Avviso. L’Uva puttanella di Rocco Scotellaro è divisa in tre parti. In questo post è parzialmente riassunta la terza parte, che si può leggere nel formato pdf, che si consiglia. LE MIE PRIGIONI DI ROCCO SCOTELLARO

Dopo la pubblicazione dei riassunti delle prime due parti, sarà pubblicato il testo del volume di Scotellaro, con l’auspicio che siano lette.

***

IL CARCERE COME GABBIA DEI DESIDERI E DEI SOGNI 

Il racconto di questa esperienza careceraria è il libro delle Mie prigioni di Rocco Scotellaro, che si presenta come autonomo racconto lungo della sofferenza, delle lunghe attese, della noia di quarantacinque giorni di ingiusta detenzione, nonché di salde amicizie stabilite con compagni di sventura. Scotellaro «perviene ad un’oggettivazione narrativa, nella quale l’io narrante si riconosce nei suoi personaggi, s’identifica con la loro cultura e si ritrova nella rievocazione ambientale».

Il carcere è la gabbia dei desideri e dei sogni di Rocco e dei suoi compagni, specialmente di Chiellino, che, vedremo, sognando, «si leva per correre al lavoro, in bicicletta, nelle aziende del Metapontino».

La parte terza dell’Uva puttanella è riempita dell’esperienza del carcere. Sono dieci capitoli che raccontano una realtà sofferta. La descrizione del carcere è realistica. L’angustia dei locali, le carenze igieniche e le brutture d’ogni sorta, quasi rinviano al crimine.

Se ti fai la barba e ti pulisci, mi dicevano la mattina, non serve che stai in galera. E infatti ci pulivamo anche troppo e avevamo la faccia dei seminaristi. La galera è una scuola, insegna l’uomo e lo rinvia al crimine, dicevano.

Sono condizioni che sembrano confermare la Relazione al Re sulle carceri di Matera del 1795 di Giuseppe Maria Galanti. Le carceri di Trani, a cui si paragonano le carceri di Matera nel canto dei carcerati dopo mangiato, erano le più aborrite nella circoscrizione giudiziaria di Puglia e Basilicata.

Carceri di Trani

Tribunale di Matera.

Sti carceri non sapevo

che erano così:

tre acini di pasta

e brodo a coppini

st’infami assassini

ci fanno morir.

Carceri di Trani

Tribunale di Potenza:

chi piange e chi pensa.

Chi pensa a lavorar.

 

L’esperienza del carcere, tuttavia, non esaurisce il contenuto della parte terza, che tratta molti altri temi (a parte quelli trattati nelle prime due parti, si cui si dirà con i prossimi post), quali: l’occupazione delle terre incolte del 1949 e i fatti di sangue di Montescaglioso, con l’uccisione di Giuseppe Novello (di cui Scotellaro non fa il nome) e l’arrivo in carcere degli «occupatori» delle terre (come li chiama Scotellaro); il ritorno del pensiero alla vita beata che conducono le classi «borghesi», metafora di ingiustizia sociale e di giustizia ingiusta, la spassosissima pagina del codice del cavaliere Carritelli, che il singolare personaggio  immagina di leggere al procuratore. Alla fine ritorna Giappone.

La figlia del maresciallo si pettinava alla finestra: –  Ecco, – disse Giappone, – la famiglia si prepara. Adesso escono, vanno al cinema.

Andammo a vedere al cancello coprendo Giappone.

La figlia del maresciallo si dimenava la capigliatura  davanti allo specchio fissato a un chiodo, si voltò verso  di noi e cacciò la lingua. – Uh, – le gridò Giappone  – ringrazia tuo padre! – e scrollò dalle spalle le nostre  teste. – Non c’è altro nella vita che una bella mangiata  e una bella coricata con una femmina, – disse. – Le bestie fanno così e le bestie che lavorano non pensano  ad altro.

