Qualche lira di bontà, secondo dei tre racconti de Lo specchio del comò, fu composto nel 1958 e mai pubblicato. Esso non vale gli altri due racconti e le sue quattordici pagine mi sembrano giuste servite da mero riempitivo. La collana di narrativa Clessidra dell’editore Guida di Napoli tende ad apparire quello che il nome promette e non può mantenere, tant’è che si compone di un unico volumetto a due facce, che contiene due raccolte di racconti, ciascuna di quarantatré pagine. Una faccia annuncia i tre racconti dello Specchio e l’altra, intitolata L’ombra degli altri, annuncia un racconto di Pellegrino Sarno. Le due facce del volumetto non sono assimilabili ai due coni conici intercomunicanti di una clessidra, perché i racconti, così diversi, nonché non fluire come acqua o sabbia in una clessidra, non si fondono in un discorso unitario. Sbagliata è la pretesa editoriale della clessidra, giudizio che non si riflette sui singoli racconti. Almeno il primo e il terzo dei racconti dello Specchio sono bellissimi e il terzo, Il piccininno, nel suo piccolo è un capolavoro.

“Qualche lira di bontà” racconta un fatto realmente accaduto, come il primo e il terzo, ma questo secondo fatto non era … raccontabile, ovvero avrebbe aperto la stura ai pettegolezzi. Forse per questo motivo non era stato pubblicato. Leggendolo si capirà cosa intendo dire. Quando il tempo rende inconoscibile la protagonista del fatto e le paginette scritte nel 1958 si rendono utili a riempire la metà di propria spettanza nella Clessidra, il problema si è risolto da sé.

Santa Lucia, giorno onomastico della madre di Mario Trufelli, annuncia il clima natalizio. Si festeggia la santa di famiglia, ma in fretta, perché il nonno, che, per antica consuetudine, provvede ad allestire il presepio nella Chiesa di Santa Maria dei Lombardi, ha fredda di recarsi in soffitta con i nipoti per recuperare carte e statuette. Egli crede nel detto “Santa Lucia il giorno più corto che ci sia” e teme che le tenebre, calate prima d’ogni altro giorno, non consentano di portare a termine il lavoro.

La trama del racconto è semplice. Sul presepio veniva posato un vassoio per la raccolta delle offerte: centesimi, soldi, nichelini, monete d’argento di cinque lire, banconote da dieci lire.

Lasciano cadere nel vassoio preziose monete d’argento da cinque lire la signora Tulipani e un emigrato ritornato dagli Stati Uniti.

Sparisce una moneta d’argento da cinque lire e si incolpa il più piccolo, Mario. Sparisce una banconota da dieci lire, nonostante le precauzioni. Il nonno si nasconde nel confessionale e scopre, con sgomento e incredulità, che la mano di donna Finella, l’ultima rimasta di una famiglia di censo e di rispetto,  la figlia del “generale”, si impossessa di una seconda banconota. Donna Finella non può essere denunciata, per rispetto della famiglia e del nome – così erano quei tempi; e il nonno ha una pensata geniale: sostituì il vassoio con un panciuto salvadanaio di terracotta! Panciuto e, soprattutto, sicuro.

Nel racconto si accenna a due personaggi, di cui ora svelo l’identità, a parte la signora Tulipani e l’emigrato, che è vano cercare di individuare e forse sono inventati.

Il colonnello Carbone: religiosissimo, presente a tutte le funzioni, grande invalido della prima guerra mondiale. Trufelli descrive la mutilazione con discrezione e precisione: del resto tutti ne erano a conoscenza. In esso si riconosce il colonnello Rocco Sanseverino, che, nel racconto di Trufelli, faceva cadere nel vassoio monete da una lira, con apprezzabile generosità, benché non pari alla signora Tulipani e all’emigrato.  

Le monete da cinque lire erano d’argento e se ne saggiava l’autenticità facendole battere con forza su una lastra di marmo per sentire il suono argentino. Ogni negozio aveva sul balcone una lastra di marmo generalmente della dimensione di un mattone. L’aveva sul suo bancone anche il tabaccaio sotto la piazza, di fronte al fontanino, Minguccio Soldo. Ma lui era sordo come una campana – circostanza che, invero, senza intendere contestare la libertà dello scrittore, non mi risulta – e si dannava l’anima per distinguere chiaramente l’argenteo suono della moneta. Aggiungo un mio ricordo. L’avvocato De Maria, quando ci mandava a comperare le sigarette, si raccomandava di non comperarle da Soldo, perché – diceva l’avvocato – le sue sigarette avevano l’odore acre e pungente del pesce fritto. E aveva ragione: infatti solo le scansie del negozio – non muri divisori – separavano il locale per la vendita di sale e tabacchi dalla cucina-stanza da pranzo, impregnando il tabacco delle sigarette di odori culinari, in specie del descritto odore acuto del pesce fritto.   

