L’opera prosastica di Rocco Scotellaro è formata dei seguenti testi: «Contadini del Sud», «L’uva puttanella», «Uno si distrae al bivio», e «Giovani soli».

     «Contadini del Sud» e «L’uva puttanella» – le opere in prosa più significative, benché incompiute- furono pubblicate nella collana «Libri del Tempo» dell’editore Laterza, Bari. «Contadini del Sud»: fu pubblicata nel 1954 con Prefazione di Manlio Rossi-Doria; «L’uva puttanella», fu pubblicata nel 1955 con Prefazione di Carlo Levi. I due testi furono quindi riuniti dapprima nella «Universale Laterza» con una nuova Prefazione di C. Levi, 1964, e poi nei «Robinson», nuova edizione a cura di Franco Vitelli, 1986, sempre degli Editori Laterza. Infine i due testi sono stati pubblicati, grazie al contributo del Comune di Tricarico e del Consiglio Regionale della Basilicata, nella «Economica Laterza», con Introduzione di Nicola Tranfaglia e Prefazione di Antonio Melfi.

     «Uno si distrae al bivio», con Prefazione di Carlo Levi e «Giovani soli», a cura di Rosaria Toneatto, sono stati pubblicati da Basilicata Editrice, Roma-Matera, rispettivamente nel 1974 e nel 1984.

     «Uno si distrae al bivio» e «Giovani soli» sono una sorta di antologie, nel senso che sono titoli sotto i quali sono pubblicati alcuni altri testi dello stesso genere letterario.

     «Uno si distrae al bivio» è un romanzo breve o racconto lungo della giovinezza. Il libro comprende anche altri otto racconti (Il paese, La festa, Fili di ragno, Sala d’aspetto, Suonata a distesa, La capera, Salvatore, Pace in famiglia) e i «Frammenti e Appunti dai Quaderni dell’Uva puttanella», articolati in un  Disegno generale del libro e in tre parti.

     «Giovani soli» comprende alcuni tentativi teatrali e di sceneggiatura cinematografica. Il titolo deriva da un omonimo abbozzo di dramma, scritto tra il 1942 e il 1943, diviso in tre atti, i cui protagonisti sono studenti afflitti da uno struggente sentimento di solitudine. «La morte del suggeritore», scritto nel 1943, contiene una situazione di teatro pirandelliano. Pure del 1943 è «Il ritratto», nel quale la scena si svolge nel mondo contadino di Tricarico. «I fuochi di San Pancrazio» sono un soggetto cinematografico, alla cui stesura collaborò anche Carlo Levi.

     «L’uva puttanella» (U.P.) è un romanzo incompiuto (romanzo è la definizione di Scotellaro). Prendo perciò in prestito il titolo (e il contenuto) del paragrafo Il problema dell’incompiuto, col quale Rosalma Salina Borello, all’epoca docente dell’Università di Regensburg in Germania, inizia il suo studio dell’U.P.[1]. La Salina Borello osserva che la prima difficoltà in cui ci si imbatte nell’affrontare una lettura dell’UP è quella dell’incompiutezza dell’opera, cui si aggiunge che le pagine di cui disponiamo (il testo pubblicato a cura di Carlo Levi nel 1955, a cui si aggiunsero nel 1974 i Frammenti e Appunti dai quaderni[2]) sono ben poca cosa se confrontate col citato Disegno generale del libro. La vastità e l’ambizione del disegno non erano certamente sfuggite a Carlo Levi, che nella prefazione all’edizione del 1964 scriveva che il «romanzo» Rocco non l’avrebbe finito mai, perché quello che aveva cominciato a fare era il racconto della sua vita svolto in dimensione letteraria, era il progetto ambizioso di raccontare tutta la sua vita, quando non si poteva prevedere una vita così breve, e, presumibilmente guardando all’ambizione del progetto, disse a Rocco che la sua UP era meglio del Cristo, come Rocco confidò a Antonio Albanese, commentando che il giudizio di Levi, “esagerato come al solito”, l’aveva bloccato.