Noi pensavamo ad altro, lo stesso Giappone, di  lì a poco, gli dovette passare così cruda la fantasia  della casa in campagna con la moglie, si fece dare il codice e lesse gli articoli del furto aggravato, dell’associazione a delinquere e dell’istruttoria

Compaiono quindi i compagni di cella: Giappone, Chiellino, Pasciucco, Fascina, Vasco Bartolomeo, Cinodoce, Spio.

Giocavamo alle carte, era proibito: quelle della 2” Camerata preparavano i cartoncini, noi li rivestivamo a  uno a uno con la carta dei pacchetti di trinciato comune, il capo calzolaio faceva i disegni delle donne  e dei Re, e Giappone i cavalli.

C’erano i quattro pali regolari e i denari facevano  la stessa impressione delle carte vere. A compagni si  giocava a scopa e a briscola, la coppia perdente si levava dalla branda e con un gesto: le mani sulle  orecchie, diceva all’altra: – Siete i maestri nostri.

La vittoria consisteva poi nell’essere portato a cavallo per la camerata dal perditore.

 

CHIELLINO

 

La narrazione dell’esperienza carceraria è rappresentazione di una umanità di picari, ribelli e piccoli malavistosi, che dà a Rocco sapore e forza e capacità di resistenza.

Chiellino è il primo, la mattina, a balzare dal letto, fare ginnastica – egli è alto – e percorrere i pochi passi per recarsi al gabinetto, aperto sopra, come una sorta di pulpito, con  l’entrata avanti dove si mette la coperta, per porta,  quando viene occupato, accorrendo «con l’asciugamano e il sapone e le schede della Sisal, che la  Direzione passa ai carcerati per carta igienica.

Quando arriva la caldaia del caffè, «lo avesse mia moglie  _ fa Chiellino …». Chiellino ha il pensiero della moglie e dei figli.  Quando lui era a casa, anche se era disoccupato o guadagnava poco o niente, i primi frutti,  avesse o no danaro, li sapeva procurare per moglie e  figli. Quietava il cane messo di guardia con un laccio delle scarpe, di pelle di cane, che annodava tredici volte, dicendo una giaculatoria a San Donato. Ma Chiellino «era onesto»: dopo aver raccolto i frutti, snodava il laccio  e il cane nella notte riprendeva ad abbaiare, altrimenti sarebbe morto.

Durante la passeggiata, gli altri carcerati chiedevano a Rocco: «Stai bene alla Settima? Se no, vieni con noi». Chiellino rispondeva «Lo tengo vicino a me […], domani ti lavo la roba, tu scriverai a mia moglie».

Rocco e i suoi compagni nel carcere sono «uccelli frenetici»; e il carcere, a sua volta, «era un nido nella chioma del cielo», donde spiccavano il volo i sogni dei carcerati.hiellino è esperto di magia e interprete dei sogni. Racconta a Rocco un suo sogno e gli chiede di scrivere la lettera alla moglie.

Ho sognato. Trebbia, giornali  e treni. Significa che va alla lunga, è malamente: controllo di uomini, per la propaganda. Da quando ero  militare studiavo i sogni e se dicevo che non andavo  in licenza, così era.

Chiellino interpreterà anche il sogno di Rocco. Egli nominava la bicicletta sempre insieme a sua moglie, «alla signora Chiellino  Filomena, via Margherita di Savoia, sette, Pisticci». Con la bicicletta faceva il portaordini, «andava dai salariati di San Basilio, si riassettava: – Fosse passato Tizio? lo vado cercando -, e quatto quatto ,  traeva uno in disparte: – Lo sciopero scoppia domani».

Chiellino porge a Rocco la lettera della moglie, che gli dice degli scherzi del bambino,  e gli dice che debbono rispondere con belle parole e incoraggiarla. E così dicendo, si lecca le labbra. Questa immagine di tenero e disperato erotismo chiude il racconto su di lui.

