Inaspettatamente fui convocato dalla sindaco sul palco approntato in piazza per il conferimento della cittadinanza onoraria di Tricarico a Gilberto Marselli e di uno speciale riconoscimento a Giovanni De Maria per i suoi meriti scientifici. Raggiunsi lentamente il palco col pesante passo lento di chi si reca alla ghigliottina, protestando in lacrime: – no, no.

Sono un vegliardo, oramai. La vecchiaia o ti colpisce alle gambe o ti colpisce alla testa, e della fragilità dei vecchi non si ha pietà e non ci si vergogna di non avere comprensione. Non ho mai dimenticato il caso di Vittorio Emanuele Orlando: il Presidente della Vittoria, grandissimo giurista e statista, che raccolse la dichiarazione di resa dell’impero austro-ungarico. Tornato in tarda età (più o meno tarda come la mia), dopo la parentesi fascista, nelle assemblee legislative, in Aula o nel Transatlantico si muoveva con andatura veloce e passo fermo. Colleghi, pigmei al suo confronto, commentavano: – Guarda, guarda Vittorio Emanuele come è saldo sulle gambe e come è spedito il suo passo: volendo alludere che la vecchiaia faceva perdere colpi al suo intelletto.

Su quale parte del mio corpo la vecchiaia scarica i suoi effetti? Sulle gambe certamente, ma non credo che sia sufficiente a mettere la testa al riparo. Accuso anche una facilissima ed esagerata labilità emotiva, una fragilità molto imbarazzante, che mi costringe a un severo controllo di ogni forma di rapporto. Non parlo in pubblico, cerco di non impegnarmi in giudizi o conversazioni serie e di astenermi dal fare complimenti. Ma quanto può essere eloquente il silenzio! Non volli, assolutamente non volli esimermi dal complimentarmi per la stupenda conferenza di una mia amica germanista di Ferrara. Le detti la mano, la voce rimase bloccata in gola, non dissi una parola, non proferii una sillaba. Lei mi scrisse: Grazie del tuo silenzio!

Si può quindi comprendere con quale stato d’animo e preoccupazione mi avviavo verso il palco, dove si onoravano due carissimi amici: conosco Gilberto Marselli da circa settant’anni, dall’inizio del triennio del suo rapporto con Rocco Scotellaro; Giovanni De Maria, nella sfera dei miei personali sentimenti, più dei suoi indiscutibili meriti scientifici, ha quello di essere il fratello di mia moglie, e ci conosciamo praticamente da quando siamo nati. Come avrei potuto tenere a freno il mio pianto? Proprio nella piazza di Tricarico, il luogo dove, più di ogni altro al mondo, è concentrata la mia vita? Mario Trufelli nel suo bellissimo libro «L’ombra di Barone – Viaggio in Lucania» scrive che a Tricarico inciampava nei ricordi. I suoi ricordi e tanti altri sono i miei ricordi. Ogni mio inciampo srotola e intreccia storie. “La piazza di Tricarico” potrebbe essere il titolo del romanzo della mia vita. Alcuni capitoli potrebbero intitolarsi: “Menonna”, “Carolillo”, “Lo Sturno”, “Il maestro Ierardi”, “La cassaforte dell’Esattoria” … .

In quella piazza ho abitato circa otto anni, nella casa che vi si affaccia con tre balconi e un  terrazzo e alla quale si accede salendo una breve scalinata. Prima che l’occupasse in affitto la mia famiglia, era stata un “albergo” gestito dal nonno di Mario Trufelli, don Michele Valinotti. Il paese non aveva particolari esigenze ricettizie: più che alberghi servivano taverne. L’albergo veniva incontro soprattutto alle necessità di alloggio dei confinati, tra i quali ci fu don Calò, don Calogero Vizzini, capo assoluto della mafia.

Nel libro «Quando i galli si davano voce», Mario Trufelli, con lievi pennellate, descrive il clima del tempo e la coesistenza di quattro confinati diversi per interessi di vita, età, condizioni sociali. Tornando a don Calogero, il nonno di Mario lo definiva un «vero signore» e chiese di dare il “don”a lui e a Luigi Gobbi, proprietario antifascista della Valle Padana. «Di Calogero Vizzini – è Mario Trufelli che racconta – non sappiamo nulla. E’ un siciliano, è piuttosto anziano, non parla quasi mai. E’ un uomo grasso e tranquillo, fischietta di continuo. Alla zia da fastidio quando se lo vede girare intorno in cucina per prepararsi i suoi pasticci di riso, latte e cioccolato». Quest’ospite siciliano anziano – aveva 58 anni! – di cui non si sa nulla, taciturno, tranquillo e discreto, era, ripeto, don Calò, il capo assoluto della mafia, un grande criminale carico di assoluzioni, come lo definiva con compiaciuta ironia il suo avvocato; don Calò aveva un fratello sacerdote, che venne due volte a Tricarico a visitare il congiunto, e un altro vescovo. Indro Montanelli, che lo intervisterà anni dopo, scriverà che don Calò è stato l’unico vero indiscusso capo globale della mafia: mentre i successori sono anche stati generali a cinque stelle, don Calò è stato il solo generalissimo.

