Un acino di melograno: morire per rinascere
IL MITO DI DEMETRA E PERSEFONE
Il melograno unisce e divide il mito di Niobe e il mito di Demetra e Persefone. Demetra, Madre Terra, figlia di Crono e di Rea, madre di Persefone, avuta dal fratello Zeus, è la dea che presiede all’agricoltura, favorisce e vigila la tranquilla operosità degli uomini che attendono alla tranquilla cura dei campi. La fonte letteraria più antica del mito è l’Inno omerico a Demetra.
Gli inni omerici sono una raccolta di componimenti poetici greci, attribuiti dalla tradizione a Omero, che cantano le gesta degli dei, ai quali sono intitolati Ne sono giunti per intero 33. Per lo più sono brevi; sono invece veri poemetti di qualche centinaio di versi: gli Inni a Demetra, ad Apollo, ad Ermete, ad Afrodite e a Pan. L’Inno a Demetra è importante anche perché spiega il rituale dei Misteri eleusini, praticati proprio dalla dea nei pressi della città di Eleusi.
L’inno incomincia con la lunga descrizione dei fiori, iris, giacinti e narcisi, che Proserpina raccoglieva su un morbido prato, mentre giocava assieme alle figlie di Oceano. Nell’attimo in cui Proserpina si allontana dalle compagne, all’improvviso la terra si aprì e dal profondo degli abissi apparve Ade, dio dell’oltretomba e signore dei morti, che la rapiva col consenso di Zeus, perché da tempo innamorato di lei. Demetra, accortasi che Persefone era scomparsa, si trova a vagare per nove giorni in lacrime e il poeta canta: «chiusa nel suo dolore, non si nutriva né di ambrosia / né di dolce nettare, né immergeva le membra nell’acqua››. Il decimo giorno è Elios, il Sole, a rivelarle la verità e a consiliare: «Ma tu, dea, arresta il pianto copioso: non conviene / che tu nutra una collera così insaziabile».
Demetra, tradita dalla sua stessa famiglia di olimpici, abbandonò l’Olimpo e per vendicarsi, decise che la terra non avrebbe più dato frutti ai mortali, così la razza umana si sarebbe estinta nella carestia. In questo modo gli dei non avrebbero più potuto ricevere i sacrifici votivi degli uomini di cui erano tanto orgogliosi. La dea si mise quindi a vagare per il mondo per cercare di soffocare la sua disperazione, sorda ai lamenti degli dei e dei mortali che già provavano i morsi della carestia. Il pellegrinaggio la portò, sotto le sembianze di una vecchia, a Eleusi, in Attica, dove regnava il re Celeo con la sua sposa Metanira. Demetra fu accolta benevolmente nella loro casa e divenne la nutrice del figlio del re, Demofonte. Col tempo Demetra si affezionò al fanciullo, che faceva crescere come un dio, nutrendolo, all’insaputa dei genitori, con la divina ambrosia, il nettare degli dei. Attraverso Demofonte la dea riusciva in questo modo a saziare il suo istinto materno, soffocando il dolore per la perduta figlia. Decise anche di donare a Demofonte l’immortalità e di renderlo pertanto simile a un dio ma, mentre era intenta a compiere i riti necessari, fu scoperta da Metanira, la madre di Demofonte. A quel punto Demetra, abbandonò le vesti di vecchia e si manifestò in tutta la sua divinità facendo risplendere la reggia della sua luce divina. Delusa dai mortali che non avevano gradito il dono che voleva fare a Demofonte, si rifugiò sulla sommità del monte Callicoro dove gli stessi Eleusini gli avevano nel frattempo edificato un tempio.
Il dolore per la scomparsa della figlia, adesso che non c’era più Demofonte a distrarla, ricominciò a farsi sentire più forte che mai e a nulla valevano le suppliche dei mortali che nel frattempo venivano decimanti dalla carestia. Alla fine Zeus, costretto a cedere alle suppliche dei mortali e degli stessi dei, inviò Ermes, il messaggero degli dei, nell’oltretomba da Ade, per ordinargli di rendere Persefone alla madre. Ade, che aveva in serbo un agguato, non recriminò alla decisione di Zeus, ma, anzi, esortò Persefone a fare ritorno dalla madre. Prima che la sua sposa salisse sul cocchio di Ermes, le fece mangiare un seme di melograno, compiendo in questo modo il sortilegio che le avrebbe impedito di rimanere per sempre lontana dagli Inferi. Chi mangia il cibo dell’Ade è costretto a tornare. Il destino di Persefone diventa questo: passare sei mesi (secondo altre versioni due terzi) dell’anno con la madre e sei mesi (un terzo) con suo marito Ade, nell’oltretomba. Simbolo di fecondità e dunque sacro ad Afrodite, il melograno che fa nascere è anche il melograno che fa morire, perché solo morendo è possibile rinascere, come intendevano bene gli iniziati ai culti misterici eleusini. Per questo noi vediamo il melograno spesso raffigurato con Persefone. I Greci lo piantavano sulle tombe degli eroi. Cresce ancora sotto la roccia di Niobe. Nello stesso istante in cui Demetra rivide la figlia, la terrà ritornò fertile e il mondo riprese a godere dei suoi doni.
