Emilio Colombo. L’ultimo dei costituenti
Un libro postumo di Emilio Colombo
frutto di tre anni di lavoro
Con la freschezza dell’oralità
e la ricchezza della più alta competenza ed esperienza
il racconto della propria vita
e di settant’anni di storia d’Italia e d’Europa
con una visione sulle grandi questioni mondiali.
Una fonte preziosa
per lo studio
della storia e della politica del Novecento.
Oggi è l’11 aprile. L’11 aprile di 97 anni fa nasceva Emilio Colombo e molti anni dopo, lo stesso giorno, mia moglie. Coincidenza che non mi ha fatto saltare un solo compleanno del presidente, fino all’ultimo, il 93°: ogni anno, e ne sono stati tanti, gli telefonavo, gli facevo gli auguri e lui mi intratteneva in una breve conversazione; talvolta, negli ultimi anni, mi diceva: «grazie, ma non li contare gli anni.»
Il presidente compì 93 anni circa due mesi prima di mancare; qualche giorno prima o dopo era uscito, edito dal Mulino di Bologna, il suo libro Per l’Italia per l’Europa, conversazione con Arrigo Levi. Ne venni a conoscenza leggendo di primo mattino il Corriere della Sera, e gli telefonai immediatamente. Mi sembrò meravigliato, mi disse che non aveva ancora dato una scorsa ai giornali e si fece leggere l’articolo del giornale, dopo di che mi confidò che Arrigo Levi gli si era messo alle costole e l’aveva talmente assillato che non si era potuto rifiutare, sottoponendosi a una fatica che volentieri si sarebbe risparmiata. Non sembrava credibile. Sprigionava la sua solita energia, ed era stata notata quanta sorprendente energia avesse mostrata qualche settimana prima, il 15 marzo e seguenti, presiedendo l’apertura della XVII legislatura del senato.
Con sorpresa ho pertanto appreso qualche giorno fa, che lo scorso mese di marzo, a cura di Donato Verrastro ed Elena Vigilante, è stato pubblicato, presso l’editore Laterza, il libro Emilio Colombo, L’ultimo dei costituenti, pp. XXVI, 309, frutto di un intenso lavoro, che ha impegnato per tre anni circa lo stesso presidente. Non ho potuto fare a meno di chiedermi se la lamentela che egli mi confessò quattro anni fa all’uscita del primo volume non fosse stato un atto di civetteria; ma riflettendo e considerata la fatica spesa per la formazione di questo secondo volume, quando le sue energie, contro le apparenze, erano sul punto di esaurirsi, penso che realmente la conversazione con Arrigo Levi gli avesse richiesto uno sforzo insopportabile.
Questo secondo volume è una lunga testimonianza rilasciata negli ultimi anni della sua vita, dove sono percorsi, sul filo della memoria, sessant’anni di attività politica, dall’impegno in azione cattolica alle esperienze di giovanissimo costituente, di parlamentare democristiano, di sindaco, di sottosegretario all’agricoltura e foreste, di responsabile di ministeri cruciali (tra i quali agricoltura, commercio con l’estero, industria, tesoro, finanze, bilancio, affari esteri), fino alla presidenza del consiglio dei ministri e a quella del parlamento europeo; per non aggiungere gli ultimi dieci anni di senatore a vita.
La narrazione, che spazia dai grandi eventi della storia politica e istituzionale alle vicende di vita privata, è spesso arricchita da aneddoti poco noti. Il quadro che ne scaturisce è un interessante spaccato della «prima Repubblica», laddove vicende locali, nazionali e internazionali concorrono alla ricostruzione, attraverso il punto di vista di uno dei protagonisti, di un importante pezzo di storia d’Italia e d’Europa.
Il progetto del libro prese corpo nella primavera del 2009 nel corso di una conversazione a due tra il presidente e Antonio Colangelo, fondatore e amministratore del gruppo Geocart S.p.A. di Potenza. In oltre tre anni di lavoro furono realizzate quasi trenta ore di registrazioni audio visive, nelle quali Colombo ripercorse tappe e vicende della storia d’Italia e d’Europa, passando in rassegna donne e uomini che avevano fatto e vissuto quegli anni da protagonisti.
