Tre sono i acconti dello Specchio del comò di Mario Trufelli , edito da Arnaldo Guida Editore, 1990, raccolti nella collana di Narrativa Clessidra: 1. Carcere preventivo, 2. Qualche lira di bontà e 3. Il piccininno. Qualche lira di bontà era inedito.

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Carcere preventivo, scritto nel 1955 e pubblicato lo stesso anno sulla rivista «Lucania», narra, sotto forma di diario di cinque giornate del primo trimestre del 1936, l’esperienza di Luigi Ferri e Pietro, confinati a Tricarico dal regime fascista; entrambi sono ospitati nell’albergo del nonno di Trufelli, don Michele Valinotti. Il narratore è un bambino vivace – Mario nel primo trimestre del 1936 aveva sei anni e frequentava la prima elementare! – che, mai staccandosi dalla tutela del nonno, osserva con disincanto le condizioni di vita dei due confinati, descrivendone le abitudini quotidiane e l’anelito alla libertà. Il piccolo entra così a contatto con il mondo degli adulti, facendo la scoperta dei lati negativi dell’esistenza, come la persecuzione, la sofferenza e l’ingiustizia sociale.

L’albergo ha altri due ospiti: Luigi Gobbi, proprietario della Val Padana, parla sempre male del duce e un giorno ha maltrattato Antonio, fratello di Mario, perché si era vestito da balilla (cadetto, scrive Mario. Il fratello Antonio, nel 1936, aveva 10 anni e, se vogliamo essere realisti, era un balilla). «Mi hanno confinato perché ho detto le puttanate al duce.» Il quarto ospite, un siciliano, si chiama Calogero Vizzini. Di lui non si sa nulla. Il nonno vuole che a lui e al proprietario della Val Padana si dia il «don».

Tutti i personaggi sono reali e scontarono il confino a Tricarico ospiti dell’albergo Valinotti. Pietro e Calogero Vizzini ritorneranno nel volume Quando i galli si davano voce, Edizioni della Cometa XXIII, dove si manifesta la figura di Calogero Vizzini quale capo supremo della mafia. Pietro ritorna in forma romanzata. Di questi personaggi anche Rabatana ha raccontato ampiamente.

CARCERE PREVENTIVO

 

17 gennaio 1936

Soltanto ieri le squadre di spalatori hanno liberato dalla neve la strada che porta alla stazione. La corriera ha viaggiato per la prima volta dopo cinque giorni. E ieri sera sono giunti altri due confinati all’albergo di mio nonno. Come al solito li hanno accompagnati i carabinieri e mia zia ha scritto i loro nomi sul registro: mia zia fa soltanto questo, segna i nomi, annota le spese e si fa pagare.

Mia madre è addetta alle pulizie e per i confinati ha più attenzioni della zia, si preoccupa per farli stare più comodi la notte, li fa mangiare di più.

Dei due arrivati ieri sera uno ha vent’anni, Luigi Ferri, è alto e magro e ha la faccia patita. L’altro si chiama Pietro, è un muratore e pare un tipo allegro, se la sa prendere. È anche lui alto e magro e ostenta due baffetti biondicci che lo rendono spiritoso. Muove di continuo le mani e parla sempre. Ha fatto subito amicizia « Tanto », ha detto, «dovete fare il sacrificio di sopportarmi ». Il nonno ha riso di cuore e gli ha battuto una mano sulla spalla. Il nonno è un uomo tranquillo, in serata li ha presentati agli altri due confinati che stanno qui da tempo: Luigi Gobbi e Calogero Vizzini, ai quali tutti noi diamo il ‘don’, perché «quelli sono veri signori» ha detto il nonno.

Luigi Gobbi è un proprietario della Val Padana, non ha mai fatto misteri delle sue cose. È un uomo acerbo, parla sempre male del Duce e un giorno ha maltrattato mio fratello perché si era vestito da cadetto. «Mi hanno confinato perché ho detto le puttanate al Duce».

E quando dice cosi il nonno lo richiama: «Don Luigi, don Luigi, io voglio vivere in pace, voi lo dovete capire».