E’ del 4 marzo il sogno di Rocco di essere libero. Chiellino lo disillude, spiegandogli il significato del sogno: «Visita  e spoglio di processo; la campagna si fa lunga; male». Aveva ragione, perché la libertà vissuta nel sogno non era quella che Rocco aveva realmente vissuta. Bella la descrizione delle due libertà, quella vissuta della libertà del paese e quella sognata.

Disteso sul pagliericcio del carcere, Rocco si sentiva a  casa sua, e lo dice a Chiellino che nel sogno stava bene. Ma lui lo svegliò con le parole «La campagna si fa lunga». Il  carcere era per Chiellino una campagna come quella della Libia e del fronte  italiano, un’altra campagna

Dal sogno alla quotidianità del carcere, a lavare, ginocchioni, il pavimento della camerata, che doveva venire un specchio.  Nascono peraltro pensieri di ribellione. Ma perché i carcerati dovevano pulirsi il pavimento? E’ qui l’origine della  schiavitù. Giappone, perciò, non si abbassa mai, è li  che fischietta e sorveglia, da padrone.

Così i padroni, i mariti, i padri-padroni mantengono la loro ragione sugli operai, sui contadini, sui pezzenti e comandano alla moglie, ai figli, al fratello più piccolo, al  più debole di sé.

 

IL CAVALIERE CARRITELLI

 

Il cavaliere Carritelli aveva gli occhi pieni di quella libidine degli scemi e muoveva le mani brune, pelose e  morbide come i ciechi. Era in galera da otto anni, dal 1942, senza che si fosse conclusa una sola fase del processo a suo carico. Era accusato di avere ucciso i suoi figli: a uno aveva dato da ingoiare due soldi; e poiché anche il primo bambino era morto improvvisamente, fu sospettato dalla moglie di averlo ucciso. Per due volte la causa era stata differita, la seconda quando già il Pubblico Ministero aveva concluso la requisitoria con la richiesta di una condanna a morte.

Disse a Rocco, lisciando con le dita i baveri listati della giacca: – Tu comandi un paese? Io sono cavaliere e generale. Siamo colleghi.

Si vantava che i galantuomini al paese, dottori, avvocati, e professoroni, se la facevano con lui.

Nella camerata lo irridevano: – Uomo inservibile, sei -. Su di lui fioccavano pesanti dicerie riguardanti sfera sessuale e corna.

Il cavaliere si lamentava con Rocco della moglie, che diceva: – Mi fossi spezzate le gambe quel giorno. Sei pazzo. E lo disse anche ai professori – Siccome lo credevano pazzo per le accuse della moglie, diceva che per questo lo tenevano in carcere. Minacciava che li avrebbe scannati tutti.

Il poveretto ansimava, agitava le mani, cacciava la lingua come un cane: «Li scannerò, io sono innocente; quando sarà che mi riconoscono? Li scannerò come si uccide il porco, i professori, li scannerò».

Gridava tanto, sempre le stesse parole. Interveniva il maresciallo a chiamarlo: Carritelli ! Il cavaliere abbassava la voce, distendeva il volto e chiedeva a Rocco se egli riteneva che avrebbero riconosciuto la sua innocenza.

Rocco lo rassicurava: Sì, cavaliere, ti riconosceranno. Allora il cavaliere ritornava felice e libidinoso: «Mia moglie, ecco» e disse recitando «bassa d’animo e triste – incapace di sentire amore per alcuno – incontentabile per capricci e per spirito di contraddizione – aspra nei modi e nelle parole – pronta a commettere castelli in aria … ».

GIAPPONE

 

Giappone è il personaggio che domina la scena e che attira anche la maggiore attenzione di Rocco, che lo ritrae corto e grigio, ma duro nella stessa pingue pancetta e nelle grosse natiche, con molto pelo  pizzuto in capo e sugli occhi. Non era quasi mai triste,  ma chiuso come un riccio o che leggesse e scrivesse  o che, con le mani nelle tasche troppo basse dei pantaloni, stesse al cancello o alla finestra a guardare  avanti a sé.

