Brani tratti da appunti autografi dell’avv. Domenico De Maria

 

Padre Celestino, monaco secolarizzato, non aveva molta tenerezza per i galantuomini e per il loro circolo. Con la dura schiettezza che lo distingueva, nel suo espressivo vernotico ripulito, me ne dette questa definizione: “i galantuomini di Tricarico portano la “giamberica” con una pacca piena di pidocchi e l’altra piena di vituperi”. […].

 – Il più pulito di tutti, continuò padre Celestino, – tiene la rogna ed il più galantuomo dei galantuomini sta al Cupolicchio. Il Cupolicchio è una selva malfamata fra Tricarico ed Albano attraversata dalla via Appia, dove nel secolo scorso i briganti si appostavano per spogliare i viandanti. […] – Un proverbio del popolo dice: se la coda dell’asino avesse vergogna non si muoverebbe continuamente per cacciare le mosche. Don … muove la sua coda peggio dell’asino e non ha vergogna di scoprire le sue impudicizie -. Padre Celestino era un troppo severo giudice dei galantuomini del circolo. Forse avevano influito a inasprire il suo temperamento le facili fortune di alcuni dei vecchi galantuomini, i quali avevano costruito dei patrimoni doviziosi a spese dei beni spogliati nei tempi lontani al suo convento.

La parola “galantuomo” ha anch’essa un po’ di storia. Una volta galantuomo era sinonimo di signore, ma del signore dignitoso, cordiale e munifico, mentre il signore, che non avesse queste qualità, era semplicemente il “padrone”. La qualità di galantuomo imponeva rispetto e devozione e costituiva un titolo di orgoglio per chi se ne poteva qualificare. I signori un tempo coltivavano attentamente la devozione del popolino proprio per non demeritare la qualifica di galantuomo. Il galantuomo, dal principe al cavaliere, era il nucleo della vita sociale ed improntava di sé le attività di tutto il popolo, che si agitava intorno a lui. La sua clientela viveva delle sue risorse, dei suoi interessi, delle sue virtù e dei suoi difetti. Nelle sue mani era la vita economica di tutto il popolo. Tutte le terre, tutte le case erano o del principe, o del Demanio, o degli enti religiosi, o dei conventi, o dei cavalieri castellani dell’ordine ospedaliero di san Giovanni o di Malta, ovvero dei nobili, dei quali era a Tricarico un grande numero.

Il popolo, fatto di artigiani e di contadini, non aveva terre, non aveva case. Le arti vivevano dei capitali dei galantuomini. I contadini si dividevano in coloni liberi e in dipendenti, e questi ultimi avevano il nome spagnolo di “criati”.