Le registrazioni furono organizzate in un documentario, che si può vedere su internet chiamando su un motore di ricerca il sito emilio colombo. memorie di un presidente.
Il testo originale racchiudeva la storia di una vita, raccontata con grande puntualità, la cui trascrizione ha richiesto una lunga, attenta e minuziosa operazione redazionale, con una limitatissima revisione del parlato e prestando particolare attenzione nel lasciare inalterato il lessico personale di Colombo. Il testo, al quale è stata aggiunta la punteggiatura, conserva la struttura tipica dell’oralità. L’organizzazione interna in paragrafi e capitoli (10) della narrazione di Colombo è opera dei curatori e segue prevalentemente il criterio cronologico, dalle origini: la famiglia e la formazione, agli ultimi impegni..
La testimonianza di Colombo, che resta centrale, è integrata con quelle di alcuni dei più importanti protagonisti del tempo, anche suoi avversari politici. Si avvicendano episodi e circostanze che vanno dalla storia personale (don Gerardo Messina e Luigi Mistrulli), alla storia italiana (Carlo Azeglio Ciampi, Maria Romana De Gasperi, Antonio Fazio, Arnaldo Forlani, Oscar Luigi Scalfaro, Mariotto Segni) e a quella europea (Jacques Delors, Hans-Dietrich Genscher, Gianni Pittella). Di grande interesse, inoltre, risultano alcune letture «di opposizione» (Giorgio Napolitano, Beppe Vacca) o quelle relative alla spiritualità di Colombo (Gianfranco Ravasi).
Alcune testimonianze appaiono più inclini all’affetto che alla ricostruzione puntuale e rigorosa dei fatti. I curatori Verrastro e Vigilante fanno notare che memorie caratterizzate talvolta dal forte portato emotivo, se esaltano il profilo politico e personale di Colombo, restituiscono anche quel clima di attaccamento tutto meridionale alla politica intesa come soluzione «paternalistica» ai problemi individuali e sociali.
Trascrivo ora la bellissima presentazione di Giampaolo D’Andrea, storico e politico, molto vicino alle posizioni di Colombo e attualmente capo di gabinetto del ministro della cultura Dario Franceschini. E’ una presentazione accuratissima e una esauriente illustrazione dell’opera, che accende il bisogno di leggerla. D’un fiato, per poi rileggerla.
« Le pagine che seguono rappresentano un tentativo ben riuscito di riproporre il senso di una lunga stagione di impegno al servizio del bene comune e delle istituzioni democratiche che non ha eguali nella storia repubblicana, sia per la durata del mandato parlamentare (undici legislature, dalla Costituente al 1992, per un totale di quarantasei anni, oltre agli ultimi dieci da senatore a vita) sia per la continuità di presenza, nei tanti governi succedutisi dal V De Gasperi al I Amato (sei volte da sottosegretario, ventinove da ministro e una da presidente del Consiglio)[1]‘. Un ruolo significativo e per certi aspetti singolare nella vicenda politica del nostro Paese – evidenzia Arnaldo Forlani, più volte segretario nazionale della Dc – comprovato dal fatto che, nell’arco di mezzo secolo, non c’è stato presidente del Consiglio che non abbia posto, spesso come condizione all’accettazione dell’incarico, la partecipazione di Emilio Colombo a particolari responsabilità”[2].
Settant’anni di storia italiana ed europea vengono ricostrui- ti da uno straordinario io narrante, testimone e/o protagonista lucido ed appassionato, orgoglioso del proprio contributo ed al tempo stesso pienamente consapevole dei limiti propri di ogni storia personale e collettiva, ma costantemente ispirato dal principio del «non appagamento», che lo ha spinto fino all’ultimo a dare il meglio delle sue attitudini e delle sue capacità e a stimolare i più giovani a fare altrettanto. «Se c’è un messaggio che vorrei affidare a chi è più giovane di me, a quanti sono tanto giovani, benché senatori in quest’Aula – affermò con forza in Senato il 13 aprile 2010, ringraziando per gli auguri rivoltigli per i suoi novant’anni – è di credere nella democrazia, senza imboccare scorciatoie, di difenderla dalle tossine del populismo, che diviene una inclinazione diffusa e una illusione, se persuade che la democrazia non implichi fatica, sacrifici e coerenza.[3].