QUALCHE LIRA DI BONTÀ

 

Il giorno di Santa Lucia, onomastico della mamma che sapeva cogliere e apprezzare il nostro desiderio di festeggiarla, il nonno dava il via ai preparativi per il presepio. Per quel che ricordo, la giornata era sempre grigia e piovosa e, sempre, nel tardo pomeriggio, arrivava la nebbia a invadere il paese. Si consumava il pranzo della festa, si rinnovavano gli auguri alla Lucia di famiglia con la crostata di amarena e l’immancabile caffè all’anice, e si partiva, nonno e nipoti, per i meandri della soffitta. Lì ci aspettavano, da un anno all’altro, le carte sporche di calce e i pupazzetti di creta. Nella scarsa luce pomeridiana, una luce che penetrava a stento dall’abbaino (« Qui fa notte presto», ricordava il nonno, «questo è il giorno più corto dell’anno »), tutto si faceva più solenne: il cammello con le gambe rotte, la stella di latta, il pastorello senza testa. Ma il Bambino Gesù col pannolino candido sulle gambette levigate ingigantiva la fantasia, e l’attesa di tante settimane si sfrenava nel delirio della riscoperta, mentre il nonno ci invitava alla calma, ammonendoci: «Le cose rotte non si possono più sostituire».

Dopo questo primo inventario cominciava, il giorno dopo, il lavoro per il presepio che il nonno, per vecchia consuetudine, allestiva tutti gli anni nella Chiesa di Santa Maria dei Lombardi, in un quartiere del paese che ricordava, anche in alcune decorazioni superstiti delle case, l’architettura araba.

Si cominciava dallo scheletro, assi e stecche di legno, che nel linguaggio scarno delle linee davano l’idea delle piazzuole, dei paesi sulle montagne. Dal fondo della chiesa il nonno dirigeva le operazioni con gli occhiali appoggiati sulla punta del naso. Noi nipoti (ognuno aveva un ruolo confacente alla propria età, io, il più piccolo, avevo il compito di allineare le carte da parati), eravamo gli operai di turno che il capo cantiere apprezzava o denigrava: quasi tutte ineccepibili le sue indicazioni, sbagliate o discutibili le proposte dei miei fratelli che lui definiva capricciose.

«Un po’ più alto quel pizzo di montagna … più a sinistra il ponte … la cantina lì non va, mettila all’inizio del paese»; e vi era chi alzava montagne, chi spostava il, ponte, chi s’industriava per trovare un posto onorevole ai quattro giocatori di carte, che nella veglia di Natale a tutto pensavano fuorché a Gesù, che nasceva in una grotta profonda, con la ragnatela sul fondo: e Dio sa quanta fatica per poterne trovare una larga e senza smagliature che incontrasse il gusto dell’allestitore.

Ma il momento più atteso, il più eccitante per noi ragazzi scattava nel momento in cui si decideva la sistemazione dei personaggi, della neve sulle cime dei monti e degli alberi. Per gli alberi il nonno aveva un riguardo particolare che lasciava in forse gli operai più adulti. In un paesaggio di carta con montagne e dirupi coperti fino all’inverosimile di neve, lui si preoccupava, con un impegno che rasentava la pignoleria, di sistemare qua e là palme rigogliose in pannolenci, a dispetto del parroco che in fatto di botanica era considerato un esperto.

Così decorato, con un’enorme stella di stagnola che sovrastava la grotta, il presepio era pronto per rinnovare il mistero della natività di Nostro Signore. E anche per questa cerimonia il nonno si rendeva prezioso. Saliva sull’organo e accompagnava alla men peggio, sempre con la compiacenza del parroco, un gruppo di ragazze che cantavano gli inni natalizi, non prima di aver sistemato davanti alla capanna un luccicante vassoio per la raccolta delle offerte. A guardia di quell’imprevedibile tesoro vi era, naturalmente, uno dei nipoti. Il primo turno quell’anno spettò a me, che non ero stato impiegato a tempo pieno nella preparazione del presepio. Col primo bacio al bambino, dopo i riti tradizionali della liturgia, cadeva nel vassoio anche la prima offerta, quella del parroco, una offerta piuttosto consistente che tutti ci attendevamo come rimborso spese. E l’ordine era di ritirarla subito per scoraggiare qualche male intenzionato. Sul concetto del rimborso spese il nonno insisteva, ma poi non riusciva a nascondere la soddisfazione quando tornava a casa con un sacchettino di tela zeppo di soldi.