Se ne stava sul letto come un antico romano al triclinio, curvo sul fianco, con l’orecchio e la guancia  nella mano a foglia, e in questa posa mangiava anche il rancio.

Giappone è il capo. I compagni di camerata sistemano anche la sua branda quando sistemano le proprie, piegandole per aumentare lo spazio in cui muoversi, mentre Giappone osserva con la coda dell’occhio, fischiando e cantando.

Giocare a carte era proibito e i carcerati si facevano le carte napoletane per giocare a scopa e a briscola. Preparavano i cartoncini, li rivestivano a uno a uno con la carta dei pacchetti di trinciato forte e vi disegnavano le figure. Giappone disegnava i cavalli.

Dopo aver osservato Rocco per due giorni, Giappone disse che gli serviva e dovevano rispettarlo come tale.

Come capo avanzava con determinazione istanze collettive e di singoli. Reclamò la luce, perché Rocco la sera potesse leggere. – Il nuovo arrivato – dice alla guardia alludendo a Rocco – legge per tutti noi e se legge così lo metterete fuori accecato -. Rocco sorrise alla guardia per farsi perdonare il tono impertinente di Giappone, che poteva sembrare istigato, ma altro non era che il modo di d’imporre la dignità dei  carcerati.

La personalità di Giappone è inoltre delineata a tutto tondo come personaggio di spicco della camorra. Il termine camorra e l’espressione camorra carceraria ritornano più volte nel racconto, e questa parte del racconto si si conclude con l’accettazione di Rocco nella camorra carceraria. Occorre distinguere tra camorra tradizionale, durata fino alla seconda guerra mondiale, alla quale Scotellaro fa riferimento, e il fenomeno camorristico contemporaneo. Nella situazione e concezione tradizionale, comportarsi in maniera camorristica significava agire in conformità a un codice di prestigio e di supremazia, che prevedeva scontri e competizioni tra individui e gruppi. Ciò portava all’emersione di «un’élite» di uomini di camorra., che cercavano di stabilire un potere di governo su una data zona (che può essere anche il carcere), tramite la creazione di un gruppo di amici, clienti e consanguinei disposti ad appoggiarli nell’esercizio delle loro attività.

Coloro che erano sistemati alla cucina o ad altri mestieri – tutti uomini d’onore, che, secondo i calcoli più ottimistici, avrebbero dovuto scontare non meno di dieci anni di carcere – lo dovevano a Giappone..

In carcere, gli «abituali», di cui Giappone è esponente di spicco, fanno gli onori di casa, badano come prima cosa al peso  dell’imputazione, di qualunque natura sia, per distinguere tra «temporanei» e «duraturi», e “coltivarsi” questi ultimi, cui sono affidati tutti i  servizi. Incoraggiano i deboli, scornano  i ricchi, si fanno sempre avanti per le richieste collettive  ai superiori

Per Rocco Giappone ottenne la fiducia dell’intera camorra e l’adesione di tutti a un’iniziativa perché Rocco fosse eletto scrivanello, con i pieni diritti all’aria dell’intero giorno, visto che il maresciallo lo faceva uscire solo quando si trattava di compitare i verbi latini allo zuccone di suo figlio. Giappone l’ebbe vinta e, per mettere alla prova la fedeltà di Rocco, lo chiamava al cancello anche se non aveva bisogno di  nulla, per vederlo accorrere a servirlo.

La sera ordinava il silenzio perché cominciava la  lettura e a passeggio intratteneva Rocco a rapporto.