La particolare attitudine a raccontare i momenti più signifi- cativi della sua esperienza politica, soprattutto a dar conto dei contesti che ne avevano reso possibili le scelte fondamentali, ma anche degli ostacoli che spesso si erano frapposti, fino a vanificare totalmente o parzialmente i pur consistenti sforzi prodotti, era ben nota a quanti di noi, agli esordi dell’ attività politica, avevano cominciato ad incontrare ed ascoltare il presidente Colombo ormai al top della sua carriera. il tratto inconfondibile dello statista affermato e del leader abituato a cimentarsi con sfide impegnative e ad assumersi la responsabilità di scelte delicate, pienamente avvertito delle insidie che costellano un impegno politico-istituzionale protrattosi per un lungo tempo, ma anche dell’ eccezionale risorsa rappresentata da una esperienza ricca e stimolante, che ha attraversato diverse stagioni, con un orizzonte geografico straordinariamente ampio, caratterizza anche il contenuto delle conversazioni raccolte, tra il 2009 e il 2013, da Alessandra Peralta, che viene ora opportunamente reso accessibile a studiosi ed estimatori. Esse di più rivelano il distacco e la serenità di giudizio propri di chi ha ancora il particolare privilegio di poter dispensar consigli e farsi ascoltare, senza subire i condizionamenti (o soltanto i pregiudizi) di chi è ancora parte del gioco o viene comunque ritenuto tale.
Sotto la sua guida, giovandoci delle autorevolissime testimonianze che vengono riprodotte in appendice, possiamo intraprendere un viaggio straordinario attraverso la storia della seconda metà del Novecento. Vengono evocati incontri e rapporti con le grandi personalità internazionali (dagli europeisti Adenauer, Schuman e Monnet, al generale de Gaulle, a John Kennedy, dalla Thatcher, a Ronald Reagan, a Deng Xiaoping, da Giscard d’Estaing alla Veil, da Gromiko a Sadat) o con gli esponenti della generazione prefascista chiamati ad offrire il contributo della loro esperienza all’ Assemblea costituente ed alla stagione immediatamente successiva (da De Gasperi a Scelba, da Croce a Nitti a Bonomi a Sforza, a Orlando, a Grandi, a Gronchi, a Terracini a Nenni) o con i leader emersi dalla lotta antifascista e dalla Resistenza, destinati ad assumere un ruolo fondamentale nelle fasi successive (i cattolici Segni, Gonella, Dossetti, La Pira, Fanfani, Taviani, Vanoni, Zaccagnini, Andreotti e Moro e poi Sforza, Togliatti, Amendola, Di Vittorio, Saragat, Pertini). Ci sono poi, naturalmente, tanti altri protagonisti della storia della nostra Repubblica, talvolta evocati anche attraverso il tratto umano e gli aspetti caratteriali che meglio emergevano dalla consuetudine dei rapporti.
I due pregevoli contributi introduttivi di Donato Verrastro ed Elena Vigilante – il primo con riferimento soprattutto alla genesi della sua scelta politica ed alle caratteristiche del suo concorso alla stagione delle riforme dell’ età degasperiana e del primo centro-sinistra e il secondo più concentrato per un verso sulla seconda metà degli anni Sessanta e i riflessi delle tensioni sociali che la caratterizzarono e per l’altro sull’orizzonte internazionale e le spinte al superamento della guerra fredda – tratteggiano il contesto nel quale si svolgono gli avvenimenti e prendono corpo i nodi problematici delle questioni che sono oggetto della ricostruzione proposta da Emilio Colombo.