Di Calogero Vizzini non sappiamo nulla. È un siciliano, è piuttosto anziano, non parla quasi mai. È un uomo grasso e tranquillo, fischietta di continuo. Alla zia dà fastidio quando se lo vede girare intorno in cucina per prepararsi i suoi pasticci di riso, latte e cioccolato.

È anche molto discreto e quando gli hanno presentato Luigi e Pietro ha sorriso appena, poi ha detto, mentre scompariva nella sua camera: «Qui starete bene, è buona gente questa».

Più tardi sono venuti i carabinieri per l’ispezione della sera. Ma quelli vengono anche per passare il tempo della ronda vicino al fuoco e per bere un bicchiere di vino. Il nonno se li tiene amici. «Qui comandano loro », dice. E quelli si mettono a scherzare con la donna che fa le pulizie, una donna giovane, ha tre figli e non ha mai vissuto col marito. Qualche volta si guardano il registro, mettono la firma in fondo alle pagine e quando vogliono controllare meglio, il registro se lo portano in caserma. Allora il nonno si preoccupa, corre dalla zia, le chiede se tutto è in regola e quando la zia lo rassicura lui si passa una mano sulla testa, una bella testa calva e luccicante, e dice, quasi come una bestemmia: «Quest’albergo sarà la mia rovina».

29 gennaio 1936

Ieri sera Luigi e Pietro hanno raccontato la loro storia, come i carcerati, per passare il tempo. Tutti e due sono stati in galera, hanno portato le manette ai polsi. Luigi è uno studente universitario, soffre di epilessia, ce lo ha scritto la madre, raccomandandolo. Pensa sempre alla madre e alla sorella nubile che gli scrivono quasi tutti i giorni. Dice che non è giusto che l’abbiano confinato, che lui non c’entra, lui non voleva fare nessuna rivoluzione.

Anche Pietro ha parlato di rivoluzione ma ha detto di sì, invece, che lui ha cercato di farla contro alcuni comandanti del suo paese.

« Non sono riuscito », ha detto, « quelli mi hanno fregato prima». Poi ha raccontato della sua famiglia, di sua madre vecchia e malata di cuore.

Pietro ha trentacinque anni ma ne mostra di più. La sua faccia lunga e scavata ha un’espressione sempre allegra che ce lo rende cordiale. In questi giorni se n’è stato solo con Luigi. Dormono nella stessa camera e lì hanno impiantato una mezza cucina economica con una spiritiera e alcuni tegamini. Per vivere ricevono dal comune un sussidio assai modesto, otto lire al giorno, e sei lire devono versarle per la pensione con un solo pasto giornaliero. Per il resto si arrangiano alla meglio. Pietro oggi andrà in cerca di lavoro, spera di imbianchire qualche casa, a poco prezzo. Così passerà la giornata.

Ma è la sera qui che non finisce mai. Le nostre sere d’inverno sono lunghe e i confinati devono stare in casa dalle diciotto; hanno un regolamento che i carabinieri fanno rispettare.

E loro se ne stanno tutti e quattro intorno al camino, qualche volta giocano a carte o si mettono a discutere con i nostri amici di famiglia che la sera vengono a trattenersi da noi. Quanta pena c’è dentro di loro e quanta solitudine. Parlano sempre molto poco e quando non parlano guardano nel fuoco, pensierosi.

11 febbraio 1936

Stamattina alle cinque sono tornati i carabinieri. Non hanno neppure bussato, il nonno li aspettava da tempo insieme ai confinati. Oggi è festa nazionale, festa della Conciliazione e i confinati staranno in caserma tutta la giornata, sotto sorveglianza. E oggi Luigi Ferri non potrà suonare il suo disco malinconico. Si è procurato un minuscolo grammofono e un disco che fa suonare di continuo. Accanto alla sua c’è la camera del nonno, che tutti i pomeriggi fa il pisolino e tutti i pomeriggi Luigi comincia a suonare il suo disco. E una canzone all’americana, ma è tanto triste. Il nonno dal letto comincia a bestemmiare, bussa sul muro, prega Luigi di smetterla. Luigi smette per un poco poi, appena intuisce che il nonno ha ricominciato a russare, rimette il disco e lo fa suonare fino all’esasperazione.