Sotto l’apparente solidarietà di cui Rocco fu investito, tra lui e Giappone si stabilì una sorda battaglia. – Veramente tu credi che la plebaglia – diceva Giappone –  questa  – e gli indicava i suoi stessi soci, e Chiellino e gli altri  come lui – è capace di cambiare le cose? T’illudi,  questa è gente che si vende, ha paura, tornerà a baciare  le mani al padrone. E i padroni sono abili e voi –  quelli come te – volete lo scopo vostro e vi dimenticate. Dimmi la verità, quanto ti dava il partito? –

Rocco si difendeva e protestava accanitamente e riuscì a batterlo, perché nelle sue parole si sentiva che esse erano nei cuori di tutti, anche nel cuore di Giappone. L’uno e l’altro, alla fine, capirono le reciproche ragioni e divennero amici e Rocco, dicendo le parole che Giappone gli aveva suggerito – io sono un cavaliere d’onore, qui ci sono cavalieri d’onore – fu accettato nella camorra carceraria.

 

 IL MEMORIALE, L’ASSOLUZIONE E LA MORTE DI VASCO – IL GIUDIZIO SI ROCCO SUI GIUDICI

 

Rocco scrive il memoriale di Vasco, capraio, che aveva le carni odoranti di latte e di formaggio. Vasco era capo di un terzetto di spenditori di monete false. Il memoriale sfugge a una delle rigorose, minuziose ispezioni della camerata, persino tra il fieno dei pagliericci portati sulla loggiata e spulciati uno ad uno, da cui si levavano colonne di polvere.  Rocco tremava, temendo che le guardie trovassero il memoriale, e Giappone lo rassicurò: – Non ti preoccupare. Sta bene dove si trova -E, infatti, Rocco lo ritrovò nella pagnotta che il portapranzo gli consegnò dopo il passeggio.

La descrizione dell’ispezione nei suoi assurdi dettagli fa correre la mente, per contrasto, alla sommaria descrizione di Silvio Pellico delle perquisizioni effettuate nella sua cella dello Spielberg. Dice solamente che ne erano effettuate tre al giorno da due guardie accompagnate dal sovrintendente del carcere, che dopo la perquisizione si fermava un po’ a parlare. Con l’ispezione nel carcere di Matera si ha la conta dei carcerati, uno per uno, segnati con l’indice puntato sul petto di ognuno e, quindi, l’umiliante ispezione corporale. Sono sequestrati i mozziconi di lapis, le carte scritte, le cinghie, i coperchi foracchiati delle scatole di crema per le scarpe, di cui i carcerati si servivano per grattugiare il formaggio. A Rocco sequestrano una sorta di libretto per appunti fatto dal compagno di galera calzolaio con bustine di trinciato comune, sigarette «alfa» e nazionali spiegate e legate col filo.

Ma il memoriale di Vasco si salva grazie a Giappone. Urgeva però completarlo, perché il processo era imminente e il pericolo del sequestro sempre incombente.

Il terzetto di falsari erano in carcere da nove mesi, in attesa di giudizio. Rocco, scrivendo il memoriale, comprende e penetra la contorta psicologia dei carcerati nell’organizzazione della loro difesa e ha modo di esprimere considerazioni personali sulla giustizia.

Dei giudici ha la visione di una classe borghese e privilegiata, figlia della borghesia perbenista lontana dal mondo che egli sente di rappresentare. I giudici studiano i processi dalle nove all’una, quando non hanno gli interrogatori o altre incombenze; all’una vanno a mangiare al ristorante, la sera vanno al cinema. Il padre di Rocco avrebbe voluto per tutto l’oro del mondo che il figlio facesse il giudice, ma Rocco per lo stesso prezzo non avrebbe voluto farlo.

Dei giudici non ha fiducia. Ecco cosa scrive, riferendosi alla sua situazione personale: «Il mio giudice mi disse: – Dite se è una persecuzione politica, ma datemi le prove.

Io lo guardai, un secondo, con l’occhio del suo antenato e con quello di suo figlio. Gli vidi i baffi neri e la fede al dito, le labbra di creta e i suoi occhi scattavano come persiane. Avrei voluto parlargli d’altro, non gli risposi. Seppi poi che disse a un suo amico che io lo guardavo dall’alto in basso. Infatti, lui mi pareva una sveglia enorme su un comodino.  Tutti i giudici erano dei pendoloni carichi, le cui lance segnavano il tempo, le ore e i minuti e scoppiavano all’ora voluta dal potere esecutivo.

