La crisi del sistema politico, dovuta a una serie numerosa e complessa di cause, è finita col diventare la crisi della Costituzione. Si rimandava a una mitica Grande Riforma (lo disse Craxi, ma tutti hanno cercato rifugi0 in questo mito) la figura dietro cui nascondere le inefficienze e le deficienze del sistema politico.
    La Costituzione prevede essa stessa, col famoso articolo 138, il modo della sua revisione. Si immaginava che il legislatore ordinario futuro avrebbe dovuto continuare, con spirito di lealtà costituzionale, la grande opera del Costituente mediante l’approvazione di leggi di revisione costituzionale e di leggi costituzionali. Le leggi di revisione costituzionale servono a sostituire o a modificare, con un oggetto determinato ed omogeneo, singole disposizioni della Costituzione; le leggi costituzionali servono ad integrare, con leggi che hanno pari forza e valore delle norme costituzionali, ma estranee al testo della Costituzione e subordinate ai principi fondamentali di questa, la grande opera del Costituente.
     Ma né con le leggi di revisione costituzionale né, meno che mai, con le leggi costituzionali, si sarebbe potuta varare una nuova Costituzione. Invece da oltre trent’anni, in vari modi e forme e strategie, è quello che si sta tentando di fare. Sono state messe in campo iniziative per la riforma della Costituzione con finalità liquidatorie, esclusivamente per motivi di lotta politica. Chi liquida senza rispetto, chi, liquidando, un certo rispetto lo esprime: ma, per un  verso e per un altro, hanno soffocato lo spirito iniziale della Costituzione nata ed ispirata – come e più di pochissime altre – da un grande fatto globale: i sei anni della seconda guerra mondiale.
         Questo fatto emergente della storia del XX secolo di tutto il Mondo – sto parafrasando Dossetti – va considerato, rispetto alla Costituzione, in tutte le sue componenti oggettive e al di là di ogni contrapposizione di soggetti, di parti, di schieramenti, come un evento enorme che nessun uomo che oggi vive o anche solo nasca oggi, può o potrà accantonare o potrà attenuarne le dimensioni, qualunque idea se ne faccia e con qualunque animo lo scruti. E invece è accaduto e sta accadendo.
         Nel dopoguerra, l’acuirsi delle ideologie appena ritrovate e l’asprezza dei contrasti politici tra i partiti appena rinati, e lo stesso nuovo fervore orgoglioso determinato dalla coscienza resistenziale non potevano non inquadrarsi, in un certo modo, in più vasti orizzonti, al di là di quello puramente paesano e non poteva non inserirsi anche in una nuova realtà storica globale su scala mondiale.
         Insomma, voglio dire – e soprattutto voleva dire Dossetti con spirito di verità- voglio dire, ripeto, che nel 1946 certi eventi di proporzioni immani erano ancora troppo presenti alla coscienza esperienziale per non vincere, almeno in sensibile misura, sulle concezioni di parte e le esplicitazioni, anche quelle cruenti, delle ideologie contrapposte e per non spingere in qualche modo tutti a cercare, in fondo, al di là di ogni interesse e strategia particolare, un consenso comune, moderato ed equo.
         Perciò si può ben dire – continuando sempre a percorrere il pensiero di Dossetti – che la Costituzione italiana del 1948 è nata da questo crogiolo ardente e universale, più che dalle stesse vicende italiane del fascismo e del postfascismo e che essa, più che dal confronto-scontro di tre ideologie datate, porta l’impronta di uno spirito universale e in un certo modo transtemporale.
         Essa fu il frutto di un larghissimo, solidale consenso, forte del 90 % dei componenti dell’Assemblea Costituente (per cui è davvero ridicolo parlare di compromesso catto-comunista). Non solo emblematicamente, ma effettivamente, le tre firme apposte alla sua promulgazione stanno a significare che la Costituzione nasce dalla coscienza unitaria del Paese. Di qui il carattere della nostra Costituzione, che è contrassegnata da principi fondamentali, assolutamente immodificabili.
         Ciò non comporta che la Costituzione sia immodificabile e bisogna anche superare la vulgata comune secondo cui si può modificare solo la seconda parte. La Vulgata è sbagliata per due motivi: 1) perché, modificando la seconda parte, si può incidere, restringendoli o annullandoli, sui principi fondamentali e immodificabili della prima parte, 2) perché, ai fini di una buona riforma della parte seconda, si potrebbe presentare la necessità di intervenire anche sulla parte prima.
         Eppure fu subito presente a una parte non piccola della stessa classe politica che la Costituzione era particolarmente carente nella parte che concerne le istituzioni governative. Il Costituente in questo aveva dimostrato di temere il passato della dittatura fascista, di temere che vi ci si potesse tornare in una qualche forma e aveva conseguentemente delineato istituzioni governative e sistemi decisionali deboli, che in effetti si constatò subito che non potevano funzionare.
