Le cime di rapa con i cavatelli (Lë cìmë_rë_rapë kë_lë_kafatìddë) è una tipica ricetta lucana. A pag. 93 del pregevole Dizionario del dialetto tricaricese di Domenico Langerano si legge sia come si fanno i cavatelli, sia la ricetta delle cime di rapa con i cavatelli. Ma qui non posso trascurare di dire anch’io come si fanno i cavatelli, anche perché, in ricordo di mia madre, devo introdurre una variante terminologica.

I cavatelli sono un formato di pasta fresca di forma allungata ottenuti con una leggera pressione delle dita esercitata su piccoli pezzi di varia lunghezza di un impasto di farina di grano duro (la stessa con cui si fa il pane), acqua e sale. Si trasforma l’impasto in cordoni di circa 1 cm. di diametro, che vengono poi divisi in piccoli pezzetti di varia lunghezza a seconda che si decida di “cavarli” (da cui il nome cavatelli) con un dito o due o tre o quattro dita (kafatìddë a nu réšçete, a ddoje, a quòttë réšçete. Mimmo Langerano dice anche a otto dita, a ottë_réšçete).

Nella zona del Vulture sotto influenza pugliese (Lucanus an apulus anceps), si usa una diversa terminologia a me familiare e che tuttora uso anch’io, perché la mia famiglia è originaria di quella zona e mia madre usava quelle diverse parole. Solo i cavatelli a un dito hanno questo nome; gli altri si chiamano capount.

I cavatelli propriamente detti non si fanno con le cime di rapa e non li ho mai mangiati con tale ortaggio. Essi si “sposano bene” con i fagioli: sposalizio nel senso proprio, ogni cavatello abbraccia un fagiolo e si scambiano i reciproci profumi e sapori. A casa di mia moglie, inoltre, col ragù di lepre si condivano solo ed esclusivamente i cavatelli a un dito, essendo inimmaginabile che si potesse condire qualsiasi altro tipo di pasta.

Interessante la motivazione che si dava del fatto che i cavateli si lavoravano con una tale varietà di dita. Una ragione ci deve essere se ha portato addirittura, in alcune zone, a dare nomi diversi ai diversi tipi. Agivano anche, ma non solo, preferenze particolari. Per esempio, mia madre amava condire i capount a tre dita (mai a due o a quattro) con pomodoro fresco succulento, profumato con basilico e peperone piccante.

Ma ci doveva essere (e c’è) una spiegazione generale. Una volta le donne facevano molti figli, sicché erano piuttosto rari i momenti in cui non allattavano un marmocchio. Le povere mamme dovevano badare ad allattare reggendo il marmocchio su un braccio e usando l’altra mano per fare i cavatelli. A uno, due, tre o quattro dita: credo che dipendesse dalle preferenze particolari di cui ho detto prima, nonché dal tempo a disposizione: con quattro dita si faceva più in fretta.

Mia madre (apro una parentesi), quando faceva le orecchiette, a un certo momento si scocciava e faceva orecchiette molto grandi, che lei chiamava orecchie di prete (recchjë rë prèutë). Non so se il nome fosse stato in un qualche modo ispirato da rëkkjonë. (Mimmo Langerano, che ringrazio per essermi avvalso del suo Dizionario per le voci in dialetto di questo post, a pag. 268, attribuisce analogo significato allusivo a rëkkjëtellë (orecchiette), che non avevo mai sentito e mi riesce anche difficile capire). in ogni caso, le orecchie di prete di mia madre, che si riempivano di ragù e formaggio, erano il migliore boccone del piatto.

Chiusa la parentesi. Nei rari momenti in cui le mamme non allattavano, adoperavano due mani. Ma non facevano cavatelli a otto dita, come sembra lasciare intendere Langerano: si adoperavano sì due mani e, quindi, otto dita, ma per fare contemporaneamente due cavatelli a quattro dita e non un solo cavatello a otto dita. Ma Mimmo mi ha assicurato che a casa sus il cavatellone a otto dita si fa e si mangia.