Le pochissime volte che qualcuno di loro si ribellò  e volle funzionare secondo le leggi scritte e decantate  sulle lapidi, la sveglia si ruppe prima di suonare. Un giudice che non si spiega le cose e deve seguire il  carro del potere, è lo scrivano del carabiniere semianalfabeta, è uno schiavo principe o no che può gustare soltanto il cibo che gli portano, è un meccanismo …

Macchinette siamo anche noi con molle e rotelle insostituite e insostituibili. A differenza dei giudici, siamo liberi di peccare, difenderci e accusare».

Il problema della giustizia Rocco l’aveva anche guardato con forte pregiudizio ideologico. Qualche anno prima, come membro della direzione provinciale del partito socialista, si era opposto energicamente alla proposta di denunciare un funzionario del partito che aveva commesso una qualche irregolarità amministrativa, trovando scandaloso che si volesse rimettere il caso alla «giustizia borghese».

Il memoriale, prolisso, contorto, ricco di infiniti inutili dettagli, di accuse e ritrattazioni, di tortuosi sillogismi, si articola in sette capitoli. Ne do un saggio, che si scoprirà essere crudo elemento di un dramma, che si conclude con la morte di Vasco: «Nel momento dell’arresto di Coccia Innocenzo – cominciava il memoriale di Vasco – lui dichiarò che  questi biglietti falsi l’aveva ricevuti da un certo Bartolomeo capraio, che io 4 o 5 mesi fa gli vendetti  una capra e precisamente abito alla Massaria Ficocchia  vicino al Sanatorio, è presso la strada litoranea, e dice  queste testuali parole: Io il giorno 10 Agosto vendevo fichidindia e verdure. Prima di tutto domando al Coccia Innocenzo se tiene il patentino e la licenza e il posto assegnato e poi gli domando, al Coccia: Che verdure vendevi? Se questo risulta tutto giusto, allora possiamo  credere che è avvenuto l’incontro con il Bartolomeo  capraio. Ma la verità risulta che lui è un commerciante  ambulante di formaggio, cacioricotta, uova e latticini;  non ha mai venduto fichi d’india e verdura».

Il memoriale finiva con la richiesta di assoluzione  per non aver commesso il fatto. Inoltre, Vasco volle che Rocco gli annotasse nell’ordine tutte le domande di una certa importanza che egli avrebbe rivolto al Signor Presidente.

E’ interessante leggere l’immaginario interrogatorio.

«Presidente, domandi a Caccia: Dove vendevi le  fichidinie e verdure?

– Caccia, dove vendevi queste fichidinie e verdure?

– lo? A Taranto.

– Sì, lo so. Ma voglio sapere a che punto vendevi questa roba.

– A … al Borgo.

– Ma sì. lo voglio indicato proprio il punto dove tu stavi fermo e se tu mi precisi qualche segno di  una rivendita o di una cantina. Insomma voglio indicato qualche segno da te.

– Ah! Ho capito. lo vendevo fichidindie e verdure  a Via D’Aquino, vicino al movimento.

Ecco, Signor del Tribunale, come fa a vendere questa roba a Via D’Aquino, è proibito. I carretti non possono transitare, a causa del movimento. Come portava la merce, con l’aeroplano?».

«Vasco saltava di nuovo avanti ai cancelli felice  delle risposte ingenue del suo complice scemo e delle  sue battute fulminanti».

Il processo si risolse favorevolmente. Vasco e i Ciafarro furono assolti, Caccia rimaneva dentro ancora qualche mese».

Qualche anno dopo i giornali avrebbero pubblicato la notizia che Bartolomeo Vasco, capraio, era morto ucciso da ignoti, di notte, in una casa di campagna, la Masseria Ficocchia, presso il Sanatorio, vicino alla strada litoranea.