Tutti noi distinguevamo perfettamente, dal rumore della moneta caduta nel vassoio, se l’offerta era lauta o modesta. Le monete da uno e da due soldi si annunziavano chiare a vassoio vuoto, altrimenti si sperdevano nel groviglio delle lire, delle mezze lire e dei nichelini. Ma la moneta d’argento da cinque lire ci faceva sobbalzare. Non a caso, quando si voleva mandare in bestia il tabaccaio della piazza bastava mettergli sotto il naso cinque lire. Sordo come una campana, non riusciva a sentirne il canto: regola voleva, infatti, che ‘l’argentina’ venisse battuta sopra un frammento di marmo per verificarne, nel tintinnio pulito e squillante, sillabato da una, due, anche da tre battute, l’autenticità. Perciò, quando la moneta cadeva nel vassoio, si correva dal nonno per annunciargli il lieto evento.

E fu proprio per un pezzo da cinque lire che venni ritenuto ladro e bugiardo dai miei fratelli. Per un intero pomeriggio fui sottoposto a perquisizioni (mi rivoltarono più volte le fodere delle tasche), e a petulanti interrogatori: il primo obolo consistente, cinque lire appunto, che discretamente aveva fatto cadere nel vassoio la signora Tulipani, notoriamente benestante, in pochi secondi era scomparso. Quella volta il guardiano di turno ero io, di qui l’accanimento dei miei fratelli. L’offesa fu grande ma più grandi furono la rabbia e la beffa. Il giorno successivo, sempre io a guardia del presepio, altra moneta d’argento, dono di un vistoso emigrato che tornava dopo anni d’assenza dagli Stati Uniti, spariva tra i vezzi e gli stupori di un gruppo di bambini accompagnati e controllati da una suora. Ma suora e bambini non avevano mai varcato lo scoglio dell’inginocchiatoio che divideva il presepio dal ‘rimborso spese’, il vassoio intendo. Erano sfilati lentamente, mano nella mano, davanti alla grotta illuminata da una lampadina blu, che spandeva luce fioca e un po’ sinistra sul bambinello e sugli afflitti genitori, occhi bassi e pensosi. Ma quella fu giornata da lasciare il segno. «A parte suor Cesira e i bambini dell’asilo, chi c’era davanti all’inginocchiatoio? ». Il colonnello Carbone, che ha pure lasciato una lira, e donna Finella, la figlia del generale (il ‘donna’ per rispetto al censo, Finella diminutivo di Filomena), persone di tutto rispetto. Il colonnello, grande invalido, considerato quasi un eroe della prima guerra mondiale (era stato raggiunto da una pallottola nemica che lo aveva ripulito per sempre di ciò che in un uomo si identifica con la virilità), era persona timorata di Dio, pregava e cantava in chiesa a voce piena, tra questue e incensi. Donna Finella invece era donna timida e riservata, davanti a un uomo persino s’imbarazzava: e sì che era stata donna virtuosa e leggiadra. Questa, perlomeno, era la voce corrente nel paese. Una storia sentimentale l’aveva pure avuta, certo, una storia che si era arricchita di silenzi e di misteri mai chiariti per la grande riservatezza nella quale era sempre vissuta la sua famiglia composta dal padre, generale del genio in pensione, dalla madre, che fuori di casa non rinunziava mai al cappellino con la veletta nera sugli occhi, e da un anziano attendente, combattente valoroso e pluridecorato, ridotto al rango di servitore. Quando morì per una broncopolmonite, ebbe funerali degni di un alto ufficiale: il generale in persona, che aveva indossato la grande uniforme, aveva impartito gli ordini di rito a un picchetto d’onore giunto per l’occasione dal più vicino distretto militare.

