Nel centenario della nascita: recupero della storia di Aldo MORO dalla storia della sua tragica fine
Aldo Moro nacque il 23 settembre 1916. Io, moroteo nei lontanissimi anni delle mie scelte politiche, ho ricordato la ricorrenza leggendo il recentissimo libro di Guido Formigoni, professore ordinario di storia contemporanea all’Università IULM, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, il Mulino, Bologna, pagg. 486, € 28.
Una interessante presentazione del libro – che appresso riproduco – è stata pubblicata sul supplemento domenicale de Il sole 24 Ore del 13 novembre da Mauro Campus dell’Università di Firenze. L’articolo ha, secondo me, un titolo parziale, Il Moro “americano”, che rischia di ridurre la visione dello statista pugliese alla vicenda del rapporto con l’americano Henry Kissinger; ma recupera il valore del libro e della vicenda umana e politica di Aldo Moro quando, nell’incipt dell’articolo scrive che il libro di Formigoni è un recupero della storia di Aldo Moro dalla storia della sua tragica fine.
Il Moro «americano»
La visione dello statista
Mauro Campus
Esistono molte ragioni per considerare questo il momento opportuno per recuperare la storia di Aldo Moro dalla storia della sua tragica fine. Per anni la crudeltà dell’assassinio di cui Moro fu vittima ha velato l’orizzonte interpretativo che merita un intellettuale-politico capace di prevedere la trasformazione italiana. Farlo oggi, a cent’anni dalla nascita, consente un ragionamento disteso, che trova il suo spazio nella limpida biografia che gli dedica Guido Formigoni.
Cimentarsi in un lavoro che affronti l’enigmatica correlazione tra Moro e gli altri impone di misurarsi con gli elementi fondamentali del sistema politico della prima Repubblica, e col modo peculiare che l’Italia attuò nella fase della sua piena reintegrazione nel sistema internazionale. Questa impresa esige la spiegazione dei luoghi comuni dell’eterna adolescenza italiana e consente di isolare la tragica fine di Moro dalla sua vicenda biografica. Formigoni ricostruisce la sensibilità e l’azione del leader democristiano senza mai inclinare verso la retorica o indulgere agli stereotipi transitati dalla cronaca alla storiografia: la sua malinconica indecifrabilità, la proverbiale compostezza, la nota discrezione. Il libro non partecipa programmaticamente alla costruzione monumentale del padre della Repubblica e, anzi, affronta con serenità critica un evento che ha segnato in profondità la vita nazionale e ha trasfigurato Moro da accorto demiurgo in martire della democrazia. Ciò permette di riconoscere distintamente il profilo del protagonista della vita italiana fra il 1959 e il 1978: sette anni presidente del Consiglio; cinque anni ministro degli Esteri; quattro anni segretario della Dc, eppure – secondo Pasolini – «il meno implicato di tutti». Primo attore anche quando le fortune politiche non apparivano coincidenti con questa definizione, uomo apparentemente duttile ma irremovibile, capace di far filtrare le domande della società presso il suo partito, Moro elaborò le premesse di una convergenza tra le fragili linee di faglia su cui l’Italia si è unita ed è cresciuta, avversando coloro che – all’opposto – sulla divisione delle faglie prosperavano: sono stati pochi gli uomini politici italiani capaci di collegare strategia e tattica, dimensione interna e internazionale, guidando lo sviluppo del sistema politico. Egli non fu mai statico per indole nella difesa di una linea poiché consapevole che l’attuazione di un disegno politico richiede la capacità di renderlo funzionale al raggiungimento di un obiettivo. Moro apparteneva alla piccola borghesia pugliese, e la sua formazione si compì fra gli studi di diritto penale (poi suo insegnamento universitario) nella giovane facoltà di Giurisprudenza di Bari, e la Fuci, di cui fu due volte presidente. A trent’anni fu eletto all’Assemblea costituente e, l’anno successivo, De Gasperi