Don Michele aveva lavorato nelle Ferrovie. Pensionatosi, si sistemò a Tricarico, dove svolse il compito di usciere di conciliazione e di pretura, gestì l’albergo di cui ho detto, e assunse la gestione degli orologi della piazza e di Santa Maria dei Lombardi. Tutte tre queste attività rievocano belle e interessanti storie, ma purtroppo non posso farla lunga. Non posso però tacere un brevissimo accenno all’orologio della piazza, un orologio che non è quello che c’è adesso, che è stato installato dopo il terremoto. Non esprimo e non intendo esprimere giudizi: sta di fatto che la sensazione che mi dà il nuovo orologio deturpa il volto che aveva la “mia” piazza, lo percepisco come sfregio, che cerco di non vedere.

L’orologio della piazza, tra tante cose, potrebbe ricordare una delle primissime decisioni amministrative della prima sindacatura di Rocco Scotellaro. Fu un grave errore non solo, ma anche ideologicamente ispirato, che si risolse nel furto del tempo ai contadini. Rocco resistette un po’, ma capì e revocò la decisione.

Sul finire di un’estate mi ammalai di tifo, morbo a quel tempo praticamente incurabile, con frequenti esiti letali. Se non morivi – si diceva – restavi “ciuto” e spero di aver smentito la regola. Tifo è parola che etimologicamente esprime lo stato di imbolsimento in cui ti riduce la febbre altissima, che supera i 40 gradi. Allora non c’era altro da fare che cercare di abbassare la temperatura col ghiaccio, quel poco che si riusciva a recuperare dai proprietari delle nevere, che a fine estate erano praticamente esaurite, nonché osservare rigorosissime norme igieniche, che non sto a descrivere, e sottoporsi a una rigidissima dieta lattea: latte e solo latte, per un lungo periodo, credo una quarantina di giorni. Dopo di che m’ero ridotto praticamente a una larva.

Tutti gli amici, giustamente preoccupati di non immolare le loro vite per testimoniarmi la loro amicizia, sparirono. Il tifo è una malattia infettiva, ma circa le modalità dell’infezione circolavano paure infondate, pareva che ci si ammalasse guardandosi negli occhi. Solo Mario Trufelli mi faceva compagnia e mi accudiva. Tutti i giorni, da mattina a sera, seduto al mio capezzale, parlando, parlando sempre e leggendo. Mi rimbambiva più del tifo, ma l’aspettavo con ansia, spiando attraverso i vetri del balcone della mia stanza da letto che sbucasse dal portoncino di casa sua.

La bocca non la teneva mai chiusa: quando non parlava, leggeva. La testa mi turbinava, mi sentivo trasportato su una nuvola, dalla quale mi pareva poi di precipitare. Ma la compagnia di Mario mi faceva piacere. Mario mi lesse tra l’altro (chi se lo può scordare?) «La mano del defunto (Continuazione al Conte di Montecristo)», l’oltraggio più infame che un ignoto scribacchino potesse tramare contro il povero Alessandro Dumas, nonché un suo romanzetto rosa, dove, senza risparmio d’inchiostro, Mario narrava la lacrimevole storia di un povero ragazzo timido, che si struggeva d’amore senza trovare il coraggio di dichiararsi al suo sdegnoso amato bene. Di questo romanzo, grazie alla mia memoria, resta il solo brevissimo frammento da cui partono le seguenti divagazioni. Bisogna infatti sapere che Mario, nottetempo, nel 1948, durante il viaggio di ritorno da Roma, dove aveva partecipato alla imponente manifestazione di omaggio e saluto a Pio XII dei “baschi verdi” (centinaia di migliaia di ragazzi, esaltati dalla voce suadente di Carlo Carretto, presidente dell’azione cattolica, di cui era vice presidente Emilio Colombo, gridavano: – Su, su: saltiamo sul carro di Carretto!), subì il furto della sua valigia, che racchiudeva tutti i suoi scritti, che egli era solito portare con sé ovunque andasse. Di colpo svanirono tutte le prove letterarie di un aspirante scrittore!. Chi piange quel furto, ora, sono io, che darei non so che cosa per leggere quella storia d’amore che mi imbambolò più del tifo.