     Il problema fondamentale, osservava la Salina Borello, «è se assumere i frammenti rimastici a campione di tutta l’opera, quasi si trattasse di parti definitive, con il rischio di elevare un dato contingente a sistema (giungendo magari, per questa via, a parlare di “disordine patologico” oppure di una “poetica del frammento”). Al polo opposto sta il pericolo di confrontare ciò che rimane con una presunta totalità, conferendogli una organicità solo ipotetica.

     Il “disordine patologico” rimanda a Carlo Muscetta[3], che si esprime in questi termini «Quel disordine patologico dell’Uva egli lo assumeva a simbolo, ideale e vanto della sua anarchia di artista, di disprezzo per ogni principio di organizzazione, rifiutandosi di ammettere che solo ciò che è organizzato può sopravvivere […].» . Ma in questo caso si rischia di scambiare l’effetto per la causa (ossia il dato di fatto della frammentarietà per una poetica del frammentismo).

     La “poetica del frammento” rimanda al critico letterario  Niccolò Gallo[4]: «[…] era nella sua natura liricamente imperiosa, e nella medesima qualità della sua poetica, ancora immatura, fermarsi al frammento, al resoconto denso e rapido, lasciare a mezzo incompiute per suggestione del vago, della figurazione mitica le sue narrazioni». E in questo caso si rischia di sottovalutare un fatto, certamente non trascurabile, come l’incompiutezza.

     Per evitare di cadere nell’uno o nell’altro eccesso occorre tener conto dell’UP per quello che effettivamente è: non un campionario di soluzioni definitive, ma il progetto di un’opera da farsi «aperta» per eccellenza, semplice «prova» di racconto.

     Una delle difficoltà fondamentali che Scotellaro dovette affrontare – osserva per ultimo la Salina Borello nel citato paragrafo – è quello del rapporto autore-personaggio che per Pavese[5] si poneva nei termini di «una coesistenza di due personaggi, uno l’autore che sa come va a finire, l’altro i personaggi che non lo sanno». Rocco è l’autore-personaggio ed è l’io-narrante, il mediatore che racconta. Tale problematica si profila già nel primo capitolo, dove la passeggiata alla vigna si carica di una molteplicità di significati, tutti incentrati sul rapporto io-paese. L’importanza che doveva avere, nell’economia dell’opera, la passeggiata alla vigna, è chiarita da un’annotazione reperibile nel Disegno generale cit., p. 97: «Le dimissioni questa volta mi riportano, nudo e fanciullo, alla vigna del padre. Istintivamente, perduta ogni illusione di potere essere utile agli altri e pensando di non essere stato utile a me stesso, vorrei prendere in mano la vigna e l’attività del padre».

     Giovanni Battista Bronzini guarda oltre il rapporto io-paese[6]. Per Bronzini, con lo sguardo attento al Disegno generale del libro, non altrimenti che alle parti compiute e frammentarie che avevano preso corpo, l’UP è «La vita come racconto» (titolo del Capitolo quarto) e «Memoria di vita e simbolismo kafkiano» (titolo del primo paragrafo del Capitolo quarto).

     Lascio per poco (dovrei altrimenti riportare per intero il contenuto dei suddetti capitoli) la parola al prof. Bronzini per leggere che fin nel titolo si scorge la matrice contadina, che indica una specie di uva con acini più piccoli che stentano a maturare, e dà il segno genetico dell’emarginazione, che accomuna i personaggi di Scotellaro a quelli verghiani, convertendo in una situazione esistenziale la condizione (principio privatistico lo chiama Bronzini) dell’ostrica, come si deduce dal frammento 9: .

Uva puttanella sono gli amici miei ed io, ostriche attaccate a un masso che non vedono e non sanno il segreto delle barche, delle petroliere, delle portaerei e dei cacciatori subacquei.

…e delle centrali nucleari, si potrebbe oggi aggiungere.  Sostanzialmente verghiana è la poetica del racconto espressa nel successivo pensiero (10):.

Scrivendo un racconto si deve ammettere l’implicita conoscenza dei fatti che sono quelli e potrebbero essere infiniti altri, della realtà, l’aria,  invece, del racconto costituisce un’altrettale realtà della fantasia, ed è la  sola che conti.