lo chiamò a far parte del governo come sottosegretario agli Esteri di Carlo Sforza, e già in quella carica ebbe occasione di contemperare le sue idealità (fu dossettiano fin dall’inizio) con la ragion di Stato. Solo nel 1955 – dopo essere stato presidente del gruppo parlamentare – tornò al governo, come ministro della Giustizia prima e, dal 1958, come ministro della Pubblica istruzione. Rimase in questa carica fino alla nomina a segretario della Dc (febbraio del 1959), salvo tornare al governo come Presidente di quel primo centro-sinistra da lui ispirato, e varato nel dicembre 1963. +
Diversamente da molti suoi colleghi di partito, Moro aveva una spiccata conoscenza dei caratteri del sistema internazionale bipolare: in un regime democratico condizionato da vincoli d’interdipendenza formale, il sistema politico non poteva ricostruirsi – se non in modo precario – sulla base di un consenso ampio. I “vincoli esterni” che avevano interrotto nel 1947 la collaborazione tra Pci e Dc si distillavano in un sistema “incompiuto” che impediva l’alternanza alla guida del governo. Della consapevolezza degli obblighi internazionali del Paese da parte di Moro, Formigoni dà una lettura informata dalla quale si ricava non la remissiva naturalezza italiana rispetto alle interferenze statunitensi, bensì l’autonomia dello statista democristiano nel determinare un progetto che – senza ridiscutere appartenenze – rispondesse alle domande poste dalla partecipazione sempre più intensa di soggetti numerosi e diversi alle relazioni di mercato, e dalle conseguenze di una contrazione economica che allora pareva ingovernabile.
Negli anni Settanta i rapporti fra Moro e Washington, tradizionalmente oggetto di un diluvio di congetture e d’intollerabili banalizzazioni, sono qui efficacemente riordinati e dialogano con le fumisterie delle correnti democristiane, che appaiono nelle loro contraddittorie alchimie, negli spregiudicati opportunismi. Lo spazio che il pragmatismo kissingeriano concedeva alla complessità di Moro era notoriamente stretto: anche solo l’accostamento fisico fra i due dava l’impressione di un incontro tra abitanti di mondi diversi. Tuttavia al netto della reciproca diffidenza, e della contrarietà di Kissinger verso ogni slittamento a sinistra, Moro era per gli Stati Uniti un interlocutore imprescindibile poiché (giustamente) considerato l’unico in grado di ricucire la tela logora della politica italiana e riannodarla alla strategia statunitense. Ciò che più nettamente emerge da un lavoro capace di congiungere l’analisi degli angosciosi stalli della politica nazionale con l’evoluzione del sistema internazionale è la ponderazione degli elementi in gioco che caratterizzava la visione di Moro. Riconoscendo le difficoltà sistemiche della democrazia italiana, egli individuava nella legittimazione reciproca delle forze politiche l’antidoto per irrobustire gli istituti di una democrazia bloccata. In questa logica si inquadrano il dialogo con Berlinguer e, quindi, l’ipotesi di stabilizzazione democratica della «solidarietà nazionale», non disgiunta dall’ambizione a rafforzare i poteri del governo in una misura che andasse insieme (non contro) al rafforzamento del parlamento. Prima che la politica diventasse un euforico mestiere lucrativo, Moro lavorò a un progetto complesso che solo un’irritante semplificazione può rubricare a indecifrabile. mauro.campus@unifi.it,
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“Americano” o no, Moro ha dato all’Italia dignità e valori mai prima tanto apprezzabili e condivisi.
Neanche De Gasperi c’era riuscito!
La sua morte e la strage degli uomini della scorta sono state per ognuno di noi una sciagura e una perdita personale irreparabili.
Troppi interrogativi senza risposte!
Le faglie hanno alimentato faglie e
di tutto paghiamo ancora le conseguenze.
Mery Carol
Grazie! Il Moro “americano” è un titolo che non ho capito e, comunque, non ha senso.