Mario TRUFELLI, Dopo la morte del nonno
DOPO LA MORTE DEL NONNO
(da Prova d’addio – Paese giorno e notte)
Dopo la morte del nonno
hanno chiuso il balcone della casa
e la malvarosa tutta si è seccata.
Mio padre e mia madre non sanno ritrovarsi
Mia madre ha sempre intorno le comari
le portano a saggiare i primi frutti
e pare un’altra
col fazzoletto nero sulla testa.
Mio padre passa il giorno
tra la casa e la bottega dello Sturno
dove raccoglie ricci per il fuoco.
Mio padre è uno sciancato
e quando il suo bastone –
batte lento sulle scale
dice che ha passato all’osteria
un po’ della serata e pare strano
quando ride con la sua faccia brilla.
Poi segna l’aria con le mani
mi saluta
e il giorno appresso non ricorda nulla.
«Nel millenovecentocinquantatre il nonno morì. Era marzo. Lo accompagnai al cimitero in un chiaro mattino, c’era il sole sulle colline. Non piangevo, eravamo ancora vicini noi due e io mi sentivo il piccininno che andava a passeggio con lui lungo le strade assolate della campagna.
E lo lasciai lì, sulla via dritta della collina che porta al camposanto, mentre io me ne tornavo ancora una volta lungo la via traversa» (Mario Trufelli, Il piccininno, in Lo specchio del comò, Alfredo Guida Editore, 1990, p. 42 s.).
Morì serenamente all’alba di quel marzo millenovecentocinquantatre don Michele Valinotti, nonno di Mario Trufelli. Aveva ottantacinque anni.
Dopo il servizio in ferrovia, don Michele, fino all’ultimo giorno di vita, esercitò a Tricarico le funzioni di usciere di conciliazione e di ufficiale giudiziario. Mai un giorno di riposo. Grande lavoratore, raggiungeva a piedi qualsiasi località del vasto mandamento a notificare un atto per risparmiare fino all’ultima lira possibile. Quella mattina, Michele Molinari, allora studente in legge, che aveva anticipato l’esercizio della pratica forense in conciliazione, si recò da don Michele per chiedere la notifica di una citazione. Chiese al padre di Mario, Ciccio Trufelli, seduto mestamente allo scalone: – Don Michele? – e quello rispose indicando la scala con un cenno degli occhi. Molinari intese quel gesto come conferma che don Michele fosse ancora in casa e non era uscito prestissimo come il suo solito: salita la scala, entrò nell’appartamento, giacché la porta era aperta, riuscì a vincere rapidamente lo sconcerto che l’aveva preso, e fu il primo a portare le condoglianze, col fascicoletto della causa sotto il braccio.
Io non ho conosciuto nessuno dei miei nonni e nonne e ne ho sentita la mancanza, vivendo questa condizione quasi con un senso di colpa. Non mancai molto ad eleggere don Michele mio nonno. Non lo chiamavo don Michele, ma, per l’appunto, papanonno.
Quella mattina ero in piazza in attesa dell’autobus da Potenza, che avrebbe proseguito alle sei per Matera, dove dovevo recarmi. Mi raggiunse Mario, che mi informò della morte del nonno e mi incaricò di informare la sorella Michelina, insegnante di matematica a Matera.
Il rimpianto della perdita della casa, del nonno e del padre rappresenta per Mario dissolvenza d’identità antropologica, espressa in forme contrastanti. Sul padre, protagonista ricorrente in molte poesie del primo e ultimo periodo – e in questa stessa poesia – si legga questo appunto del 14 febbraio 1956: «Mio padre è vivo, lo vorrei morto per capire se vale qualcosa per me. Ci facciamo la guerra, l’ho voluta io e l’ho cominciata il giorno in cui lo vidi tornare a casa, con una gamba rotta e senza quattrini».
Il padre di Mario, io, nell’età dell’infanzia, lo chiamavo ingegnere, perché l’altro figlio, Antonio, mi diceva che il padre era ingegnere, direttore della teleferica delle Marche. In realtà Ciccio Trufelli nelle Marche era operaio boschivo, addetto a una teleferica che trasportava a valle i tronchi d’albero. Tornava a Tricarico una volta l’anno, in autunno, e lo vedevo spaccare con l’accetta le canne di legna comperata per il riscaldamento e la cucina della grande famiglia Valinotti – Trufelli, che disponeva di due case: in una vivevano tutti insieme e alcuni dormivano, l’altra serviva per il riposo notturno di altri componenti la famiglia.
Mario – e nessun altro – mi aveva mai detto che il padre non era ingegnere: tutti preferivano ridermi alle spalle vedendomi salutare il padre con deferenti inchini, perché lui era il solo ingegnere che avessi mai conosciuto.
Un incidente di lavoro lo azzoppò e tornò definitivamente a Tricarico, proprio quando la famiglia Valinotti-Trufelli dovette abbandonare una delle due case e occupare quella che era servita per il riposo notturno di alcuni.
Il padre di Mario, gravemente menomato, tornò definitivamente quando dovettero lasciare la casa : Ho fatto il nomade con te / nella miseria nostra giornaliera / perché la casa dove nacqui non è mia (Tu non mi hai dato nulla). Quindi muore l’amatissimo nonno, e la seconda strofa della poesia per il dopo la morte del nonno parla del padre. Mario e Antonio non perdonavano l’assenza del padre. Antonio trovò il suo modo di esprimersi, creandogli una incredibile identità professionale, che solo un credulone come me poteva accettare; Mario, semplicemente, non perdonava. Ma quando la morte lo allontana definitivamente, unisce il padre nel ricordo all’amatissimo nonno.
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Bello! Hai fatto riemergere volti , soprattutto il fratello Antonio, tanto simpatico a noi ragazzini, che pensavo dimenticati per sempre. Grazie!.
Grazie, caro Nunzio. Il tuo giudizio è uno sprone. Un abbraccio, Tonino