Con la scomparsa dell’attendente, un napoletano che riusciva a tenere allegra la famiglia, s’incupì la grande casa di Vico Pendino, proprietà della moglie del generale, una casa un po’ tenebrosa con tanti mobili antichi, scuri e austeri, distribuiti lungo le pareti delle stanze. E fu proprio l’interesse per quei mobili che un giorno aveva spinto un giovane antiquario a chiedere di essere ricevuto dai padroni di casa. Permesso accordato, vi rimase per un paio d’anni, tra annunci e smentite di matrimonio con la giovane figlia del generale. Ma poi non se ne fece più nulla, anzi non se ne seppe più nulla e la casa di Vico Pendino si chiuse definitivamente per gli estranei. Vi potevano accedere, per le esigenze di ogni giorno, il bottegaio, il barbiere e, qualche volta, il parroco, che andava a confessare le due donne.

Ma di lì a poco, figlia unica di genitori anziani, seppur longevi, Finella rimase orfana. Continuò a fare vita ritirata, casa e chiesa, con rare apparizioni in pubblico. Quell’anno era rimasta colpita dal presepio di Santa Maria dei Lombardi se più di una volta l’avevamo vista (e ossequiata) in visita al nostro capolavoro.

Una domenica, a cavallo tra il primo dell’anno e l’Epifania, a guardia del presepio fu destinato uno dei miei fratelli. Si era sistemato all’interno del confessionale, un posto strategico, dal quale poteva seguire, senza essere visto, tutto quel che accadeva al di là dell’inginocchiatoio. Ma per qualche attimo, quella volta, si appisolò. Quando, diciamo così, riprese conoscenza, ebbe un sussulto: cinque lire d’argento e cinque o sei monete da una lira erano scomparse dal vassoio. «Perché non le ho ritirate prima! », imprecò. L’indagine si fece serrata, ci fu addirittura consulto di famiglia. Vennero esaminate tutte le possibili circostanze del trafugamento, perché proprio di trafugamento si trattava, eseguito con destrezza e rapidità. «Dunque, in quelle tre ore che sei stato di guardia, se è vero che non hai dormito per tutto il tempo, chi si è avvicinato al vassoio?». Il nonno era furibondo, non riusciva a darsi pace. In dieci giorni avevano preso il volo quaranta e forse, anche cinquanta lire, chi poteva fare un conto preciso?

Mio fratello passò in rassegna, mentalmente, fedeli e visitatori occasionali, scartò la sorella e i nipoti del parroco, scartò le suore di Santa Chiara che avevano pregato ad alta voce, scartò donna Finella che si era unita al coro delle suore in preghiera. «Ma pregano pure davanti ai pupazzi? », sbottò il nonno che non poteva capire la prepotenza della fede. «Hanno pure cantato», aggiunse imbronciato mio fratello, che non si perdonava quei pochi attimi di assenza. Ma in quel momento sembrò a tutti che l’unico rimedio a tanto dileggio fosse la presenza stessa del nonno davanti al presepio, meglio ancora, nel confessionale, acquattato dietro la tendina che nasconde il prete durante le confessioni.

Il nonno ci pensò un momento, si lisciò i grandi baffi, accese la pipa con una lentezza inconsueta e, alla fine, decise di accettare l’incarico: avrebbe fatto la guardia anche per dimostrare a noi nipoti che ci eravamo comportati, perlomeno, da negligenti.

L’indomani si presentò in chiesa prima della messa cantata, e il chierichetto andava accendendo le candele. Entrò in incognito, cioè in silenzio: come ai sagrestani, soltanto a lui, quando allestiva presepio e sepolcro, era permesso parlare a voce alta nella casa del Signore. Giunto il parroco e cominciate le visite al presepio, il nonno si chiuse nel confessionale e attese, dietro la complicità della tendina.

Quanti commenti a voce alta per la lavandaia che tirava l’acqua dal pozzo vuoto, per i quattro giocatori che si guardavano stupefatti nella fioca luce della cantina, per il calzolaio che lavorava anche la notte di Natale. E il vassoio si riempiva di offerte. Il pretore aveva lasciato dieci lire, altre dieci lire la moglie dell’avvocato Giuliani. Dal suo nascondiglio, il nonno guardava, apprezzava e stava all’erta. Il primo istinto era stato quello di mettere subito al sicuro quei doni della provvidenza, ma lo fermarono l’orgoglio (il concetto del rimborso spese non poteva essere smentito), e il pensiero di apparire indelicato agli occhi dei fedeli. Passarono davanti e dietro l’inginocchiatoio, chi per lasciare l’obolo e vedere da vicino il bambinello biondo con gli occhi azzurri, e chi per avere una visione d’insieme del presepio, adulti compunti e bambini frenetici, e le ragazze del coro che si stavano preparando per la messa di mezzogiorno. E fu proprio durante la celebrazione della messa che entrò in chiesa donna Finella: con grazia e discrezione aveva doppiato l’angolo dell’inginocchiatoio per andarsi a sistemare proprio davanti al vassoio, stracolmo di offerte. « Non è possibile» pensò il nonno, perplesso, e sentì addirittura l’umiliazione d’essersi fatto cogliere dal dubbio. La messa volgeva al termine e donna Finella era sola davanti al presepio, come in adorazione.