I coloni liberi toglievano dal principe o dagli enti case da abitare e terre da coltivare direttamente e pagavano al concedente un censo o livello annuo. I criati erano pastori, porcari, gualani, massari, vignaioli, mulattieri e guardiani, che prestavano le opere per i padroni ad anno o a mese, e ricevevano in compenso case per abitare, prestazioni in natura (“manicature”), quali grano olio sale calzature e vestiario, un po’ di danaro e regalie. I diritti e i doveri dei dipendenti non erano sempre ben definiti, ma variavano secondo le fortune del padrone e il grado di devozione del dipendente. I criati non erano, per vero, come si potrebbe pensare, dei mercenari asserviti e sfruttati; essi entravano quasi a far parte della famiglia del padrone, ne erano un po’ come i membri minori, e si sentivano legati e solidali con le fortune o le sfortune dei signori. Il signore più in auge aveva i criati meglio trattati. Al padrone era legato non solo il criato, ma tutta la sua famiglia; la moglie, i figli, che per lo più abitavano nelle pertinenze del palazzo o in case vicine appartenenti al padrone o di cui il padrone pagava il fitto, vivevano in intima relazione con la casa del signore, la frequentavano quotidianamente, vi prestavano i servizi di casa, di cucina, di bucato, di magazzino, di stalla e di cantina e ne ricevevano nutrimento e regali. I signori erano molto sensibili alla devozione dei loro dipendenti ed assicuravano agli stessi protezione e assistenza in ogni congiuntura. Se costoro erano ammalati, era gentile degnazione della stessa signora del palazzo assisterli; essa scendeva nel tugurio vicino e portava, con le parole di conforto, il cibo adatto e le cure più affettuose. Se invalidi, i criati ricevevano una pensione vitalizia, continuando a godere della casa per abitarvi e delle stesse prestazioni di grano sale e olio, che ricevevano prima, e, appena i figli giungevano all’età adatta, prendevano il posto del padre. I “maritaggi” delle ragazze del popolo erano per lo più doni del signore. In tal modo il signore, che amava il suoi agi e i suoi lussi, irradiava sul popolo il benessere. Queste pratiche erano così generali, che ben a ragione la parola galantuomo, attribuita ai signori, si imponeva nella opinione del popolino come una dignità morale e richiamava rispetto e devozione. Il signore dirigeva la sua azienda da vicino e le sue rendite erano spese in palazzi, in sviluppi armentizi, in miglioramenti agrari: impianti di vigneti, di oliveti, costruzione di strade campestri, di palazzi, di fontane, di stabbi, di masserie e di ville. Anche la vita collettiva era nelle mani dei galantuomini, i quali, oltre ad alimentare le industrie artigiane, sostenevano le istituzioni sociali, che un tempo erano numerose e davano un aspetto civile a questa città.

Nel 1580 a Tricarico esisteva un ospizio e un ospedale per i poveri e per gli infermi, e le spese erano fatte dai signori e dai cavalieri di Malta. Circa venti chiese, cinque conventi, quattro o cinque confraternite, il seminario, scuole di filosofia e di teologia, bottega di pittura, porte e bastioni della città, due “concerie de corami”, due fontane, due “fornaci de vasari”, torri, piazze, monumenti stavano a dimostrare quanto alto fosse il grado di sviluppo economico e sociale di questa città, ed il tutto grazie alle iniziative, che allora non mancavano, dei signori e del clero.