 

Il carcere era un nido nella chioma del cielo. L’orologio lontano della città, in capo al giallo palazzo del tribunale, era un pezzo del cielo azzurro, che si intravedeva  dalle persiane attraverso il fogliame degli alberi a seconda come si muovevano. Si potevano vedere le lance  una alla volta, il difficile era però indovinare a dirigere  l’occhio verso il cerchio azzurro, che si spostava nel  cielo. Il catalogo dei detenuti dell’ufficio matricola annoverava i giudicabili per i reati più gravi, omicidi,  banda armata, rapine, furti, violenza carnale, i transitanti e i minorenni; in maggioranza, erano i contadini  del gruppo dei reati per resistenza e violenza a pubblico  ufficiale, per istigazione a delinquere, per sedizione e  per. tutti quegli altri crimini, variamente definiti dal  codice, delle agitazioni contadine. Di 170 collegianti,  Rocco era il solo che avesse studiato. La camerata numero  sette, dunque, accanto all’ufficio Matricola, al primo  e ultimo piano del convento, gli apparteneva di diritto

 

BRANCACCIO – IL PRTE MAGO DI SAN CHIRICO

 

A capo della fila di fronte a quella di Rocco, stava Brancaccio, col letto un po’ discosto dal pulpito, sotto l’altra  finestra, obliqua al foro della porta del cancello, dove menava per provvidenza una piacevole corrente d’aria,  che cacciava nel suo tubo i fetori del pulpito.

Il racconto scritto narra interamente e abbondantemente la sua vita avventurosa e fantasiosa di ladro e contrabbandiere e l’esilarante sua prima notte di nozze nella sua povera casa affollata, con la riservatezza del talamo protetta da un telo, in lotta con la moglie che accendeva la luce e lui che la spegneva. Forse il racconto sovrabbonda di dettagli, che donano tono a un singolo racconto, ma sembrano invece creare distonia rispetto all’insieme.

Il solo racconto è oggetto delle considerazioni del prof. Giovanni Battista Bronzini, che mettono in luce il giusto valore letterario di queste pagine. Le riporto.

«« Né mancano ingredienti narrativi attinti direttamente alla magia  lucana, che fanno lampeggiare dall’interno dell’universo contadino  uno speciale grottesco popolare-letterario di immagini, espressioni e  similitudini, come quello del prete mago di San Chirico che cavalca  una capra per allontanare il temporale, così somigliante, nei tratti e  nelle azioni furbesche, al Don Rafele di Marsico Vetere:

«« A San Chirico un prete sfruttatore, che nascondeva l’oro e i marenghi nelle casse in cantina e ogni sera se li contava, che portava una  zimarra da dieci anni, con questa saliva, in groppa a una capretta, al  cielo a guidare le nuvole nere, ogni anno, nel mese di agosto. In agosto  era San Rocco, il padrone, che però si festeggiava in grande a Tolve, il  paese dirimpetto, dove tutta San Chirico si spostava. Il prete non suonava le campane per cacciare la nuvola, che era sempre quella, attestata al  di qua del vallone sulle terre di San Chirico, mentre a Tolve si vedevano  le creste delle montagne e le case bianche di sole. La gente, con le  forche, con le pale per ventilare il grano, con le accette e le zappe correva a casa del prete e poi in chiesa, dove il più vecchio suonava lui  le campane. E il prete? L’avevano visto con gli occhi levarsi da terra  sulla capra, poco prima dei tuoni. Fatto sta che lui correva in cantina,  dove penetrava tanta acqua che faceva galleggiare le cassette dei marenghi e lui sopra, in paurosa preghiera. Finito il temporale, lo trovavano in  casa a mangiarsi il sigaro »».