          L’evoluzione della situazione politica italiana, con la rottura tra i partiti antifascisti, già consumatasi durante i lavori della Costituente nel maggio del 1947, e con l’inasprirsi della situazione internazionale, che precipitava nella drammatica tensione del mondo diviso in due blocchi e della guerra fredda, influirono anche sulle procedure d’attuazione della Costituzione. In particolare tali condizioni influirono ritardando la creazione delle Regioni a statuto ordinario, la formazione della Corte costituzionale, l’adozione della legge sul Consiglio Superiore della Magistratura e in genere l’adeguamento della precedente legislazione ai principi della nuova Costituzione, determinando, come spesso si è detto e scritto, una sorta di “democrazia bloccata”.
         D’altra parte, la dialettica che non si realizzava a livello parlamentare, data questa situazione di “democrazia bloccata”, si riproduceva nei partiti che partecipavano alla formazione del governo, sempre più frammentati in correnti, veri partiti nei partiti, con una loro organizzazione, una loro stampa e crescenti pretese di partecipazione al potere, a livello di governo e di “sottogoverno”.
         Le forti conflittualità e i contrasti finivano con l’incidere sempre più sulla vita stessa delle istituzioni con il moltiplicarsi di imboscate parlamentari, che rendevano incerto il quadro politico e precaria la stessa vita degli organi costituzionali.
         Tutto ciò ha contribuito progressivamente a screditare le istituzioni pubbliche e a creare una miscela esplosiva il cui detonatore sarebbe stato fornito dalle inchieste giudiziarie, avviate tra 1992 e il 1993, a causa di gravi fenomeni di corruzione, di concussione e di illecito finanziamento ai partiti.
         Quando questo detonatore esplose tutto fu in discussione.
         Il nuovo quadro politico che si costituì dopo questi gravissimi e drammatici avvenimenti ha cambiato radicalmente scenari consolidati da quasi mezzo secolo, ha sconvolto un po’ tutto e ha investito e investe, inevitabilmente, anche le strutture costituzionali dello Stato.
         Dalla forma di stato alla forma di governo, dal sistema elettorale all’organizzazione parlamentare, e via dicendo, tutto viene messo in discussione, attribuendosi all’assetto istituzionale molta più responsabilità di quanto effettivamente ne abbia e ne abbia avuta nella decadenza della vita politica.
         Questa attribuzione di un surplus di responsabilità, che è effettivamente notevole, è  molto pericoloso, perché trasferisce problemi etici, di comportamenti politici, sul piano giuridico-costituzionale. Si rischia di innestare circoli viziosi che possono rivelarsi a loro volta esplosivi.
       I vizi di comportamento, le inefficienze, le incapacità del sistema politico potrebbero essere scaricati (e sono stati scaricati) sull’ordinamento costituzionale. Si potrebbe dire (e viene detto) che le cose vanno male, perché le riforme non sono state fatte come dovevano essere fatte. Si continueranno a riproporre modelli di ingegneria costituzionale, a mobilitare i cittadini, a invocare ciascuna parte o ciascuna fazione la sua riforma.
         Non ho il minimo dubbio che occorra un’ampia riforma della Costituzione.  Ma nemmeno ho dubbi che fare della Costituzione il capro espiatorio dei guai veri, seri, drammatici e gravissimi, causati dalla crisi e dall’inefficienza di un sistema politico imploso è stato ed è il percorso giustificazionista più facile e semplice. Incolpare la Costituzione di tutti i mali e indicare nella sua revisione (revisione che può essere vista da ogni parte politica dall’angolo visuale del proprio interesse particolare) finisce per apparire la via più semplice per ristabilire la regolarità costituzionale.
         La campagna elettorale del referendum costituzionale è stata giocata su questi due mantra: 1) O ora o mai più. Gli altri non sono stati capaci di attuare il cambiamento (parola magica), noi ce l’abbiamo fatta. Sorreggeteci! 2) Questa riforma è sbagliata, serve solo a mettere un uomo solo al comando. Bocciatela. Il cambiamento lo faremo noi.
       Il gioco non è nuovo. Lo vedo giocare da oltre trent’anni, almeno a datare dall’istituzione nel 1983 della Commissione Bozzi e, per ragioni di lavoro e interessi culturali, ho indagato sui suoi reconditi meccanismi. Ho sempre detto NO.
     Basta! Sono un elettore del PD, che vorrei avesse avuto un altro segretario, e ho riserve su tutti i punti della oramai ex-legge. Ma ho votato SI, sperando che il gioco per qualche tempo si interrompesse.
       Ma il gioco continua. È la democrazia, bellezza!

 

 

2 Responses to Ecco perché ho votato SI al referendum costituzionale

  1. giuseppe de rinaldis ha detto:

    Potessi ti assegnerei un premio. Bravo e grazie di farci leggere queste pillole di buon (saggio) senso.

    I saluti e gli auguri più cari.

    Giuseppe.

    • Antonio Martino ha detto:

      Caro Peppino, TRa i premi che hai già meritato vorrei ora ribadire quello alla generosa amicizia. Grazie.
      Antonio

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