In una stampa di quell’epoca si legge di Tricarico: ” Hinc amoena fructiferorum montium juga urbi imminent; illinc laetissimi campi per spaciosam planitiem porriguntur. Tam montuosa quam plana fontibus passim scatent, ac multis rivulis irrigantur. Tellus optimum frumentum ac vinum laudatissimum, frugesque omnis generis, quidquid denique ad vitae tam voluptatem quam necessitatem spectat, copiose producit……Nec religiosi modo ed Catholicae fidei servantissimi sunt incolae, sed insigni etiam morum urbanitate praediti, Nobiles presertim, quorum hic est magnus numerus”. E in una veduta della città, com’era a quell’epoca, una leggenda ci indica, là dove oggi non troviamo che mucchi di tuguri cadenti e casupole affumicate e mura sbrindellate, tutta una fioritura di opere e di monumenti, che rivelavano per davvero una “insigne civiltà di costumi”, che oggi non è più: Seggio della nobiltà, hospitale; porta le Monte, porta la Fontana, porta la Rabata, porta la Saracena, porta Vecchia, porta le Beccarie; castello del principe, torre principale, viscovado; palaggi del cavalier Castellano et altri castellani; palaggi de Corsuti, de Veronica, de Ronca, de Monaco, de Ferro, del barone Campolongo, de Cetani, de Zotta, de Abate, de Imperatrice, de Ipolito, de Russo, de Marchese, de Capaccia, ecc; palaggi del spetiale Maiorino, del pittore Ferro, del philosopho Campilongo, del philosopho Durante del philosopho Amati, del cantante Froggione, ecc. Di tutto questo restano soltanto i vestigi guastati dall’abbandono e dalla povertà. Nel cuore del popolo è ancora vivo il ricordo nostalgico di un mondo che è cambiato in peggio, di una vita una volta felice, di una fiorente economia distrutta. Quali le cause di queste rovine? Il popolino, con il suo acuto senso di osservazione e di giudizio, ha fermato una data: 1860, “quando i piemontesi e i bersaglieri ci vennero a fare la guerra”. Ahimè! questa data, che segna nella storia nostra la più bella conquista ideale, la unità di una patria comune, di una religione, di una lingua, di una tradizione comune, purtroppo è anche la data che segna le maggiori sventure toccate a un popolo una volta economicamente felice. È un’amarezza, che il nostro popolo sente vivamente, e per essa patisce un po’ anche il nostro sentimento di devozione all’ideale di una patria comune. È una crudele verità questa, che dovrebbe far meditare i nostri fratelli del nord. La sostituzione dei rigidi sistemi fiscali del Piemonte a quelli borbonici più flessibili e temperati hanno pesato sulla economia rurale del meridione, deprimendola. Il sistema economico settentrionale, eminentemente industriale e commerciale, doveva necessariamente comprimere e soffocare la economia meridionale, quali esclusivamente rurale, domestica e artigiana. Il signore non ebbe mai il coraggio di affrontare la situazione creatasi con il contatto fra i due differenti sistemi fiscali ed economici; non ha saputo trasformarsi da signore a mercante, non ha saputo prendere l’iniziativa di industrializzare la sua azienda, di meccanizzare l’artigianato; ha continuato ancora per un po’ nel vecchio metodo patriarcale, fino a quando le industrie del nord gli hanno portato via a vil prezzo le lane e gli altri prodotti, per ritornarvi manufatti e trasformati, ed ha visto sfuggirgli a poco a poco il suo prestigio di signore, di padrone. Allora il signore si è inurbato: ha abbandonato il suo palazzo al vuoto e alla muffa, ha affidato la sua terra al contadino, senza sostenerlo, aiutarlo, guidarlo, ed il contadino ha dovuto far da solo senza mezzi e senza consiglio. Il signore incaricava della sorveglianza e dell’esazione delle rendite l’esoso guardiano; e spendeva le sue rendite lontano dal paese, senza che ne potessero in alcun modo beneficiare e la terra e i criati, che gliele avevano prodotte. Il signore continuò a godere i suoi agi, ma essi non consistevano più nella bellezza dei suoi palazzi, nella prosperità delle sue terre, nel numero dei suoi armenti e dei suoi criati; ora consistevano soltanto nel lusso del suo quartino di città, del salotto abbellito di damaschi e di specchi, delle carrozze che lo portavano al teatro o ai ricevimenti. Il contadino o il criato non aveva più relazione col signore, ma solo con il guardiano; aveva perduto i benefici della sua vita ai margini del palazzo. Fra padrone e criato rimaneva ora nulla più che il freddo rapporto di lavoro e l’interesse dell’uno contrapposto a quello dell’altro, che portava a diffidenza reciproca, a contrasti, a malvolere, a odio. Il contadino, lasciato a sé stesso con il solo sussidio delle sue braccia, stremava i suoi sforzi sulla terra. La terra respingeva il contadino che la svenava a colpi di zappa, e reagiva con il dispetto della sterilità, perché si sentiva offesa per la bellezza, che non gli si dava più, dei suoi vigneti, dei suoi ulivi, delle sue sorgive, delle sue strade, delle sue ville. Il cafone zappatore, sfiduciato, rinnegando la terra insterilita, finiva per abbandonarla e partiva lontano verso una speranza di vita e di ricchezza: l’America. Allo stesso modo l’ingegno e l’arte non trovavano più nel paese nativo il modo di vivere e di svilupparsi ed emigravano anch’essi verso il nord o all’estero, al servizio e a decoro di una terra che non li aveva partoriti e nutriti, di una gente che non li aveva allevati. Dei signori disertori tornarono poi al paese di origine i nepoti falliti per raccogliere e vivacchiare delle superstiti terre impoverite. Riaprivano il lato meno cadente dell’antico palazzo e vi stipavano gli avanzi tarlati dei vecchi armadi di noce e dei cassettoni listati di oro zecchino. Gli eredi dell’antico signore riportavano con sé dell’antica grandezza e dignità solo l’orgoglio, la pretesa di un rispetto e di una devozione, che non meritavano più, il bieco rammarico della decadenza e dell’avvilimento, l’apatia torbida degli sconfitti, che si avvelenavano di rancore e di odio contro quel mondo che essi non avevano saputo conservarsi. E così il galantuomo divenne semplicemente il renditiero gretto e spilorcio, che viveva della miseria del popolo. E la parola galantuomo perdette il suo antico significato di dignità, di munificenza, di generosità, e acquistò nella opinione del popolo un significato spregiativo e odioso. “Stare a fare il galantuomo” oggi per il popolino vale a dire “non far niente, vivere alle spalle degli altri”. Galantuomo spesso fa pariglia con “palazzuolo”, che è detto di chi, come il galantuomo, abita in palazzo. Le due parole sono usate ugualmente come sinonimi di fannullone, di ozioso e simili. – Non ho terra da lavorare – ironizza il disoccupato – e mi tocca fare il palazzuolo. Il popolino, che ha conosciuto, un tempo, il circolo quale “casina dei galantuomini”, nel senso buono della parola, quando la parola aveva solo quel senso buono, oggi continua a chiamarlo alla stesso modo, ma con il senso spregevole, che alla parola galantuomo viene oggi comunemente attribuito.