In quel viaggio di ritorno coi baschi verdi una disavventura di diverso genere capitò a Benito Lauria. Egli, per fare il filo a una ragazza (che tanto ragazza non doveva essere se viaggiava sola di notte), prese posto nella carrozza di coda, che a Sicignano fu agganciata al treno per la Calabria. Benito, falliti i tentativi con la bella calabrese, si addormentò placidamente, non si accorse del cambio di carrozza e continuò a dormire saporitamente tutta la notte. Quando si svegliò, si affacciò al finestrino ancora insonnolito e non riusciva a rendersi conto come avesse fatto il mare a invadere la valle del Basento e a sciabordare lungo la linea ferrata. Il padre, don Michele La Posta, furioso e preoccupato, sperando e sospettando che il figlio si fosse fermato a Napoli con Paolo Iuvone, disse: – Gliela faccio vedere io a quel delinquente! – e così telegrafò a Paolo: “Dimmi se Benito teco”. Paolo prontamente rispose: “Vistolo una volta, non vistolo più”.

Torno al brevissimo frammento del romanzo trafugato . Alla fine il giovanotto vince la timidezza, perfora la corazza di ritrosia della fanciulla e sfiora con un bacio le sue labbra. “E con quel bacio – commenta lo scrittore – ei la conquise”. Io cercai con tutto me stesso di recuperare un po’ di forze e, soprattutto, un po’ di fiato, e con quel po’ fiato che recuperai dai polmoni rinsecchiti, dissi: – Ei la conquise?! Ah Ma’, ma vaffa …”.

Nella piazza di Tricarico mi sono esercitato in camicia nera negli esercizi ginnici e in quella pagliacciata che era il cambio della guardia del 21 aprile, proclamato da Mussolini Natale di Roma, in sostituzione del 1° maggio.

Ho quindi comiziato più o meno da tutti i balconi che vi si affacciano e dalla cappella di San Pancrazio. La cappella di San Pancrazio, per il vero, fu il palcoscenico del primo comizio mio e di Benito Lauria, due ragazzini. Decidemmo di fare un comizio a favore del voto per la Repubblica: io avrei dovuto fare una lunga presentazione, quasi un pre-comizio e Benito il comizio vero e proprio. Non avevamo microfono e non avevamo chiesto nessuna autorizzazione. Il pubblico non ci mancò, alla ripresa della vita democratica nessun comiziante correva il rischio di restare senza pubblico. Io riuscii a recitare la mia pappardella, Benito aveva appena cominciato a parlare, quando ci piombò addosso il brigadiere dei carabinieri, che ci strapazzò ben bene. Quel brigadiere, poi, di Benito, divenne cognato.

Sono stato a un metro di distanza, guardandolo incredulo, da Francesco Saverio Nitti, in mezzo alla gente, come uno qualsiasi, abbracciandosi nel saluto col canonico don Peppe Uricchio, notoriamente nittiano. Per chi il capo del governo era stato abituato a vederlo su un cavallo bianco, con la sciabola sfoderata, in stivaloni e doppia greca sulle maniche, fu uno choc.

Venne anche Achille Lauro a fare un breve discorso in piazza, affiancato da Odo Spadazzi, vice segretario del partito che aveva da poco fondato, il partito popolare monarchico. Viaggiavano su una specie di camper, appositamente costruito, con un terrazzino sul tetto. Lauro salì sul terrazzino e disse: – Ma chi credete che sia un ministro dell’agricoltura? (si riferiva a Colombo). Il ministro dell’agricoltura lo può fare un fesso qualunque, anche il mio amico Spadazzi! –

Venne a fare comizi anche Iannelli. Era nato a Tricarico, era stato sottosegretario alle Comunicazioni con delega alle Ferrovie di un governo fascista, e si diceva che fosse lui quello che faceva andare i treni in orario. Su una parete in piazza lo salutava la grande scritta in vernice nera: W S.E. Iannelli. Venne a fare un comizio per il MSI, e tornò a farlo per il laurino partito monarchico popolare, che lui chiamava monarchia coi leoni. Avvertì forse il bisogno di giustificarsi, infatti disse: – Sarete forse meravigliati vedendomi tornare a voi con la monarchia coi leoni. Io sto con la monarchia coi leoni, perché sono stato sempre monarchico, anche se ho militato in un partito notoriamente repubblicano!

