Non c’è ritorno senza sofferenza: al ritorno spinge la nostalgia, che è, appunto, il dolore del ritorno: nostos (ritorno) e algos (dolore). La nostalgia oscilla tra la tristezza, per ciò che abbiamo perduto e non può ritornare, e la pienezza del rivivere, immaginando, ciò che è stato. Ma per rivivere immaginando bisogna tornare a casa. Non a caso la parola fu inventata nel secolo XVII da un medico, che registrò i casi di uno studente e di una cameriera, che soffrivano gravi problemi di salute, che li portarono sul punto di morire. Per ragioni diverse entrambi vennero riportati a casa, per morire in famiglia, ma dove, miracolosamente, entrambi recuperarono una florida salute. Una volta c’erano medici che per debellare forme di depressione e di malinconia consigliavano l’ «aria natia»: di questo suggerimento beneficiò anche mia madre.

Casa non sono (solo) le quattro mura in cui sé vissuti, ma è l’infanzia; sono i giochi dell’infanzia e gli amici d’infanzia, che tali restano per tutta la vita, anche se ci si sperde per le strade del mondo e non ci si tiene in contatto; e, quando non ci sono più, il sentimento che ci univa a loro si riversa nei loro figli; la casa è la sorpresa crescente della scoperta del mondo, sono i vicini di casa, il vicinato, la piccola comunità del paese per chi ha avuto la fortuna di nascere in un paese. Un paese è la storia di una piccola comunità in cui si nasce per caso, ma a cui si rimane legati per sempre; anche chi tende a fuggire e a dimenticare,  a costruirsi una identità metropolitana o cosmopolita non taglia, non riesce a tagliare il cordone ombelicale. Il proprio paese si abbandona per la crudeltà del destino o per esigenze di vita o per libera scelta o per vocazione, e vuol dire, come scrive Cesare Pavese ne «La luna e i falò», non essere soli, vuol dire sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.

Quando frequentavo la prima media a Napoli, a unici anni, il tram che mi portava a scuola, aveva una fermata davanti la reggia di Capodimonte, che era la residenza della duchessa Elena di Francia, moglie del Duca d’Aosta, cugino del re e valoroso comandante militare della prima guerra mondiale, e madre del duca d’Aosta jr., che sull’Amba Alagi difese valorosamente l’ultimo pezzo dell’effimero impero mussoliniano, e morì dopo un anno di prigionia per una grave forma di tubercolosi. Di fronte c’era un pezzo della Napoli vera e popolana: un negozio di generi alimentari, una rivendita di Sali e tabacchi e alcune case di abitazione, e strade dove circolavano carretti con cibo di strada. Lo squilibrio sociale annullava il rapporto di vicinato,  e specialmente quando giunse la notizia della  morte del duca, e anche quella mattina il tram si fermò davanti all’ingresso della reggia, avvertii il senso di un irreparabile mancamento di umanità.

La nostalgia è un sentimento dell’anima. Se torni, quando torni, trovi cambiamenti che non riconosci e non accetti. La casa non c’è più. E’ stato il motivo del dissenso tra me e mia moglie, che ci tiene lontani da Tricarico. Cercavo di convincerla che ci rimane il prezioso scrigno dei ricordi;  ma lei opponeva il rischio, tornando, di sciuparli, i ricordi, di perderli definitivamente. Con la sua fredda razionalità matematica ha fatto restaurare la cappella cimiteriale della sua famiglia per l’estremo nostro ritorno.

Il conferimento della cittadinanza onoraria a Gilberto Marselli, mio amico carissimo da circa settant’anni, dai tempi di Portici con Rocco, e il riconoscimento di cittadino illustre attribuito al fratello Giovanni, l’ha convinta che il ritorno non fosse più eludibile. Ma proprio allora cominciarono mie ridicole ansie, che mi trattengo dal confessare.

