Sui banchi dei fruttivendoli in questo inizio di freddissimo inverno abbonda il melograno: frutto d’autunno, conclude la sua stagione da protagonista delle decorazioni natalizie.
        Dopo il sonno invernale esploderà nello splendore dei suoi fiori coloratissimi, simbolo di vita e di morte e di fecondità. La vita non può avere tanta energia e tanto splendore se non ci fosse il suo opposto, la morte; nei banchetti nuziali si spacca il melograno chè i chicchi sparsi dicono quanti figli allieteranno la nuova unione. La fecondità, la vita e la morte sono i simboli del melograno sin dalla più remota antichità, raccontati nei miti.
       Niobe, figlia di Tantalo, regina di Lidia, bella, orgogliosa, fiera, dai lunghi capelli fluenti, sposò Anfiao e generò sei figli maschi e sei figlie femmine secondo Omero, sette e sette secondo altri racconti, dieci e dieci secondo i tragici. Niobe se ne vantava e arrivò a prendere in giro Latona che, con Zeus, aveva procreato soltanto due figli: Apollo e Artemide. L’offesa fu ripagata con il sangue: Latona ordinò ai figli di uccidere l’intera   prole di Niobe a colpi di frecce, Apollo i sei maschi, Artemide le sei femmine.
I miti raccontano diverse versioni del dolore infinito di Niobe. Secondo Omero i figli e le figlie di Niobe giacquero nove giorni nel sangue, non c’era nessuno per   seppellirli. Niobe non può dar loro sepoltura, straziata da un dolore inumano. Nessuno c’è intorno che possa aiutarla, resi tutti pietra   da Zeus. Le lacrime di Niobe sono lacrime di morte, che dalla   morte vengono e alla morte ritornano.
       Gli dèi, impietositi, si occupano finalmente dei dodici corpi senza vita. Allora le lacrime di Niobe, colpevole di tracotanza, si trasformano, diventano lacrime vitali. Niobe viene trasformata in pietra da Zeus e le sue lacrime diventano fiume lungo cui giocano le ninfe. La pietra in cui è trasformata Niobe è una pietra eterna, un’eternità di vita che vince la morte, l’eternità dello scorrere dell’acqua fluviale.
       Matteo Nucci, giornalista e studioso del pensiero antico, nel suo libro Le lacrime degli eroi, pag. 168 s. che da qui in poi parafraso, ci dice che la roccia in cui la regina Niobe venne trasformata esiste ancora e ci indica il percorso per giungervi.  Siamo in Turchia. Fuori dalla vecchia Smirne, tra le valli funestate dalla terribile guerra greco-turca degli anni Venti del Novecento, entrare a Manisa, la vecchia Magnesia, che nel 1922 fu quasi completamente distrutta durante la ritirata greca, e seguire le indicazioni che ci portano verso il centro della cittadina e di qui salire lungo il fiume Çaibasi, oltre il ponte rosso, verso le pendici del Sipilo, su cui si arroccano le ultime abitazioni, semmai affidandosi alle indicazioni che in turco suonano «Aglaian Kaya» ossia «roccia piangente». Niobe è lí.
       Nucci rende quindi grazie ai turchi per la maniera in cui hanno deciso di onorare il luogo. Se ne sarebbe potuto fare un orribile ricettacolo di turismo da due soldi capace, quello sí, di uccidere Niobe. E invece la roccia ha mantenuto tutta la sua naturale bellezza ed è talmente viva che chiunque può salire sulle pendici  della collina e semmai giocare sui capelli fluenti che scivolano  lungo il capo della donna che da secoli e secoli continua a piangere. Il prato attorno è curato ma senza eccessi e senza divieti. Da una parte è stato costruito un piccolo anfiteatro dove si  tengono concerti e spettacoli nel fresco dell’aria che scende dal  monte Sipilo, oggi Spil.
       Il canto del muezzin taglia l’aria cinque  volte al giorno e sembra un lamento perfettamente adeguato al  profilo tragico della madre che non potrà mai accettare la perdita dell’intera prole. Si potrebbe rimanere per ore, lí, a contemplare la roccia piangente e a sentire scorrere le acque del fiume Çaibasi lí accanto. E alla fine chiunque noterebbe qualcosa di  straordinario, forse casuale, ma mai cosí perfettamente adeguato alla roccia in cui Zeus trasformò la regina di Lidia. Nel  canto assordante delle cicale che hanno letteralmente invaso la  macchia di pini che sale su verso la montagna, a un tratto, ciò  che impressiona è l’unica pianta che vive sotto alla roccia: un  melograno.