 Festa di San Rocco il 16 agosto 1947. Da due mesi c’era stato ininterrottamente un tempo bello e sereno, quando, improvvisamente, una nuvola nera si stese sull’abitato oscurando il cielo, e cominciò a minacciare tempesta con qualche lampo e qualche tuono di lontano. Cominciò a cadere qualche goccia d’acqua e la gente, che affollava la piazza e il viale Regina Margherita, cominciò a disertare verso le case. Acqua ne cadde però poca. Il pirotecnico approfittò della schiarita per piantare sulla piazza i pali per i fuochi di artifizio, e sul bordo del poggiolo, che guarda alla campagna i cannoncini per le “carcasse” e le batterie. « Sarà questa sera un “fuoco” di eccezione. Il figlio di Salomone ha voluto prepararne uno speciale per onorare San Rocco e ringraziarlo di essere scampato dallo scoppio della fabbrica » – annunziava uno dei procuratori. Quando i fuochi furono approntati, verso le ore 21, il tempo parve guastarsi. Ma, appena la nuvola fu passata, la piazza tornò ad affollarsi per vedere i fuochi. Io ero sul balcone di casa mia. Una voce gridò: – cade. Ma non fu intesa da tutti: attimi di attesa. Il “colpo oscuro” cadde sulla folla. Ci fu un morto e tredici feriti. Il morto e i feriti furono portati subito all’ospedale civile. Rocco Scotellaro era sul punto preciso dove cadde il colpo oscuro e si salvò per la fortunata congiuntura che il nipotino di pochi anni (Ciccilluzzo, figlio della sorella Antonietta), tirandolo per mano, lo stava trascinando verso il caffè Famiglietti per farsi comperare un gelato.

Per la piazza passavano i funerali, al suono delle campanelle di San Francesco. Come dimenticarli? …. Rocco Scotellaro.

Il funerale di Rocco stava attraversando la piazza quando passò Pasquale il postino, che consegnò ad Antonio Albanese, una lettera. E’ di Rocco!, mi disse Antonio con un filo di voce, pallidissimo. Raggiungemmo l’angolo del palazzo ducale nel corso. Antonio aprì la busta: c’erano due fogli, scritti tra il 14 e il 15 dicembre, il giorno stesso della morte di Rocco. Uno era per la madre, il secondo per Antonio. Rocco chiedeva ad Antonio di andarlo a trovare a Portici e portare “il Calciano” (una intervista che Rocco stava conducendo per il lavoro dei Contadini del Sud); scriveva che stava male, pensava di avere un forte reuma al petto e alla gola, ma sfortunatamente, c’era un solo medico in Italia che curava quel male, guarendo: aveva 95 anni e stava a Ferrara. Finiva con queste parole: “Non posso ancora muovermi. E ho tanto bisogno di aiuto”.

 

 

7 Responses to Ritorno nella piazza di Tricarico

  1. Rocco Albanese ha detto:

    Affascinante! questi ricordi mi proiettano in una epoca non vissuta, di cui ho visto tantissime foto e filmati e quindi cerco di immedesimarmi nelle storie e nelle situazioni. Peccato che si è conclusa così in fretta, ma ci sarà di certo un lungo seguito….
    ciao, Rocco

  2. Anonimo ha detto:

    Divina Commedia, Inferno, Canto XXXIII, 42

    • GIUSEPPE PASSARELLI ha detto:

      Grazie, Carissimo Antonio.
      Con i tuoi appunti mi hai portato agli anni in cui sì c’era lotta politica, quando la piazza si riempiva ad ogni comizio, non importava se l’oratore era di destra, di sinistra o di centro.
      Il giorno delle elezioni, poi, era proprio un giorno di festa.Tutti indossavano il vestito delle grandi occasioni e c’era tanta allegria. Purtroppo, oggi, tutti sono arrabbiati, rancori personali si riversano sulla politica e il popolo resta sempre più disorientato.
      Peppino da Verona

  3. Angelo Colangelo ha detto:

    Grazie, Antonio, per questa preziosissima offerta di memorie ai tuoi amici tricaricesi e non. E grazie, soprattutto, per la tua nobile testimonianza, che evidenzia la tua straordinaria umiltà e la tua grande umanità. Angelo Colangelo

  4. Cesare Monaco ha detto:

    Ancora una “perla”dei tuoi coinvolgenti racconti, che meriterebbero di trovare spazio in una biblioteca. Grazie

  5. Ilaria Levreri ha detto:

    Ho ritrovato questo appunto in un vecchio taccuino di viaggio.Le mie prime impressioni di Basilicata:silenzio e intensita.

    ” La mia Lucania è fatta più di vuoti che di pieni.
    Di sospensioni, non di affermazioni.
    Di slanci, non di traguardi.
    Ha l’apertura del silenzio,
    la consistenza del buio,
    la vertigine degli spazi.
    È stupore, non commento.
    È la terra che sento mia pur non appartenendo a lei.
    Perché sa di radici che mirano al cielo.”

    Grazie sempre Rabatana di farmi scoprire qualcosa di prezioso su questa Terra!

    • Antonio Martino ha detto:

      Carissima Ilaria, carissima, benché sconosciuta, amica genovese, che ama la mia Lucania: grazie. Stupendi i suoi appunti di viaggio nella mia terra. Mi piace farle sapere che la moglie di Rocco Mazzarone, che Rabatana ha spesso ricordato, era genovese come lei. Divenne tricaricese globale con accento genovese.
      Un caro affettuoso saluto, Antonio

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