Ragionando a questo proposito nel circolo, io facevo osservare che il mutato significato della parola avrebbe dovuto portare alla creazione di altra parola per significare i galantuomini in senso buono, ovvero ad adottare solo quella di palazzuolo per il senso cattivo. Consideravo io che i dialetti, a differenza della lingua viva, non hanno parole, che importino più di un significato. Un amico con molto acume mi faceva osservare che il nostro popolo voleva mantenere, di bel proposito, il doppio significato, buono e cattivo, alla sola parola galantuomo, per costituirsi con l’equivoco un alibi, ogni volta che da una ingiuria potesse derivare un fastidio. Questa non è una sottigliezza, è una osservazione molto acuta, che trova la sua spiegazione nello spirito del nostro popolo, che nelle ingiurie e nelle invettive è solito valersi o della forma indiretta o della frase equivoca proprio per avere il modo di scusarsene all’occorrenza. Per esempio, chi vuol dir male della moglie dell’avversario, dirà sul viso allo stesso: – Mia moglie non mi ha fatto mica le corna… – e chi vorrà dare del brutto a taluno, dirà: – Quanto sei bello fatto!… Ma anche padre Celestino trovò da dire la sua sulla quistione filologica: – Non c’è proprio ragione che il popolo si dia la briga di creare una parola nuova per i galantuomini veramente galantuomini; sarebbe una cosa inutile, perché dei veri galantuomini si è rotto lo stampo e non ce ne sono più.

 

8 Responses to Appunti sulla vecchia Tricarico

  1. Gilberto Marselli ha detto:

    Grazie di queste note. Credo che, a suo tempo, tramite Rocco Mazzarone ebbi anche io il piacere e l’onore di incontrare il vecchio Avv. De Maria che volli gli parlassi della nostra ricerca su Matera, Bei tempi davvero……..

  2. rocco albanese ha detto:

    Fantastici questi appunti! Che mostrano diverse faccie, dalla storia vera al sociologico così importante per comprendere tante cose. Fatto sta che tantissimi termini, come galantuomo, oramai sono in totale disuso, rimpiazzati e fagocitati da tutto ciò che esce fuori dalla rete….