Altri miti ricordano il melograno. Rabatana si riserva di riferire

 

3 Responses to Il melograno

  1. Gilberto Marselli ha detto:

    Sempre più meravigliato e grato a chi, come Antonio Martino, ha saputo consentire alla Rabatana di introdurci ai segreti dei diversi miti, proprio noi condannati a vivere in un mondo sempre più tecnologizzato, impersonale, essenzialmente sordo alla vera vita. Fa bene, ogni tanto, ritornare nella realtà sia pure con questi arditi voli nella mitologia, spesso troppo ignorata o dimenticata….

    • Antonio Martino ha detto:

      Caro Gilberto, Un ragazzo immigrato dal Bangladesh ha aperto un negozio ortofrutticolo a dieci metri da casa mia, in servizio tutti i giorni, compresa la domenica, fino a tarda sera. Vende anche vino e altri prodotti, tutto a buon prezzo. Una vera benedizione comperare ciò che ti serve, quando ti serve, e non doversi più approvvigionare di pessima frutta e verdura al lontano più vicino supermercato, facendo provvista e, quindi caricandoti di pesanti pacchi. Su un banco il bangladese ha allineato bellissimi melograni, di colore giallo-oro tendente al rosso, che sicuramente ha lucidato strofinandoli con un panno di lana. Ricordare alcuni miti (Niobe, Persefone) legati al melograno e a questo freddissimo inverno è stato spontaneo e immediato. Peccato non essermi ricordato in tempo che il pianto di Niobe lo racconta Achille a Priamo. Siamo alla conclusione dell’Iliade, XXIV canto. Priamo, protetto da Mercurio, che lo nasconde agli achei, si reca nel campo nemico con ricchissimi doni per chiedere ad Achille il riscatto della salma del figlio Ettorre. C’è il bellissimo dialogo tra Priamo e Achille e la consegna della salma di Ettore, dopo che il vecchio genitore e il guerriero acheo si sono saziati di lacrime e devono mangiare. Dopo il lutto, quando si sono versate tutte le lacrime, bisogna mangiare. Ecco l’origine del consolo. Achille convince Priamo a mangiare raccontandogli la tragedia di Niobe, che tuttavia, al decimo giorno, quando la pietà degli dei dette sepoltura ai dodici figli, “Stanca la madre del suo molto pianto / Non fu schiva di cibo”. Achille provvede al consolo …
      E noi pure, o divin vecchio, pensiamo

      Al nutrimento. Ritornato poscia

      Col figlio a Troia, il piangerai di nuovo,

      Chè molto è il pianto che ti resta ancora.

      Così detto, levossi frettoloso,

      E un’agnella sgozzò di bianco pelo.

      La scuoiaro i compagni, e acconciamente

      L’apprestâr minuzzandola con molta

      Perizia; e infissa negli spiedi, e quindi

      Ben rosolata la levâr dal foco.

      Da nitido canestro Automedonte

      Pose il pan su la mensa, ed il Pelíde

      Spartì le carni. La man porse ognuno

      Alle vivande apparecchiate, e spento

      Del cibarsi il desío …

  2. Angelo Colangelo ha detto:

    Non si può non concordare con l’amico (e Maestro) Gilberto Marselli, quando sottolinea l’importanza di un recupero dei miti, per ridare senso e valore all’umana esistena e alla civile convivenza, oggi più che mai insidiate dall’incapacità di pensare e di … sognare. Ammirevole, dunque, l’iniziativa di Antonio Martino di riproporci i frutti deliziosi dell’attività mitopoietica degli antichi Greci, che coltivarono, attraverso il mito, il gusto dello stupore e il desiderio di interrogarsi e di meditare sul senso profondo della nostra vita individuale e collettiva.

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