SAN MICHELE 1955

(Prova d’addio – Paese giorno e notte, p. 19)

Un gallo ha cantato più di venti volte

la mattina di San Michele

e i miei vecchi hanno acceso un lumicino

all’immagine del nonno.

Mia madre se n’è andata al Camposanto

per tutta la giornata

mio padre è stato visto solo

sui ferri della piazza.

L’8 maggio la Chiesa cattolica ricorda San Michele Arcangelo, oggetto di culto in vari Santuari e, nel Meridione,  nel Santuario di Monte Sant’Angelo in provincia di Foggia, che divenne presto il principale centro di culto dell’arcangelo dell’intero Occidente, modello tipologico per tutti gli altri.

Il Santuario di Monte Sant’Angelo, secondo tradizione, ha avuto origine nel 490,  anno della prima apparizione dell’arcangelo Michele sul Gargano a san Lorenzo Maiorano, venerato dalla chiesa come santo e patrono di Manfredonia. Nel corso dei secoli, milioni di pellegrini si sono recati in visita a questo luogo di culto così antico. Tra i pellegrini sovrani e numerosi papi, tra cui Celestino V e, ultimi, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Anche San Francesco d’Assisi si è recato in visita a san Michele Arcangelo, ma non sentendosi degno di entrare nella grotta, si fermò in preghiera e raccoglimento all’ingresso, baciando la terra e incidendo su una pietra il segno di croce in forma di “T” (Tau).

Sono passati due anni dalla morte di don Michele Valinotti, nonno di Mario Trufelli. La madre e il padre di Mario, Lucia Valinotti e Ciccio Trufelli, hanno acceso un lumicino all’immagine del nonno, la madre, è andata per tutta la giornata al cimitero e il padre, per tutta la giornata, è stato visto solo ai ferri della piazza. Così semplice e toccante il ricordo del nonno in questa breve poesia. In quella ricorrenza nel 1955 di San Michele il gallo cantò venti volte. Avesse, Mario, o non avesse avuta consapevolezza, il canto del gallo, che quella mattina si ripeté più  di venti volte, richiama una delle operette morali di Giacomo Leopardi: il cantico del gallo silvestre, dove, attraverso un falso (Leopardi finge di aver trovato un antichissimo manosccritto) viene illustrata una tesi assai cara all’autore: la morte è preferibile alla vita, e il sonno non è che un’anticipazione del futuro non essere. L’operetta inizia con la seguente introduzione: «Affermano alcuni maestri e scrittori ebrei, che tra il cielo e la terra, o vogliamo dire mezzo nell’uno e mezzo nell’altra, vive un certo gallo salvatico; il quale sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo. Questo gallo gigante, oltre a varie particolarità che di lui si possono leggere negli autori predetti, ha uso di ragione; o certo, come un pappagallo, è stato ammaestrato, non so da chi, a profferir parole a guisa degli uomini: perocché si è trovato in una cartapecora antica, scritto in lettera ebraica, e in lingua tra caldea, targumica, rabbinica, cabalistica e talmudica, un cantico intitolato, Scir detarnegòl bara letzafra, cioè Cantico mattutino del gallo silvestre: il quale, non senza fatica grande, né senza interrogare più d’un rabbino, cabalista, teologo, giurisconsulto e filosofo ebreo, sono venuto a capo d’intendere, e di ridurre in volgare come qui appresso si vede». Dopo di che il canto esorta l’umanità a svegliarsi di prima mattina e ad interrompere il periodo del sonno, seppur così piacevole. Infatti se il sonno fosse eterno, l’universo sarebbe più felice, seppur inutile. Poi chiede direttamente al sole se avesse mai visto, durante tutto il tempo in cui è sorto e tramontato, alcun uomo essere felice; se abbia mai visto la felicità e se si, dove si nasconde; se lui stesso sia felice o meno. Esorta ancora gli uomini a svegliarsi, visto che ancora non è concessa loro la morte, se non brevi intervalli simili ad essa, ovvero il sonno delle notti, che permette di rinfrancarsi e sopportare il dolore che è la vita. Allora forse il vero desiderio dell’uomo, vista l’assoluta mancanza di felicità, è la morte. Inoltre il gallo paragona la vita alla giornata, quindi la mattina alla giovinezza, che però è troppo breve, e la sera alla vecchiaia, che è il resto della vita, un appassire.

La mia famiglia, fin quando siamo vissuti a Palazzo San Gervasio, paese di origine, l’8 maggio di ogni anno partecipava al pellegrinaggio alla Madonna dell’Incoronata di Foggia e al Santuario di San Michele Arcangelo. Al ritorno mio padre si concedeva una pausa gastronomica a Manfredonia, mentre noi guardavamo il mare e le barche. Un pescatore, una dopo l’altra, sgusciava cozze, le raccoglieva su una valva, le irrorava di succo di limone e, man mano, le passava a mio padre, che le ingoiava. Non so se davvero gli piacessero i mitili crudi o se fosse preso dal rito della cruditè l’unica volta all’anno che per una mezz’ora vedevamo e ci lasciavamo prendere dalla meraviglia dell’immensità e dal profumo del mare. So che il mare non era inquinato. Facevamo la gita attesa tutto l’anno su una Balilla Tre marce a noleggio noi cinque di famiglia, con l’aggiunta, ogni anno, di un’ospite amica di mia madre, ogni anno diversa. L’ultimo nostro pellegrinaggio fu l’8 maggio del 1938. A settembre ci trasferimmo ad Accettura e di lì a Tricarico. Quel giorno, a Monte Sant’Angelo, per la prima volta, mangiai una banana.

One Response to Mario TRUFELLI, San Michele 1955

  1. Gilberto Marselli ha detto:

    Si apprendono sempre particolari affascinanti del tempo che fu e che, purtroppo, i più giovani non hanno avuto la fortuna di vivere. Ecco la funzione importante della memoria e, di conseguenza, di Rabatana……

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