Il suo racconto infatti prende le mosse dalla caduta del fascismo e dal peculiare contributo del movimento cattolico-democratico alla nascita del nuovo ordine, che accompagnò la fine della seconda guerra mondiale, con la scelta repubblicana, la stagione costituente e poi l’età degasperiana, per proseguire con il primo centro-sinistra di Fanfani e Moro, la solidarietà nazionale e poi ancora il ritorno alla collaborazione con socialisti e laici fino al governo guidato, nei primi anni Novanta, da Giuliano Amato.
Possiamo rivisitare così la eccezionale trasformazione dell’Italia e la sua ascesa al rango di grande potenza industriale, con la riforma agraria e la bonifica di grandi aree del Mezzogiorno e del Centronord, la nazionalizzazione dell’ energia elettrica e gli incentivi per le piccole e medie imprese e l’artigianato, il «miracolo economico» e l’ «Oscar alla Lira», che caratterizzarono la sua presenza tra la metà degli anni Cinquanta e i primissimi anni Sessanta al vertice dei ministeri dell’ Agricoltura, del Commercio con l’estero e dell’Industria.
Sono oggetto di particolare approfondimento le questioni relative al conflitto tra espansione della spesa, ridistribuzione della ricchezza e controllo dei conti pubblici, che caratterizzarono gli anni della sua pressoché ininterrotta permanenza al Tesoro dal 1963 fino al 1976, salvo le parentesi del suo governo e del secondo governo formato da Andreotti, subito dopo le elezioni anticipate del 1972, senza i socialisti e con i liberali. Nella sua testimonianza il presidente Ciampi, che ha riconosciuto la qualità del suo contributo alla vita del Paese nominandolo senatore a vita, ha richiamato il clima di quegli anni, caratterizzati da quello che definisce «il lungo sodalizio» di Emilio Colombo con Guido Carli, «il costante e fattivo rapporto tra i due, oltre il perimetro che la geometria istituzionale assegnava ai rispettivi ruoli», <da rilevanza ai fini del ‘buongoverno’ dell’ economia e insieme la non scontata armonia che lo caratterizzava, nonostante le tensioni ed i contrasti che segnavano anche allora la vita pubblica»[4]. Temi affrontati anche da un altro ex governatore della Banca d’Italia come Antonio Fazio, che sottolinea l’efficacia della contrastata linea Colombo-Carli che stabilizzò l’inflazione e permise alla economia italiana di continuare ad espandersi, consentendo «una crescita della remunerazione dei lavoratori dipendenti dell’industria, l’aumento dei consumi e un’inflazione di riflesso nel settore dei servizi» a fronte di prezzi dei prodotti industriali «assolutamente stabili»: «il tenore di vita migliorò e si sviluppò l’edilizia»[5]
Ritroviamo anche il filo conduttore dell’impegno per la rinascita del Mezzogiorno, tema particolarmente congeniale alla sua sensibilità sociale e politica: dal lodo di Melissa (che segnò il suo esordio di giovanissimo sottosegretario all’ Agricoltura con Segni, nel Governo De Gasperi, e lo proiettò sulla ribalta nazionale) alla legge sul risanamento dei «Sassi» di Matera, ai villaggi rurali realizzati con la riforma agraria, alla bonifica ed al recupero produttivo di grandi aree come la Capitanata, il Tavoliere delle Puglie, il Metapontino, il Crotonese, la piana di Sibari, alle grandi dighe, alle prime forme di intervento straordinario, alla nascita della «Cassa», alla sperimentazione dei nuclei di sviluppo industriale, all’insediamento del Centro siderurgico di Taranto e poi ancora dell’Alfasud a Pomigliano d’Arco, fino al «pacchetto Colombo» per la Calabria, all’ esito della drammatica rivolta di Reggio. li suo impegno per il Mezzogiorno viene riconosciuto anche dal presidente emerito Napolitano come uno dei due terreni (l’altro era il suo europeismo, che fu alla base di un rapporto molto positivo con Giorgio Amendola) sui quali «tante furono le occasioni di convergenza con la sinistra», che pure in molte circostanze lo aveva considerato «senza dubbio un avversario», pur riconoscendogli una «capacità di ascolto» ed un «forte sentimento democratico che derivava da una piena adesione agli ideali dell’ antifascismo» che, da posizioni anticomuniste, gli aveva sempre consentito di avere «un rapporto molto aperto e corretto con i rappresentanti del Pci, soprattutto in Parlamento»[6].
