteva vivere comodamente con le rendite delle sue campagne, di cui non si curava, e comodamente coltivò i suoi interessi culturali. Per il rimpianto del latino e greco non studiato si fece stampare Zooiatra sul suo biglietto da visita e trascorreva le mattinate nell’Antro dell’Orco – come lui chiamava una specie di mansarda ricavata nella soffitta della sua casa – a leggere ad alta voce dalla Storia della letteratura universale di Camillo Prampolini, per impararli a memoria, versi di poeti di civiltà lontane nel tempo e nello spazio. Era dunque uomo molto erudito, don Raffaele, ricco di una erudizione ignota a tutti gli altri, che poteva sfoggiare e dispensare a piene mani nel suo girovagare per il paese o per il contado, sempre in compagnia di un cavalla, che cavalcava o teneva per la briglia. Anche al bar Benevento, a duecento metri dalla sua casa, don Raffaele andava con la cavalla per concedersi una partita di tressette e il lusso di declamare tutte le regole di Chitarrella, che – assicurava – conosceva alla perfezione anche il grande filosofo Benedetto Croce. Non mancava a un ballo, sudava come una fontana e non si perdeva un solo giro di danza finché, una alla volta, non avesse ballato con tutte le fanciulle presenti. Riposava un solo giro e riprendeva instancabile. Ma lasciamo don Raffaele e torniamo ai canadesi. Intanto la voce del loro arrivo si era diffusa e una folla discretamente numerosa si era raccolta attorno alla jeep. Arrivavano donne, che recavano in dono, in grossi cesti portati sulla testa, schianate di pane, uva e fichi e altre specie di frutta di stagione. Riempirono la jeep sotto gli occhi sbarrati dei canadesi. Il capitano si diresse verso la piazza, si fece un giro per via Roma e quindi si avviò verso il corso. Lo seguiva un corteo, del quale facevo parte anch’io. Giunto davanti alla barberia di mast’Andrea Sellitti il capitano fece il gesto di volersi radere. Nella barberia c’era un apprendista di mast’Andrea, che fece accomodare il capitano e cominciò a insaponarlo. Il corto gli era accalcato attorno, tutti coi colli allungati. Il capitano osservava con aria incredula perplessa smarrita e divertita. Qualcuno, a un certo momento, ebbe la geniale idea: «Suoniamogli la Canzone del Piave». Era convinto, e lo eravamo tutti, che il giovane capitano, che veniva dal Canada, non potesse non conoscere la canzone del Piave e, sentendola suonare, avrebbe capito che eravamo stati alleati nella prima guerra mondiale, che avevamo vinto assieme. Ma come suonarla la canzone del Piave? Tra il piccolo seguito c’era solo uno che sapeva suonare il trombone. I barbieri e i calzolai suonavano nella banda musicale locale e, quindi, nella barberia di mast’Andrea c’era uno strumento, ma non il trombone. In un battibaleno il trombone fece il suo ingresso e il nostro musicista prese a cavare le note della gloriosa Canzone. Tutti noi commossi accompagnavamo col nostro canto stonato. Il capitano capì ben poco di quel trambusto e non potette capire che stupidata era stata la nostra geniale pensata, e fu un peccato, perché, se avesse capito per tutta la vita avrebbe raccontato il fatto e i suoi nipoti lo racconterebbero ancora in Canada.
Quello stesso giorno Benito Mussolini pronunciò da Radio Monaco il discorso per annunciare la fondazione della Repubblica sociale italiana.
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Racconti di questo tipo sono preziosi!Recuperano frammenti di Storia con così vivida efficacia da colpire anche chi non li ha vissuti.E se ne trae più di un insegnamento(oltre al piacere della lettura).Grazie!
Bella e commovente questa tua narrazione di un momento cruciale nel passato. Ognuno di noi potrebbe -e dovrebbe- fare altrettanto per ravvivare e trasmettere certi ricordi. Purtroppo, anche per chiarire un aspetto spiacevole del popolo italiano, che tu -anche se con bontà- hai colto esattamente in Raffaele Ferri: fascisti e gerarchi della MVSN, plaudenti a Mussolini ed al suo regime così come subito plaudenti anche ai liberatori, pronto ad usare la cavalla per sottolineare il syo rango sociale….. Da ciò quel melmoso pantano che ha sempre caratterizzato il popolo italiano e che nel 1959 dette vita al “doroteismo” con annesso “gattopardismo” risuscitato.
Bello,bello,bello!!!! Queste narrazioni mi incantano e sono per me “linfa vitale”. Grazie Antonio e continua con i tuoi preziosi ricordi storici.
Ho letto con attenzione l’articolo ed ho subito riscontrato un famelico errore. La moglie del signor Francesco Binetti che gestiva la trattoria si chiamava Chiarina e non Giustina; infatti Giustina Binetti era una delle sorelle maggiori di Zio Francesco nonchè mia nonna.
Grazie per la precisazione, per cui la mia memoria ha recuperato il nome di Chiarina, moglie di Francesco Binetti. Non mi riesce, invece, di recuperare il personaggio di sua nonna Giustina, anche se il mio lapsus mnemonico fa pensare di averla certamente conosciuta.
Sono il figlio del farmacista,che lei cita,nonché cugino del ragazzo di Tolve. Ignoravo completamente questa storia ,commovente, sapiente ed intensa di atmosfere tricaricesi che ricordo con tanta nostalgia .Anche il personaggio di Don Raffaele ,con i suoi lucidi stivali fino al ginocchio ed i pantaloni da cavallerizzo.Grazie per queste pillole di storia tricaricesi che rinfrancano il cuore e la mente.
Ma noi ci siamo conosciuti e abbiamo abitato tutti due in piazza, in case l’una di fronte all’altra. Felice di averti reincontrato. Tonino
Come sai ,io mi sono allontanato dal paese molto presto per andare in collegio a PG, per cui i miei ricordi non sono sempre chiari .Complimenti per questo tuo blog, che leggo molto volentieri. Tu vivi a Tricarico? io sono qui a Roma. Quando verrò al paese,avremo modo di fare una bella chiacchierata e passeggiata per la nostra piazza Garibaldi, ricostruendo frammenti della storia tricaricese .un caro saluto.
Ci siamo ben persi di vista. Io lasciai Tricarico, dove tutte le mie radici sono state estirpate, circa 60 anni fa. Ho tanta nostalgia, ma a Tricarico non torno e non posso tornare. Mi fa piacere che trovi Rabatana di tuo interesse e ti ringrazio. Ricambio molto affettuosamente il saluto.
Quanti minuti di storia che apprendo da questi racconti/memorie nazionali e tricaricesi….grazie.
Cari saluti
Grazie a te!