Dall’interno del confessionale il nonno, che avrebbe voluto ossequiare la figlia del generale, si strinse nelle spalle, quasi si raggomitolò.

Incallito fumatore di pipa, avvertì lo stimolo della tosse, ma si controllò: perché farsi scoprire in agguato? Non vi era motivo, tutto andava bene. Ma subito dopo fu costretto a cambiar parere. Con un gesto rapido della mano inguantata donna Finella raccolse dal vassoio una banconota da dieci lire e la fece sparire nella borsetta. Il nonno era sbalordito. Dall’interno del confessionale avrebbe voluto interrompere il gesto insano della donna, ma gli mancò il coraggio, in quel momento, in chiesa, con tanta gente. E quante domande, quante congetture, tutte in quell’istante! Ma una risposta al suo stupore, e al suo sgomento (in fondo era stato derubato di una bella somma di de- naro), dentro di sé non la trovava. E intanto donna Finella, imperturbabile, raccoglieva un’altra banconota da dieci lire, quella che, con tanta discrezione, mezz’ora prima, aveva deposto nel vassoio la moglie dell’avvocato. «Ora è troppo!» esclamò a mezza voce il nonno, e stava lì lì per irrompere dall’interno del confessionale, quando una mano spostò la tendina che lo celava agli occhi dei fedeli: era il parroco che, ancora in camice e pianeta, chiedeva di riprendere il suo legittimo posto di confessore. E proprio in quegli attimi, tra una battuta spiritosa del prete e un confuso brontolio del nonno, che cedeva il posto di guardia, donna Finella guadagnava in fretta l’uscita della chiesa.

Risoluto, il nonno si fece largo tra una piccola folla di bambini cinguettanti, raggiunse il vassoio, tirò fuori dalla tasca il sacchettino di tela, vi fece scivolare, tra un tintinnio convulso, le monete residue e senza indugi (<< al diavolo », proprio così, «al diavolo» disse), spense la luce nella capanna. Cadde il buio su tutto il presepio. Poi, senza tener conto del disappunto dei visitatori, uscì quasi di corsa dalla chiesa: avrebbe voluto chiedere spiegazioni. Ma si fermò esitante sul sagrato: la figlia del generale scompariva all’angolo della strada. Era accaduto qualcosa d’inaspettato che mandava all’aria finezza e rispetto. Il nonno non si capacitava. Quale scoperta penosa, umiliante, era costretto a fare. «Ma è uscita pazza, o … ». Interruppe la riflessione, fulminato dal dubbio: gli tornarono in mente tutte quelle voci, da lui sempre considerate pettegolezzi, sulle disavventure economiche che si erano abbattute sulla casa del generale. Chi aveva detto, una volta, e lui non approfondì l’informazione, che per via di certe operazioni finanziarie sbagliate, donna Finella se la passava male?

Improvvisamente il nonno, e sorprendentemente, si sentì diverso. Si lisciò i baffi, si passò una mano sulla fronte sguarnita: un gesto a noi ben noto quando decideva di interrompere le ostilità.

Il sagrato si animava di gente, i bambini cinguettanti gli si affollarono intorno, lo pregarono di ridare luce al presepio. Lui li accontentò, e quelli sciamarono oltre l’inginocchiatoio.

Poi il nonno tornò a casa col vassoio sotto il braccio.

Due giorni dopo, festa dell’Epifania, si fece venire un ‘idea che non ebbe difficoltà a definire geniale. Davanti alla capanna sistemò un salvadanaio di terracotta, panciuto e pomposo, che si rivelò subito discreto e, soprattutto, sicuro.

E noi nipoti, finalmente, fummo esonerati dalla guardia al presepio, per quello e per gli anni successivi.

 

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