Il cardinale Ravasi, nel ricordare opportunamente come l’Università Cattolica del Sacro Cuore abbia rappresentato il suo «referente culturale fondamentale», individua come «la sua grande matrice» quella «cattolico-democratica della tradizione italiana degli anni Cinquanta» e come suoi riferimenti «soprattutto Alcide De Gasperi e, dal punto di vista teorico, l’umanesimo integrale di Maritain, dai quali ha appreso la concezione di una distinzione netta tra fede e politica, ma non della loro separatezza»[7]. Anche il presidente Scalfaro, che lo conobbe giovanissimo tra i banchi della Costituente, ricorda la «comune appartenenza all’ Azione cattolica[8]», così come, per quel che riguarda la Basilicata, fanno don Gerardo Messina, biografo del vescovo mantovano Bertazzoni – che incoraggiò e sostenne il suo impegno sin dalla vigilia della Costituente, come monsignor D’Elia, promotore del Ppi di Sturzo e poi della Dc – e Gino Mistrulli, che lo affiancò a lungo con molti altri nell’ azione volta a radicare l’organizzazione del partito nella regione[9]. Egli stesso racconta dei suoi rapporti con Luigi Gedda, con Carlo Carretto, con il conte Dalla Torre, direttore dell’«Osservatore Romano», con monsignor Montini, futuro papa Paolo VI, e Pio XII, nonché con il lucano don Giuseppe De Luca, vicinissimo a papa Giovanni XXIII. Un insieme di rapporti destinato ad influenzare molto la sua formazione ed a caratterizzare la sua ispirazione anche nell’ azione politica, al fianco dei tanti esponenti della Dc che avevano condiviso sostanzialmente con lui lo stesso percorso. Maria Romana De Gasperi ricorda i molti contatti ed i colloqui del padre con lui «già allora profondo conoscitore della situazione locale del Sud» e «la stima che egli aveva di lui», uno dei suoi giovani sottosegretari «che erano tra i pochi ad avere già un interesse e una conoscenza della vita democratica»[10]. Come ricorda il figlio Mario, sin dai primi passi della sua carriera politica, un altro riferimento importante fu rappresentato da Antonio Segni, che lo volle sottosegretario accanto a sé e poi suo successore all’ Agricoltura, e che a lui era legato da «un rapporto del tutto speciale che nacque e si cementò in quei primissimi anni», mantenendosi fino alla malattia che portò alle dimissioni dello statista sardo da presidente della Repubblica. «Certo – ricorda ancora Mariotto – si trattava di due generazioni diverse e per questo mio padre lo considerava come un figlio. Camminavano parallelamente non solo perché appartenevano allo stesso partito, ma soprattutto perché avevano in comune una solida base programmatica e di ideali. Mio padre faceva parte della generazione di statisti europei che aveva assistito a due guerre e che quindi considerava l’Europa soprattutto come uno strumento per metter fine alla carneficina che aveva insanguinato il nostro continente per mezzo secolo. Colombo guardava già al futuro: per lui l’Europa non era legata solo alla chiusura del dramma della guerra, ma sarebbe dovuta diventare il perno su cui costruire nuovi nessi economici, politici e sociali»[11].