     Ma la metamorfosi simbolica con cui l’autore in questo romanzo autobiografico si esclude dalla comunità è palesemente e dichiaratamente di ispirazione kafkiana. La metamorfosi non è così orribile, ma altrettanto  autonegatrice di vita: la condizione  di lui, arrestato senza intendere il perché, è simile a quella di  Joseph Kafka nel Processo. C’è in comune l’assunzione, sul proprio non-essere, di tutto il negativo della civiltà. Scotellaro ne dà la spiegazione nei frammenti 12, 13, 14 e 15 dell’UP, sul primo dei quali è segnato a lettere capitali il nome di  Kafka. : .

A queste note sono da aggiungere o premettere quelle del frammento 2, che si richiamano sottesamente al Montale degli Ossi di seppia nell’indicare il senso di smarrimento del protagonista (che è lui stesso, l’uomo) al bivio dinanzi alla crisi della società e allo sfacelo della umanità, alla ricerca di una via di scampo:

Questo racconto, ispirato solo in parte a fatti realmente avvenuti e a persone anagrafiche, ha rasentato appena l’autobiografia e l’inchiesta che sono gli strumenti più diretti della comunicazione. Per un’autobiografia mancano altri elogi e altri biasimi e poi si sa bene l’inganno di ogni lettera scritta all’amico e all’amata; per un’inchiesta occorrevano calcoli che possono benissimo non tornare alla fine come accade nella varia pronunzia dello stesso verso in una poesia.

Gli appunti presi sono stati un esercizio qualunque di calligrafia e di pittura del momento. Ripetendoli qui, essi hanno la forza fredda degli ossi, dispersi, nemmeno legati in scheletro. L’ordine che non c’è non lo troverete come appunto è nel grappolo d’uva che gli acini sono di diversa grandezza anche a volere usare la più accurata sgramolatura.

Questi sono acini piccoli, apireni, seppure maturi che andranno ugualmente nella tina del mosto il giorno della vendemmia. Così il mio paese fa parte dell’Italia!

Io e il mio paese meridionale siamo l’uva puttanella, piccola e matura nel grappolo per dare il poco succo che abbiamo.

     Forse è qualcosa di più di un’identificazione: è proprio integrazione e quasi fusione carnale tra l’io e il paese (ecco il ritorno alla Salina Borello), confermata nel Disegno generale del libro, dove (nella parte IlI) si indicano questi tre temi in sequenza:

Mia madre

Il paese rimane una piaga dolorosa sul mio corpo.

Non trovo un sistema per sanarla.

     L’UP è, dunque, la più tragica figura del suo non voler essere. La sua vita, concepita e vissuta ritualmente con ideologia contadina, viene mitizzata in un racconto popolare, proprio della serie delle fiabe di magia, che s’iniziano con la partenza dell’eroe, qui in prima persona, in una pagina (bellissima proprio per il suo avvio favolistico) in cui solo col modello narrativo riusciamo a capire le funzioni, cioè i significati delle azioni che Rocco compie e racconta: allontanamento da casa del protagonista, sua autoelevazione sull’umano per una destinazione ignota, che è il regno dei morti.

[1] A giorno fatto, Linguaggio e ideologia in Rocco Scotellaro, Basilicata Editrice, 1977, p129)

[2] pubblicati ut supra e, prima, con nota introduttiva di Carlo Levi, in «Nuovi Argomenti», 17-18, novembre 1955-febbraio 1956, pp. 1-40.

[3] Carlo Muscetta, Rocco Scotellaro e la cultura dell’ «Uva puttanella» – con carteggio inedito – Il Girasole Edizioni, 2010

[4] Niccolò Gallo, Testimonianze del Sud, in Società. XI, 1956, pp. 198-204

[5] Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Milano, Il Saggiatore, 1955, p. 178

[6] Giovanni Battista Bronzini, , L’Universo contadino e l’immaginario poetico di Rocco Scotellaro, Dedalo Edizioni, Bari 19877, pp. 124 ss

 

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