«La storia fu raccontata da un sacerdote anche al De Martino,  che così la rinarrò nelle sue Note di viaggio in Lucania del 1953:

««C’era una trentina d’anni fa [ … ] un vecchio parroco di Marsico  Vetere, Don Rafele, il quale, per guadagnare autorità fra i contadini,  aveva lasciato creder loro di essere capace di fare la tempesta. Ora  bisogna sapere che questo Don Rafele aveva l’abitudine, malgrado gli  anni, di fare della ginnastica ogni mattina, appena alzato da letto, per  mantenersi svelto e agile nel servire il Signore: una povera ginnastica,  del resto, come può farla un parroco di campagna, qualche flessione  sulle gambe, qualche lancio delle braccia in alto o in avanti, e al massimo una specie di volteggio appoggiandosi alle spalliere di due sedie, che  fungevano da parallele. Una mattina si scatenò una tempesta, a grandine  e vento: ma Don Rafele non rinunziò alla sua abitudine, e mentre fuori  sembrava fosse venuto il giorno dell’Apocalisse, il nostro parroco, nella  sua stanzetta, dette regolarmente inizio alla consueta serie di esercizi. Vi  era però nella stanzetta un finestrino, che dava nell’orto di una contadina a nome Rosina. Poiché la tempesta aveva provocato qualche guasto  nel pollaio, Rosina, avvolta nel suo scialle, era uscita nell’orto correndo,  quand’ecco che passando davanti al finestrino vide – misericordia! – Don Rafele che si piegava sulle ginocchia, e poi insorgeva di scatto a  braccia in alto, e poi si sollevava da terra reggendosi sulle spalliere delle  sedie e lasciandosi dondolare per qualche istante per aria. Rosina guardò  un attimo, e non ebbe dubbi: Don Rafele stava «facendo» la tempesta.  Senza perder tempo, sgomenta e affannata, Rosina corse in paese, si  affacciò di casa in casa, gridando e chiamando a raccolta i contadini, col risultato che dopo qualche tempo una folla minacciosa, con forconi e  mazze, faceva ressa davanti alla casa di Don Rafele, decisa a farla finita  con questo seminatore di guai per la povera gente. Don Rafele, quella  volta, ebbe una paura grandissima: e da allora in poi, ogni volta che il  tempo dava segni di mettersi al brutto, usciva in paese a passeggio,  sorridendo amabilmente ai parrocchiani, come per dire: «Ecco, vedete,  io sono tra voi, io non c’entro»».

«Rapido e letterariamente efficace è nel racconto di Scotellaro il passaggio narrativo dal piano mitico a quello reale del prete volante disceso in cantina. Altrettanto calibrato è quello inverso, dal reale al mitico, del carcerato Brancaccio, chiamato il morto vivo perché, come lui stesso diceva, era morto già quando nacque («lo avevano messo nella cassa, lo stavano portando, la madre dette gli orecchini a San Nicola e allora lui urlò»), e che dopo questa morte annullata dal Santo aveva scelto per fame il mestiere del ladro e aveva  fatto il contrabbandiere, ma sapeva fare anche le serenate, come  quella che fece alla vedova, quando era andato a venderle pentole  di alluminio per una lira al pezzo:

– Signò, signora mia. ‘Ncapo chesta ve sta bona. Pari te ‘na regina co a’ corona -. Le regalò la pentola d’alluminio”.

Dopo dieci serenate la vedova lo accettò come secondo marito.

– Il primo era morto tornando da campagna con una fucilata di un fascista, che era impazzito a sentire «Bandiera rossa» cantata dai contadini e si era messo a sparare:

Allo stesso modo, in carcere, subito dopo il racconto sul prete  ladro di San Chirico:

Brancaccio aprì la bocca per uno sbadiglio lungo sollevando le braccia e contrasse i muscoli, poi cantò alla finestra:

Oi comme songo allere i banditi

oi quanne vanno dritte ‘e schiupputtate

volendo dire tutte le cose che noi uccelli frenetici non dicevamo ancora contro i fatti del giorno».

 

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