Dal racconto emerge soprattutto quanto forte sia stato, come per tanti della sua generazione, il riferimento all’Europa, che gli ha meritato l’attribuzione di prestigiosi riconoscimenti (le medaglie Schuman e Monnet, il «Premio Carlo Magno») e ha rappresentato la stella polare della sua azione governativa a partire dai trattati di Roma, che nel 1957 consentirono la nascita del Mercato comune europeo e dell’Euratom. I negoziati per l’ammissione della Gran Bretagna e degli Stati scandinavi ed il contributo diretto assicurato al superamento della crisi della «sedia vuota» ne consacrarono il prestigio internazionale, così come la elezione alla presidenza del Parlamento europeo, che pilotò verso l’elezione diretta a suffragio universale, da lui stesso conseguita nel 1979, con un consenso plebiscitario. Assunta la responsabilità del Ministero degli Esteri, promosse, con il collega tedesco Genscher (che lo giudica «uno dei più grandi europei del secondo dopoguerra, un grande sratista»), il piano che trovò parziale accoglimento nella Dichiarazione solenne sottoscritta a Stoccarda nel 1983. Essa nasceva, come ricorda lo stesso ministro tedesco nella sua testimonianza, «da quella che veniva chiamata ‘eurosclerosi’, un vero e proprio stato di immobilismo e di disfacimento del processo di integrazione europea che bisognava fronteggiare»[12]. Fu agevole per lui con- dividere con il ministro Colombo («uno dei più grandi europei del secondo dopoguerra, un grande statista») l’opportunità di assumere una rapida ed efficace iniziativa in quella direzione. Venne aperta così la prospettiva del trattato di Maastricht, in seguito sottoposto alla ratifica del Parlamento italiano, proprio nel corso del secondo mandato alla Farnesina, con il Governo Amato. L’ex presidente della Commissione europea Delors sottolinea anche il «grande appoggio» ricevuto da Colombo, allora ministro delle Finanze del Governo De Mita (1988-1989), per l’attuazione del «Pacchetto Delors», un ambizioso strumento finalizzato al rilancio della costruzione europea, che fra l’altro «accresceva considerevolmente la solidarietà tra le regioni ricche e quelle povere per realizzare la coesione economica e sociale»[13]. Ha ragione Gianni Pittella nel sostenere che «mentre per altri l’Europa costituiva un vincolo, per Emilio Colombo rappresentava una scelta»[14], perché «credeva veramente nell’Europa politica e dei cittadini». Il presidente emerito dell’Istituto Gramsci Beppe Vacca osserva che è difficile rintracciare «fra gli uomini di governo italiani ed europei una figura paragonabile a quella di Emilio Colombo per l’intimo intreccio fra politica nazionale e politica europea, fra politica economica e politica estera che ha caratterizzato la sua biografia politica»[15]. Maria Grazia Melchionni, direttore della «Rivista Studi politici internazionali», ne ripercorre tutto l’itinerario, caratterizzato dalla «inscindibilità del binomio atlantismo ed europeismo per l’Italia», che rappresentava un punto fermo della sua azione. Non rinunciava però a esplorare strade diverse per rafforzare le prospettive di pace, come accadde anche in occasione della Dichiarazione di Venezia sul Medio Oriente, «una presa di posizione forte, un’affermazione di interesse dell’Europa per una questione internazionale importante per la pace, che la riguardava da vicino perché il Mediterraneo non poteva non essere considerato dall’Europa una sua area di interesse vitale», ma di fronte alla quale «Stati Uniti ed Israele non reagirono bene»[16].
Giova ricordare che il suo impegno europeista, in coerenza con l’ispirazione delle origini, fu costantemente collocato all’interno di una più generale visione dei rapporti internazionali come luogo privilegiato per l’affermazione della mediazione politica, del metodo del negoziato, dello sforzo di comprendere le ragioni dell’ altro quale unica strada per il superamento delle crisi e per il mantenimento della pace, oggetto del suo costante impegno. A questa sua visione vanno riportate tra l’altro le iniziative assunte per l’ammissione della Cina all’Onu da presidente del Consiglio nel 1971 e poi anche da presidente del Parlamento europeo per favorire le relazioni con l’Unione, espressamente richiamate dalla sua narrazione, o anche le iniziative di mediazione in Somalia e nei Balcani in occasione delle crisi del 1992-93 o, prima ancora, di quella tra Egitto e Israele.