Ma, avendo Persefone mangiato il seme di melograno nel regno dei morti, era costretta a farvi ritorno, ogni anno, per un lungo periodo. Fu così allora che Demetra decretò che nei sei mesi che Persefone fosse stata nel regno dei morti, nel mondo sarebbe calato il freddo e la natura si sarebbe addormentata, dando origine all’autunno e all’inverno, mentre nei restanti sei mesi la terra sarebbe rifiorita, dando origine alla primavera e all’estate.
Questo fu l’inizio dei riti eleusini, con le Grandi e le Piccole Feste. Le Grandi Feste, le quali, seguendo, nel mese di settembre, alle piccole Eleusine, che si tenevano a febbraio, ricordavano il ritorno di Proserpina agli Inferi, dopo il semestre di soggiorno terreno presso la madre, e rispettavano così, simbolicamente, l’eterna vicenda della natura che si immerge nel letargo invernale, per risvegliarsi a nuova vita all’avvicinarsi della primavera.
Il pianto di Niobe assomiglia al sorriso di Demetra. Pianto e sorriso si intrecciano. Morire è rinascere. Non c’è dubbio che il rito di Demetra e Persefone racconta la morte e la rinascita, la necessità di morire per rinascere, la possibilità quindi di vincere la morte. Si tratta di una possibilità che nel ciclo delle stagioni non è certo così lontana dal vero come sembra per quel che riguarda l’essere umano mortale. Eppure l’iniziazione misterica assicurava proprio questo: la vita oltre la morte. Qualcosa cioè che nella prospettiva di Niobe era semplicemente impensabile. Per Niobe la morte dei figli è definitiva e non c’è che un dolore senza fine e semmai il desiderio insaziabile di lacrime. Il ritorno alla vita per Niobe sta nel cambiamento di segno delle sue lacrime, da lacrime mortifere a lacrime vitali, un passaggio netto che il mito racconta nel suo diventare eterna fonte di vita. Il melograno di Niobe, dunque, ha soltanto il carattere della fecondità terrena. Il melograno di Demetra invece è il melograno di Persefone. Non appartiene alla dea madre e semmai le è nemico, perché costringe la figlia a tornare nell’Oltretomba, ma in effetti è alleato della madre perché porta lontano la figlia soltanto per poi rendergliela. Bisogna morire per rivivere. Demetra sorride e ride, e non muta il segno delle proprie lacrime. E il senso dei misteri eleusini.
Dario del Corno, nell’ultimo suo articolo pubblicato sul supplemento domenicale del Sole 24 Ore del 31 gennaio 2010, racconta che, all’opposto della maniera in cui i Turchi hanno deciso di onorare il luogo della Pietra di Niobe, uno dei territori attualmente più violentati all’insegna del guadagno e della tecnologia è la piana di Eleusi che, quando gli dèi parlavano con i mortali, fu ridente sobborgo di Atene, e oggi è pervasa da fumi e fetori di attività petrolchimiche. Di quel remotissimo tempo serba memoria una poesia gravata di anni e intrisa di freschi profumi di erbe. Qui splendevano rose e viole, qui sbucò dalla terra il primo narciso, donando all’aura il più gentile degli aromi. Ma qui, anche, si perpetrò l’archetipo di tutti gli stupri.
***
Ho rivisto il mito di Niobe e ho unito i due miti in un solo racconto intitolato I MITI DEL MELOGRANO e di seguito pubblicato in formato pdf
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La rievocazione del mito di Demetra e Persefone, legato al valore simbolico del melograno, è affascinante come tutti i miti greci, la cui conoscenza andrebbe incoraggiata già nella scuola primaria e proseguita negli anni successivi. Di là dalla loro incantevole bellezza, essi, infatti, aiutano a meditare sui grandi temi esistenziali: la virtù e il vizio, il bene e il male, la vita e la morte. La riproposizione che ne fa con grande competenza Antonio Martino, ci conferma quanto sia stato nel vero Salustio (IV secolo d.C.), quando nel suo trattatello “Sugli dei e il mondo” scriveva: “Queste cose non avvennero mai, ma ci sono sempre”.
Al liceo ebbi un professore di latino e greco, un normalista coltissimo, che ci immerse nei miti e ci fece comprendere la loro costante attualità, anche se non avvennero mai. Di tanto in tanto Rabatana, blog tricaricese, si concede una distrazione e ne ricorda uno.
Grazie, Angelo e auguri di buon Natale e buon Anno.
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