Giacché sono in tema, rilevo che Mimmo, a pag. 93 del suo Dizionario, nel dare la ricetta delle cime di rapa kü_lë_kafatìddë, informa incidentalmente, e a maggior precauzione tra parentesi, che qualcuno ci aggiunge anche una sardina sott’olio. L’informazione è imprecisa, giacché l’eventuale variante è costituita non da una sardina ma da uno o due filetti di acciuga sott’olio. Si vede che a Mimmo questa variante, chiaramente introdotta in Puglia, non piace proprio; come non piace neppure a me. Il benessere economico e la produzione industriale dei formati di pasta che si facevano in casa (cavatelli, orecchiette e làhen – dal greco laganon, con l’accento sulla prima alfa, che la mia testiera non ha, informa diligentemente Langerano -) ha portato a sostituire i cavatelli con le orecchiette, che, tecnicamente, non sono cavatelli. Le orecchiette erano la pasta della festa, più elaborata dei cavatelli, che si preparava per il pranzo della domenica col ragù di carne di capretto e maiale. Non solo. Non ci sono più le cime di rapa con i cavatelli, ma i broccoli con le orecchiette. Sono un’altra cosa: i broccoli non hanno nulla a che vedere con le cime di rapa e le orecchiette nulla a che vedere con i cavatelli.

Il broccolo, chiamato anche cavolo broccolo, è una varietà di Brassica oleracea, la grande famiglia di piante conosciute comunemente come cavoli e che comprende numerose varietà molto diverse di aspetto. Essi, inoltre, rientrano nel gruppo di piante di cui non vengono mangiate le foglie bensì le infiorescenze non ancora mature. La cima di rapa, invece, è una varietà dell’Italia meridionale della famiglia Brassica rapa susp, sylvestris var. suculenta (come, con la solita diligenza, informa il Dizionario Langerano).

Nel Nord Italia la cima di rapa è un ortaggio sconosciuto. È stato quindi giocoforza per gli emigrati meridionali (pugliesi e lucani in particolare) sostituire le cime di rapa con i broccoli, che sono parenti sia pure alla lontana (una cosa è la grande famiglia della rapa, altra cosa la grande famiglia del cavolo).

Da qualche tempo si trovano nei supermercati cimette di rapa surgelate. Sono belle a vedersi, le cucino direttamente col soffritto, altrimenti, se le facessi previamente bollire, diventerebbero una crema, e condisco i cavatelli di produzione industriale, non casalinga. Hanno la forma dei cavatelli a quattro dita, ma non la delicatezza e il sapore dei cavatelli fatti in casa, e, quasi per farmi dispetto, i pastai produttori li chiamano “cortecce”.

Per mangiare non dico bene, ma certamente non male come male mangerei se non avessi espulso mia moglie dalla cucina, mi devo accontentare. Ma chissà che non mi decida a farmeli io i cavatelli! Meglio: i capount, come diceva e ce li faceva mia madre.

Ma le cime di rape appena colte, che gli ortolani portavano al mercato in viale Regina Margherita, sotto il muraglione del palazzo ducale, chi me li da più? Certamente a Tricarico ci sono come prima. E allora: buon appetito agli amici tricaricesi! Mi raccomando: cìmë_rë_rapë kë_lë_kafatìddë, a tre dita, se volete farmi una cortesia, non kë_lë_ rëkkjëtellë. Sempre se volete, niente filetti di alice e un bel peperoncino fresco e profumato, molto ma molto piccante. Grazie!

 

 

 

9 Responses to Note filologiche in tema di cime di rapa con i cavatelli (cìmë_rë rapë kë_lë_kafatìddë) .

  1. Gilberto Marselli ha detto:

    Ti ammiro e ti invidio: io non so fare nemmeno il classico caffé napoletano. In cucina sono del tutto incapace, anche se sono un saggio buomgustaio e ammiro le ricette nostrane.