Si parte. All’aeroporto di Bologna mia moglie incespica nel pavimento sconnesso e cade distesa a terra. Prende un colpo alla testa e alla  mano, che qualche anno fa subì una frattura scomposta. Per fare la cosa giusta saremmo dovuti tornare a Ferrara e mi pento, perché non tornare a Ferrara è stata una mancanza di riguardo verso mia moglie e un mio atto di egoismo. Visite ai Pronto soccorso degli aeroporti di Bologna e di Bari, all’ospedale di Tricarico, perché col passare del tempo aumentava il dolore alla mano e il gonfiore; lì le hanno ben steccata la mano, ma non effettuata un’indagine radiologica, per la rottura dell’apparecchio radiologico, l’assenza del tecnico, il sopraggiungere della domenica. L’indagine è stata finalmente eseguita nel supertecnologico Poliambulatorio Ballarin di Ferrara, dove è stato accertato che la caduta non ha lasciato alcuna conseguenza.

Da Bari a Matera non ho riconosciuto le strade, che si percorrevano ai miei tempi e mi davano ansia per il loro andamento noioso e monotono, con frequenti dune, che spuntavano improvvisamente, provocando talvolta incidenti anche mortali.

A Matera, per Tricarico, c’era un’ora e mezzo di viaggio col postale della SITA attraverso un tratto dell’Appennino lucano della romana via Appia, che noi, senza alcuna ironia, chiamavamo Via Nuova. Il postale congiungeva Matera a Potenza, e viceversa, con una sola corsa giornaliera, attraversando quattro Paesi, che dominano dall’alto la valle del Basento.

Miglionico, dove sono le origini della famiglia D’Alema. Alcuni D’Alema, prima e dopo l’Unità, sono stati sindaci. L’ultimo sindaco D’Alema continuò per un anno ad amministrare il comune come podestà.

Grottole, una diecina di anni fa balzato alla notorietà per merito di un felice romanzo, forse un capolavoro, di Mariolina Venezia, «Sono mille anni che sto quì», edito da Einaudi, che narra la saga di una famiglia grottolese dal 1860 alla caduta del Muro di Berlino. «Non è facile raccontare questa storia – scrive Mariolina Venezia – a chi non conosce la valle del Basento, il cielo celeste come i colori a matita dei bambini, i pendii che il grano rende verdi a primavera e gialli d’estate, i fuochi nelle stoppie, i tralicci per l’estrazione del petrolio, i paesi agonizzanti sulle colline, il volo del nibbio».

Pagine indimenticabili di letteratura e poesie di Rocco Scotellaro, tra le più alte e significative del nostro tempo, come autorevolmente le giudicò Eugenio Montale, accompagnano il resto del percorso.

A Grottole segue Grassano, sede dei primi due mesi del confino di Carlo Levi, al quale soggiorno sono dedicate le prime pagine del «Cristo s’è fermato a Eboli».

Da Grassano, appena si scende con rapidi tornanti dall’alta collina dove il paese si stende come morbide trecce, ci si avvia verso Tricarico, lambendo un campo con una pompa di benzina, che fu la Repubblica di Michele Mulieri, figlio del Tricolore. sofferente di dolori burocratici, una delle cinque vite di contadini narrate da Rocco Scotellaro nei «Contadini del Sud».  Ogni squarcio di paesaggio ritorna nelle poesie di Rocco Scotellaro, o nelle pagine dell’Uva puttanella. Ritorna il brigantaggio: Spuntano ai pali ancora le teste dei briganti/ e la caverna, l’oasi verde della triste speranza/ lindo conserva un guanciale di pietra.

Questo percorso, ora, potevo solo immaginarlo. Quello attuale, quasi  tutto nell’area di Ferrandina, secondo quanto segnalava il mio smartphone, ha dimezzato la distanza tra Matera e Tricarico. Non mi pare o non ricordo di aver visto, segno di indifferenza, i tralicci per l’estrazione del petrolio, ma minacciose donchisciottesche grandi eliche eoliche. Al bivio ritorna la mia strada, ma, aggirata la Serra, non si scorge il semplice e nudo paesaggio di Tricarico, scivolante verso la torre Saracena, che Rocco, studente liceale, canta nella lirica «Lucania».

Il nostro alloggio era a fianco del casino Gigli, a circa due chilometri. C’era una volta il casino Lippolis; di fronte, sulla tempa di Santa Maria, il casino De Maria, dominante la vallata del Basento, di fronte alle Dolomiti lucane e alla foresta di Cognato; in curva, di fronte alla chiesetta di Sant’Antun, il villino Maria di un viceprefetto o prefetto residente a Bari, che a Tricarico non ricordo di aver mai visto. A destra, qualche centinaio di metri avanti, c’era il casino Gigli, col suo lungo bel viale alberato.