Pietro di tutto questo non dice nulla, dice solo che Luigi è innamorato e fa finta di capirlo. E Pietro, più di Luigi, parla di una fede, «la mia fede» dice, e quando non ha da lavorare va a mettere in croce un nostro amico di famiglia, un meccanico alto e allampanato che non sa mai contraddire gli amici, anche quando potrebbero metterlo nei pasticci.

Gli va a cantare una canzone che ha composto lui stesso, dice così: «Quando bandiera rossa si cantava – pure tre volte al giorno si mangiava – adesso che si canta giovinezza – cadiamo a terra dalla debolezza ». E il meccanico fa finta di non sentire, ma poi lo prega di star zitto, di andarsene. «Tu vuoi mettermi nei guai» dice, e quando non ne può più corre a dirlo al nonno perché lo richiami.

Pietro in verità scherza molto ma è un carattere aperto. Ha un’ammirazione per la zia (la zia ha quarant’anni, è donna piacente) che lo rende quasi ridicolo agli occhi degli amici. Ma forse si è veramente innamorato e alla zia tutto questo non garba. L’altra sera lo ha trattato con poco riguardo perché le aveva detto davanti a tutti: «Signora, bella signora, mi piacete». Lo ha fatto vergognare e Pietro se n’è uscito di casa alle otto di sera, contro il regolamento. Sono dovuti andare a cercarlo Luigi Gobbi e il nonno per non farlo prendere dai carabinieri. Lo hanno trovato sotto l’arco della cattedrale addossato a un muro al riparo dal freddo. Lo hanno ricondotto a casa e per tutta la serata non si è fatto vedere più in cucina. È andato a letto digiuno.

ore 11,00

In piazza stanno facendo la sfilata. Mio fratello si è procurato un cavallo e lo cavalca in camicia nera e fazzoletto giallo al collo. Luigi Gobbi lo ha chiamato ridicolo.

Il nostro amico meccanico prima di andare in piazza ad ascoltare il discorso è passato dall’albergo. Ha parlato a lungo col nonno. Ha paura che Pietro lo stia mettendo in cattiva luce presso quelli del fascio. «Questi vogliono rovinarmi», ha sentenziato il nonno e si è fatto portare dalla mamma il ‘pettino’ nero da sovrapporre alla camicia.

Poi è andato in piazza, anche lui, alla sfilata, a sentire i discorsi. E i confinati stanno in caserma oggi, ‘carcere preventivo’.

Mio fratello ed io porteremo loro da mangiare. Pietro ci ha sempre parlato della camera di sicurezza, del carcere. A mezzogiorno li vedremo come sembrano, carcerati.

 

21 febbraio 1936

È morta la madre di Pietro due giorni fa, nel suo paese, in alta Italia. Gli ha portato il telegramma il Maresciallo “in persona” ieri sera tardi. Pietro era già a letto, si è incaricato di dargli la notizia Luigi. «È morta tua madre», gli ha detto commosso. E Pietro non si è scomposto, ha letto il telegramma poi ha detto a tutti noi che gli stavamo attorno: «Avete visto? È morta mia madre»; e non c’era un poco di emozione nella sua voce. Poi ha chiamato mio fratello: «Antonio, vieni qui, hai sentito? È morta mia madre… vammi a prendere un mezzo litro, mia madre non se la prenderà, ha finito di soffrire, povera mamma, anche per me. Te lo dico io, Antonio, era vecchia e assai sofferente mia madre. Lasciamo andare, Antonio, vammi a prendere un mezzo litro, mi farà bene».

Ha bevuto il vino, un bicchiere dopo l’altro, in pochi minuti.

«Se vuoi puoi andare a casa per due giorni », gli ha detto il Maresciallo. Lui ha scosso la testa: «Non voglio andare a casa tra gli angeli custodi ». E quando ha visto le nostre facce piene di meraviglia gli è venuto quasi da ridere. Poi ci ha gentilmente mandati via dalla sua camera. Si è chiuso dentro a chiave. Non ha fatto nessun rumore, soltanto si è messo a suonare il disco di Luigi, l’ha fatto suonare per più di mezz’ora.