Il travagliato cammino dell’Unione europea è stato l’oggetto della sua coraggiosa presa di posizione in occasione del suo ultimo intervento al Senato, il 15 maggio 2013 alle Commissioni Esteri e Difesa riunite in seduta congiunta per esaminare le linee programmatiche del nuovo ministro degli Esteri Emma Bonino. Prendendo spunto dalla «Grexit» affermò, con voce grave e preoccupata, agitando il bastone, tra gli applausi dei colleghi: «Di fronte a questo stato d’animo micragnoso, fatto sempre e continuamente di repressione e di rigore, senza una visione e senza qualcosa che apra la speranza degli italiani, ricordo a tutti che i popoli. si guidano anche con la speranza e non soltanto con la costrizione», «e importante che abbiamo la convinzione di dover uscire da questa situazione». Poi, incalzando, ha riproposto la questione mediorientale, richiamando alla memoria proprio la Dichiarazione di Venezia e domandandosi: «Vi è una speranza che finalmente si apra qualche spiraglio? Vogliamo la difesa di Israele, non v’è dubbio, ma non per questo dobbiamo non volere che vi sia una speranza per il popolo palestinese». E, riferendosi alla condizione della Siria: «Si può continuare così? È mai possibile che in questa attuale rete di rapporti internazionali non vi sia la possibilità di modificare la situazione?». Alludendo poi agli accenni alle nuove posizioni della Russia contenuti nell’esposizione della ministra ammonì: «Anche quella è una situazione che non può più continuare. Muore la gente nel cuore del Mediterraneo, a decine e decine: si può continuare ad ammetterlo? Certamente non dobbiamo fare la guerra – per carità non voglio dire questo, anzi vogliamoci bene – ma occorrerebbe una diplomazia più incisiva anche da parte degli Stati Uniti d’America». Infine, il suo ultimo profetico interrogativo, espressione dei timori propri di chi, forse più di ogni altro, aveva piena contezza e diretta esperienza delle difficoltà, dei dubbi, delle riserve, delle resistenze che, in tanti anni, avevano accompagnato l’atteggiamento del Regno Unito nei confronti dell’integrazione europea: «Avete preso atto e vi preoccupate – se preoccupazione dev’esservi, ma credo di sì – delle nuove posizioni inglesi rispetto all’Unione europea?». Un vero e proprio grido di dolore del vecchio leader europeista, un monito di straordinaria attualità per tutti noi che oggi sembriamo avere meno fede e quindi meno certezze sul futuro di un’Europa, che annaspa e sembra non riuscire a ritrovare lo slancio vitale dei suoi momenti migliori, di un’Italia paralizzata dai suoi contrasti e dalle sue divisioni, che talvolta sembra essere condannata alla sopravvivenza e non scommette con coraggio sul suo stesso futuro, come invece tante volte è riuscita a fare nei settanta anni così efficacemente raccontati dal presidente Colombo».
Roma, novembre 2016
Giampaolo D’Andrea
[1] Rinvio al mio Emilio Colombo: un generoso impegno per la promozione del bene comune, in «Leukanità», giugno 2013, pp. 6-10
[2] Cfr. infra, p. 235
[3] Cfr. Senato della Repubblica, XVI Legislatura, Assemblea, Resoconto stenografico della seduta n. 357 del 13 aprile 2010.
[4] Infra, pp. 219-220
[5] Infra, pp. 230-231
[6] Infra, pp. 270-271
[7] Infra, pp. 277-281
[8] [8] Infra, p. 282
[9] Cfr. [9] Infra, pp. 258-268
[10] Infra, p. 223
[11] Infra, p. 286
[12] Infra, pp. 237-239
[13] Infra, p. 226
[14] Infra, pp. 274-275
[15] Infra, pp. 295-296
[16] Infra, pp. 251-256
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La presentazione che ci ha offerto RABATANA rappresenta anche un non comune invito a tutti quanti – noi testimoni ancora presenti della storia d’Italia del dopoguerra – di approfondire e arricchire le nostre conoscenze ed esperienze attraverso letture e riflessioni che con grande competenza ci illustra . Grazie infinite !