Un ricordo mi attraversa la mente e non posso non raccontarlo. D’estate studiavo con Benito Lauria, meglio, studiavamo, ciascuno le sue materie, sul fresco terrazzo di casa Lauria. Ci davamo appuntamento alle sei in piazza; ciascuno aveva nella petturina una grossa fetta di pane; entrambi non avevamo una vigna e ci ritenevamo in diritto di effettuare un esproprio proletario; la nostra passeggiata durava fino al casino De Maria, lì, protetti da sicura immunità garantitaci da don Mimì, staccavamo dalle viti due scelti grossi grappoli d’uva. La conoscevamo bene la vigna De Maria, sapevamo ogni filare di viti, che indicavamo a Giovanni, quando al casino andavamo con lui, che la sua vigna non la conosceva affatto.

Abbiamo alloggiato in un villino a fianco dell’ex casino Gigli. Questo è tolto alla vista da un orribile portone di metallo. Un cancello, a fianco, mostra la discreta esistenza di un casino, per dirla alla tricaricese. Si chiama villa Rosmarino, ben armonizzata con l’ambiente, confortevole ed elegante, munita di ogni comodità, sicuramente progettata dai bravissimi architetti tricaricesi. Di fronte c’è lo stupendo panorama di Tricarico.

Dalla Preta, che non c’è più, fino alla curva di Santa Maria, c’è un ammasso di case, costruite alla rinfusa, senza alcun piano (posso sbagliarmi, ma io così le ho viste). Ora, se la popolazione di Tricarico si è dimezzata (ricordo che a un censimento ci aspettavamo che la popolazione avesse raggiunto i diecimila abitanti, per passare dal sistema maggioritario a quello proporzionale per l’elezione del consiglio comunale), se ancora di più si è dimezzata la classe dei contadini, e, oltre al Villaggio, un altro paese è stato costruito lungo la via Appia, pare evidente che il centro storico si è svuotato e che le grandi case civili di Tricarico, delle famiglie, che hanno fatto la sua storia, sono chiuse e condannate al decadimento.

Ci è stata negata la vista dell’incomparabile paesaggio della valle del Basento, di Cognato e delle Dolomiti lucane; al cimitero non sono riuscito a trovare la sepoltura di Antonio Albanese né la cappella di mio cognato Paolo Carbone, alla cui sepoltura, dopo 58 anni di vedovanza, è stato unito un pugno di cenere della moglie, mia sorella Maria; sulla tomba di Rocco Scotellaro non si leggono i cinque versi finali della Marsigliese contadina (Sempre nuova è l’alba) e, dietro, alte e fitte erbacce coprono la vista della valle del Basento.

Troppo breve e impegnato, peraltro, è stato il nostro soggiorno e non mi azzardo a sputare sentenze. Il restaurato palazzo Lizzadri, il meraviglioso restauro della torre Normanna, mostratoci e illustratoci con grande competenza e cortesia da Mimmo Langerano, il Museo del palazzo Vescovile, alla conoscenza del quale, con altrettanta competenza e cortesia, ci ha condotti Carmela Biscaglia, mi fanno capire che mi ero incamminato su un terreno scivoloso.

Ho capito, abbiamo capito che il vero  ritorno, il compimento del nostos, ha luogo e può aver luogo nella realtà stessa di Tricarico. Qui è chiaro quanto sia forte il dolore che si soffre quando si desidera tornare a casa e si scopre che quel ritorno è a pieno titolo impossibile. Chiedo scusa per il paragone col ritorno di Ulisse. Quando Ulisse si sveglia dal sonno che lo ha colto sulla barca dei Feaci, egli non riconosce Itaca «da tanto che era lontano». Tutte le cose gli sembravano estranee: i lunghi sentieri, i comodi porti, le rocce inaccessibili e gli alberi floridi (Odissea, XIII). Minerva, che gli si manifesta in forma di giovane pastore, gli rivela che la terra in cui si trova è ricca di grano e di vino, la pioggia la bagna, capre e buoi la popolano, è un’isola famosa che si chiama Itaca.