  3. rocco albanese ha detto:

    Ciao caro Antonio
    Scusa se colgo l occasione per ringraziarti del ricordo e delle bellissime cose scritte su zia Maria Albanese. Grazie anche da parte dei famigliari, che hanno apprezzato molto

  4. Antonio ha detto:

    Grazie per queste “pillole” di storia tricaricese , e non solo,che ridanno linfa alle nostre radici ed aiutano a capire come si siano formati nel tempo opinioni e sentimenti popolari.

  5. Antonio ha detto:

    Caro Antonio, scusami se ti investo di una mia personale ricerca di storia tricaricese:L’evoluzione della presenza a Tricarico di strutture sanitarie -ospedali, farmacie, laboratori chimici ecc..-e chi sono stati gli operatori in questi campi.La nota ,preziosa ,che hai riportato parla di una presenza già nel 1580 di una struttura ospedaliera e,se ho capito bene ,di uno speziale(ovvero farmacista ) Migliorino -nome di cui ignoravo l’esistenza- per cui ti chiedo se hai notizie sulla successiva evoluzione della presenza a Tricarico di medici e farmacisti.La mia conoscenza si ferma ad un documento del canonico Daraio che fa riferimento a Fortunato Bruno (mio nonno) come chimico-farmacista ed insegnante presso il locale Seminario vescovile.In questo caso siamo alla fine dell’Ottocento ,primi novecento.Mi piacerebbe tanto poter riempire ,di notizie e nomi ,questo lungo periodo storico,Scusami ancora e ,comunque ,colgo l’occasione per inviarti tanti cari saluti.

    • Antonio Martino ha detto:

      Caro Tonino,
      Scusa il ritardo della risposta: ti ho letto con ritardo perché mi ha ingannato la nostra omonimia. Posso dirti dell’esistenza del bisnonno di mia moglie. Lo speziale Domenico Lavecchia era il padre di Cristina (da cui ha preso il nome mia moglie), madre di mio suocero, Domenico De Maria, che dal nonno speziale prese il nome.
      Il detto speziale pare avesse avuta passione di ebanista e che avessde personalmente costruito i mobili della sua farmacia, che furono acquistati dal farmacista don Pietro Laureano, quindi dal farmacista Mario Biscaglia. Ora, con la sigla del suo nome (D.L.) formano il mobilio della farmacia Biscaglia/Santangelo.
      Domenico Lavecchia era anche padre di Giovanni, padre si Bianca, moglie di Michele Molinari.
      Un caro saluto, Tonino

  6. Antonio ha detto:

    Caro Antonio,
    Hai ragione devo modificare il mio riferimento altrimenti interferisce con i tanti Antonio tricaricesi .Devo capire come farlo.Ti sono molto grato per le informazioni che mi hai dato,che ignoravo completamente.Mi aiutano ad andare indietro almeno fino alla metà del all’ottocento. Ma ciò che è già interessante è la constatazione dell’esistenza di due farmacie a Tricarico in epoche remote. Questo dimostra ,anche sul piano sociale, culturale e scientifico (le farmacie di allora erano sostanzialmente dei laboratori di farmacopea e non dei distributori commerciali)che Tricarico aveva un livello alto di composizione sociale e professionale ,in campo scientifico ed umanistico,tale da poter essere considerata più una cittadina che un paese. Questo rilancia una domanda inquietante: quando e perché è iniziato il declino di Tricarico e per quali ragioni socio economiche. Alcune si intuiscono-la crisi dell’economia agricola, una unità d’Italia penalizzante per il sud,ma penso che bisogna ricercare anche su quali processi negativi hanno disgregato le classi dirigenti locali? cosa è stata la politica locale tra 700 ed 800 ? Quella del 900 in parte si conosce. Il ruolo della chiesa ,in queste epoche.Capire il passato aiuta anche a capire noi stessi che di quel passato siamo gli eredi con pregi e difetti.
    Un caro saluto e soprattutto continua ad alimentare questa stupenda rubrica che leggo con interesse e spesso nostalgia,
    Tonino C.

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