Si è alzato appena dopo l’alba. Mia madre aveva una cravatta nera del nonno, gliel’ha messa al collo, poi gli ha offerto una tazza di caffé. E lui è andato a lavorare, sta scrivendo con la vernice nera una grande scritta davanti al palazzo degli uffici, in piazza.

Quelli del fascio hanno dato a lui l’incarico. Oggi finirà di comporre, a caratteri cubitali, le ultime parole del Duce: « Credere, obbedire, combattere». Verrà un importante personaggio da Roma domenica mattina e gli faranno festa.

Ma come sembra piccolo Pietro così lontano e così in alto sulla lunga scala di legno contro la facciata del palazzo.

4 marzo 1936

Li hanno portati via ieri sera, tutti e quattro, se li sono portati in caserma e a Luigi Ferri lo hanno trasportato all’ospedale, stanotte stessa, gravemente ferito.

Ma nessuno ha colpa, neppure Pietro ha colpa. Hanno bevuto insieme e hanno fatto festa insieme, poi stavano per andare a letto e mentre salivano dalla cucina alle camere Luigi è caduto dalle scale e si è ferito. Ma Luigi è malato, gli è venuto un attacco di epilessia, nessuno lo ha spinto, nessuno voleva fargli del male, gli è venuto un attacco ed è precipitato giù, fino all’ultimo gradino. E intanto i carabinieri danno la colpa a loro tre, la danno soprattutto a Pietro che gli era vicino e che prima lo aveva incoraggiato a bere. Ha cacciato un urlo Luigi, lo abbiamo udito tutti e siamo corsi a raccoglierlo, svenuto e sanguinante, in fondo alle scale. Quando sono arrivati i carabinieri insieme al medico hanno fatto un mezzo processo. Si sono anche rivolti al nonno, quasi lo hanno accusato. « Voi lo sapevate, sapevate che non dovevano ubriacarsi, è contro il regolamento ». Il nonno ha cercato di giustificarsi, ha cercato di dire qualcosa. Luigi Gobbi ha bestemmiato come un dannato, ha gridato che era tutto un insulto e un carabiniere gli ha fatto il gesto di tacere. Ma don Luigi non se la tiene, non ha paura di nulla. «Ragazzo», ha detto, « un giorno vedremo chi avrà ragione».

Don Calogero Vizzini non ha parlato, ha sorriso appena ed è andato in camera a mettersi il cappotto.

Pietro si è impallidito ed è scoppiato a piangere quando hanno portato via Luigi ancora svenuto. È la prima volta che abbiamo visto Pietro in lacrime. Non ha saputo scolparsi, non ha saputo dir nulla quando hanno accusato lui. È andato via senza cappotto, era già notte. Il buio e il freddo lo hanno reso ancora più indifeso nella piazza deserta.

Pietro era davanti a tutti con la giacca aperta, la cravatta nera del nonno gli è saltata sulla spalla per un colpo di vento.

Ma nessuno di loro ha colpa, neppure Pietro ha colpa, ve lo giuro io che li ho visti.

 

One Response to I racconti dello Specchio del comò di Mario Trufelli – 1. Carcere preventivo.

  1. Angelo Colangelo ha detto:

    Caro Antonio,
    belle e interessanti le pagine rievocative di Mario Trufelli, che tu hai opportunamente riproposto. E non sarebbe potuto essere altrimenti. Esse mi hanno indotto a qualche amara considerazione sulla storia e sul destino delle nostre comunità. Tricarico, Aliano, la stessa Stigliano, seppure in misura minore, e tanti altri paesi lucani accolsero allora numerosi confinati. Oggi, in un contesto politico e sociale del tutto mutato e per ragioni assolutamente diverse, diventano luoghi di accoglienza per gli immigrati, che potrebbero anche diventare una risorsa per un territorio ormai asfittico. Intanto, però, tutti i nostri paesi continuano ad essere tormentati dalla triste piaga dell’emigrazione e di un pauroso calo demografico, che ne mette a rischio la stessa sopravvivenza.
    Un caro saluto,
    Angelo Colangelo

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