Anche a noi – a me e a Titina – si è rivelata la nostra Minerva in una sembianza plurima. Si chiama Sabrina Lauria, Domenico Langerano, Lina Marchisella, Carmela Biscaglia. Grazie a loro, al loro calore e affetto, alla loro calda amicizia, al loro produttivo amore per Tricarico, si è compiuto il nostro vero ritorno a Tricarico nella realtà stessa del nostro paese.

13 Responses to Ritorno a Tricarico

  1. Mery Carol ha detto:

    Ho visto le foto. Mozzafiato! Auguri a Titina

  2. Antonio Martino ha detto:

    Dove le hai viste? Di foto non so nulla. Auguri perché a Titina?

  3. rocco albanese ha detto:

    Sono daccordissimo che anche se si fugge dal paesello per svariate ragioni, si rimane indissolubilmente legati.
    Mi dispiace che non hai trovato la tomba di zio Antonio,
    è sul pendio di fronte a Scotellaro dietro una cappella.
    Leggendo le impressioni sul ritorno, mi sono un po rattristato, immagino che le sensazioni e i sentimenti siano stati forti e strani. Vivendoci, penso che i nostri figli purtroppo avranno ben poco da stare tranquilli, economia latitante, l aspetto più preoccupante è il sociale. Ricominciare dalla scuola, insegnando i valori veri, i bambini e i ragazzi si stanno smarrendo….

    • Antonio Martino ha detto:

      Caro Rocco,
      Mi dispiace non averti visto: forse non eri a Tricarico? Ho cercato la tomba di Antonio sul pendio che indichi: ho visto le tombe una a una, non trovando quella di Antonio. Non avevo idea dove cercare quella di Nicola. La mancanza di tempo e … del camposantiere …

  4. Angelo Colangelo ha detto:

    Caro Antonio, finalmente torno a leggerti, e con grande piacere. La tua narrazione, che attinge al mare immenso dei ricordi, è sempre interessante, piacevole e, per certi versi, edificante. Mi dispiace, però, che il tuo tanto sospirato viaggio di ritorno nella tua Itaca sia stato funestato dall’incidente occorso a tua moglie, cui auguro una pronta e piena guarigione. Così come mi dispiace che sia stato per me impossibile incontrarti e conoscerti di persona per le ragioni che sai. Un caro saluto, Angelo Colangelo

    • Antonio Martino ha detto:

      Caro Angelo, Ti ringrazio per la tua attenzione. L’incidente non è stato grave, anche se mia moglie ha dovuto sopportare dolore e disagio tutti i giorni in cui siamo stati a Tricarico; ma la cosa che più ha turbato il ritorno è stato il mio scrupolo di non aver interrotto il viaggio, di averci pensato solo quando eravamo in volo. Un caro saluto, Antonio

  5. Gilberto Marselli ha detto:

    Caro Antonio, come puoi ben immaginare, nel mio piccolo, anche io avevo “nostalgia” di Tricarico e di molti dei posti da te indicati. Purtroppo, non vi ho mai vissuto a lungo;ma, ogni volta che vi sono stato, sono stato profondamente preso da quell’atmosfera, da quei luoghi, dalle persone che i due Rocco (Mazzarone e Scotellaro) mi facevano incontrare. Può sembrare eccessiva l’esternazione, da parte mia, di questo mio profondo sentimento di “tricaricese”, che non lo indosso solo per giustificare il prezioso riconoscimento che mi è stato dato (cittadinanza onoraria). L’ansia che mi ha fatto compagnia durante tutto il viaggio verso Tricarico, i volti ed i luoghi che ho riconosciuti come a me molto cari, l’oggettiva situazione che si era venuta a creare non potevano non darmi quell’agitazione che solo difficilmnete non senpre sono riuscito a controllare. Ne è derivato che, quando mi è stata data la parola, mi sono sentito perso (io noto affabulatore) da un senso di smarrimento (tanto da aver errato perfino il cognome di tuo cognato quando mi sono rivolto a lui !). Ma, ciò nonostante, improvvisamente mi sono sentito rinascere: ho ripercorso molti dei momenti trascorsi con I due Rocco e, ciliegina sulla torta, ho trovato in te anche molti dati fisici di Rocco Mazzarone: mi ci sono completamente ritrovato in te. Devo chiedere a tutti voi, ai tricaricesi conosciuti e non, alla Sindaco ed alla Bisceglia se non sono stato all’altezza del compito che mi avevate assegnato; ma la vita è fatta anche di queste manchevolezze. A te, infine, un caloroso abbraccio per ringraziarti di queste tue preziose pillole di saggezza ed un rispettoso inchino a tua moglie perché è indubbio che anche a lei dobbiamo molto della tua personalità attuale…