Grazie ad Antonio che, con la sua “Rabatana”, ci consente di tenerci informati su quanto accade intorno a noi. Non vi è alcun dubbio sull’importanza del ruolo svolto da “don Emilio” -come scherzosamente eravamo soliti rivolgerci a lui- in quanto rappresentante una più giovane impegnata componente della DC. Nelle immancabili luci ed ombre lasciate sul suo percorso, sono state sempre più che evidenti la sua dedizione alla Basilicata, al Mezzogiorno e, quindi, all’Italia in una prospetiva di più larghe vedute, rivolte anche e soprattutto ad un’Europa che, purtroppo, ha spesso tradito i nostri sogni.
Quando,nel febbraio del 1991,essendo suo “collega” alla Camera,gli chiesi di sottoscrivere la Mozione poi approvata il 19 quasi all’unanimità,non soltanto consentì,ma prese la parola per sostenerla:come sempre,cordiale e gentile anche con chi era le mille miglia lontano dal livello del Suo prestigio e della Sua competenza,di una signorilità del tratto e una sensibilità umana preziosi per porre a proprio agio chiunque lo incontrasse!
La ringrazio della lettura, apprezzando il riconoscimento a un “collega” non dello stesso partito. Se non sbaglio la sua mozione, lei primo firmatario con altri 9 socialisti, concernente la situazione della Basilicata, fu presentata già nell’ottobre del 1989 e la discussione parlamentare si concluse con l’approvazione all’unanimità (con un solo voto contrario, suppongo del deputato Raffaele Valensise) della risoluzione Colombo n. 6-00160, che recepiva le proposte sia di contenuto sia di metodo della suddetta mozione.
Carissimo Antonio,
nessuno potrà mai sminuire l’enorme importanza avuta dal presidente Colombo per la Basilicata anche, come ricordato da Marselli, con le sue luci e ombre.
Vorrei ricordare il grande legame con il nostro Mons. Raffaello delle Nocche (mio padre mi ha sempre ricordato che sul letto di morte mons. delle Nocche disse a Colombo .
Il mio non vuole essere un ricordo irriverente, ma tra le ombre segnalo la sua responsabilità, oltre quella della DC nel suo complesso (e tra i tanti cito Giammaria e Coviello, oltre i politici e accoliti locali) nel non decollo del salumificio di Tricarico al quale tante speranze di sviluppo i tricaricesi a suo tempo ponevano, ma é piccola storia et de minimis non curat non solo il pretore tant’é che continuiamo ad aver le pezze sul sedere.
Ciao Antonio, ancora una volta non ti smentisci, sei per noi persona preziosissima per la vigilante sistematicità con la quale ci propini accadimenti per i quali personalmente difficilmente avrei possibilità di cogliere.
Ciao
Non so perché ma é saltato quel che sul letto di morte monsignor delle Nocche disse a Colombo: Emilio non dimenticarti di Tricarico!
Ringrazio l’ex deputato Nicola Savino di avermi offerto l’occasione (che forse potrebbe diventare oggetto di un post) di cercare sul sito della camera e leggere la vicenda parlamentare promossa dalla sua mozione. Riporto un brano del suo intervento:
«Ecco il motivo che ci ha spinto a presentare questa mozione sulla Basilicata, una regione interna che Manlio Rossi Doria aveva definito «l’osso del Mezzogiorno» e i cui abitanti sono stati definiti da Rocco Scotellaro con l’espressione «uva puttanella»: gli acini più piccoli ed umili della vendemmia, onorevole Presidente, tuttavia quelli che conferiscono generosità e pregio al vino buono se capitano in compagnia di acini di alta qualità. Altrimenti, poveri acini, non possono offrire la generosità di cui pure sono portatori».
Ringrazio Domenico Langerano, Gilberto Marselli e Dusco Jancovic.