  2. Antonio Martino ha detto:

    Caro Gilberto, Quale buongustaio che sa apprezzare le ricette nostrane, ma confessi di essere incapace in cucina di fare qualsiasi cosa, “nemmeno il classico caffè napoletano”, ti vorrei dire che non sai cosa ti perdi e quale e quanta arte, abilità e tempo occorra per prepararti un buon caffè napoletano. Ti dedico, pertanto, il famosissimo monologo del caffè della commedia “Questi fantasmi” di Eduardo De Filippo, dove vi è l’esaltazione tutta napoletana di un rito quotidiano, quasi sacro, in grado di conferire un momento di felicità.
    La scena. Pasquale Lojacono, il protagonista della commedia, per prepararsi il suo caffè, siede fuori uno dei balconi della casa che ha affittato. Il suo interlocutore è il Prof. Santanna, il famoso dirimpettaio di casa Lojacono, al quale Lojacono spiega la sua tecnica particolare:
    «Sul becco io ci metto questo coppitello di carta… Pare niente, questo coppitello, ma ci ha la sua funzione… E già, perché il fumo denso del primo caffè che scorre, che poi è il più carico, non si disperde. Come pure, professo’, prima di colare l’acqua, che bisogna farla bollire per tre o quattro minuti, per lo meno, prima di colarla, vi dicevo, nella parte interna della capsula bucherellata, bisogna cospargervi mezzo cucchiaino di polvere appena macinata. Un piccolo segreto! In modo che, nel momento della colata, l’acqua, in pieno bollore, già si aromatizza per conto suo. Professo’, voi pure vi divertite qualche volta, perché, spesso, vi vedo fuori al vostro balcone a fare la stessa funzione. E io pure. Anzi, siccome, come vi ho detto, mia moglie non collabora, me lo tosto da me. Pure voi, professo’?… E fate bene… Perché, quella, poi, è la cosa più difficile: indovinare il punto giusto di cottura, il colore… A manto di monaco… Color manto di monaco. È una grande soddisfazione, ed evito pure di prendermi collera, perché se, per una dannata combinazione, per una mossa sbagliata, sapete… ve scappa ‘a mano ‘o piezz’ ‘e coppa, s’aunisce a chello ‘e sotto, se mmesca posa e ccafè… insomma, viene una zoza… siccome l’ho fatto con le mie mani e nun m’ ‘a pozzo piglia’ cu’ nisciuno, mi convinco che è buono e me lo bevo lo stesso. Professo’, è passato. (Assaggia il caffè) Caspita, chesto è ccafè… È ciucculata. Vedete quanto poco ci vuole per rendere felice un uomo: una tazzina di caffè presa tranquillamente qui, fuori… con un simpatico dirimpettaio…».

  3. Mery Carol ha detto:

    Un sorriso. Niente di più.

  4. Ilaria Levreri ha detto:

    Ottima idea cuocere le cimette col soffritto! Io, da analfabeta culinaria qual sono, le ho sempre ridotte in poltiglia. Ai cavatelli associo ricordi bellissimi.Una sorta di madeleine proustiana…quindi,grazie per” la dritta”!

    • Antonio Martino ha detto:

      Non so nulla dei cavatelli liguri e non immaginavo che ce ne fossero. Non sapendone nulla, con la mia scarsa fantasia devo immaginarmeli proustianamente inzuppati nel te!

  5. Antonio ha detto:

    Bellissimi e teneri ricordi.Brevi note:a due mani si facevano i frizzull , mentre ricordo una pasta lavorata da mia zia di Tolve che chiamava “l manat’ .si realizzavano partendo da un cerchio di pasta dallo spessore di un centimetro circa e stringendolo con le dita e facendolo ruotare rapidamente diventava un filo di pasta lungo dallo spessore di di tre millimetri. Ovviamente piatto da condire con un buon ragù domenicale(capretto o maiale) e tanto pecorino.(mai parmigiano) e….peperoncino fresco. Una informazione: incuriosito dal dizionario di Lancerano, dove è reperibile ????? Grazie ,e buon pranzo domenicale

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