    • Antonio Martino ha detto:

      Carissimo Gilberto, Io sento di dover esprimere onore e riconoscenza a Angela Marchisella, sindaco di Tricarico, per averti conferito la cittadinanza onoraria del paese dei due Rocco. Lei, come e con Rocco Scotellaro,ha capito il senso di tali decisioni. Rocco conferì la cittadinanza onoraria a Carlo Levi (ma nessuno lo sa a Tricarico), Angela l’ha conferita a te. Sono orgoglioso di essere paesano di Carlo Levi e di Gilberto Marselli!

  6. Rocco Albanese ha detto:

    Sinceramente non sapevo di preciso quando sareste venuti,
    sarebbe stato un grande piacere, svolgo un lavoro che mi assorbe tutta la giornata e spesso si finisce a tarda sera. Il sabato pomeriggio è dedicato a mia figlia, piscina a Matera ed altro, la domenica a tutta la famiglia. La tomba di zio Antonio è l ultima sul pendio a ridosso della parete di dietro di una cappella, comunque c è la foto. Papà è sepolto nei loculi della zona nuova del cimitero, il camposantiere non è semplice trovarlo….
    Il mio bel ricordo di te rimane l ultima volta che venimmo a trovarti con zio Antonio in casa tua.
    con affetto Rocco

    • Antonio Martino ha detto:

      Grazie, Rocco. Il destino ha infierito in modo crudele sull’amicizia con Antonio: nelle ultime settimane della sua vita abbiamo potuto colloquiare solo con le mie cartoline illustraie; ora non sono riuscito a salutarlo sulla sua tomba.

  7. angelo colangelo ha detto:

    Ciao, Antonio. L’album fotografico, straordinario, è sul sito Lucanineuropa facebook, curato da un caro amico di Stigliano, anche lui emigrato in Emilia. Stamane ne ho informato amche Gilberto. Un abbraccio, Angelo

  8. Tonino carbone ipt:void(0) ha detto:

    La nostalgia X Tricarico è stata ed è una costante della mia vita di girovago. da quando ,a nove anni , con il postalino delle 21, da piazza Garibaldi ,sotto casa, partivo per la stazione ferroviaria -Grassano, grottole, Tricarico- e poi prendere il treno da Taranto verso le 24,30 per Roma (affidato a qualcuno che faceva lo stesso tragitto)e poi proseguire per Perugia . Questo quattro o cinque volte l’anno per ben nove lunghi anni. Del lacerante dilemma tornare o non tornare a Tricarico,nei fatti ,ho scelto la seconda soluzion. Alla
    fine è la meno traumatica .E’ quella che ti lascia ,almeno sul piano teorico ,aperta una speranza:ritrovare il vissuto .
    Il villino Maria ,a cui fai riferimento era (ricordi labili) si del prefetto di Bari dell’epoca il quale non so dirti per quali percorsi era uno zio di mamma -Giuditta Bruno-quindi suppongo o Bronzini o LaRocca -e veniva di rado a Tricarico ma ospite fisso a pranzo dalla nipote che era mamma. ricordo che il pranzo ufficiale prevedeva i bignè in brodo con il parmigiano- Di fronte a quel villino, sopra la fontana c’era il mio pezzo di terra tricaricese che babbo volle acquistare ed intestarmi perché ero il più piccolo ed andavo tutelato nel tempo. (Babbo mori alcuni mesi dopo ) Ma lasciamo perdere …..un caro saluto , Tonino C. (Ho cambiato la mia sigla per non creare omonimie)

    • Antonio Martino ha detto:

      Caro Tonino,Siamo in tanti che avremmo voluto perire dentro la nostra aria, e sono tanti quelli che quest’aria hanno abbandonato volentieri e ne sono felici. E’ la vita!
      Mi pare di ricordare che la nostra stazione era Grassano Garaguso Tricarico (non Grottole).
      Grazie per i tuoi interventi. Tonino

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