Il Piccininno è il primo dei tre racconti dello Specchio del comò, scritto nel 1952, tre anni prima di Carcere preventivo, e pubblicato quasi dieci anni dopo, a settembre del 1961 sull’inserto domenicale dell’Osservatore, pubblicato anche in una versione spagnola.

Forse esagerando, in un precedente post l’ho definito un capolavoro, certamente la sua lettura mi emozionò molto.

Il racconto, ripeto, fu scritto nel 1952, un anno cruciale della biografia scotellariana, avviata al tragico e tuttora, forse più, confuso epilogo. C’è un tale intreccio con le nostre biografie che  parlarne chiarirebbe non poco di quanto è in parte volutamente confuso; ma la biografia di Scotellaro non si può lucidamente dipanare negli aspetti letterario e politico senza l’apporto di studi finalmente seri e severi, che sono certo che da anni qualcuno sta compiendo.

Il piccininno è un racconto autobiografico che rievoca in tono elegiaco il  legame tra l’autore e il nonno, figura importante nella vita affettiva di Mario, cantato in due componimenti poetici (“Dopo la morte del nonno” e “San Michele 1953”, che si possono leggere su Rabatana). Tenera  è la nostagia per questa figura di patriarca, come nessun altro capace di arricchire l’immaginario infantile di fantasie e visioni oniriche. Il nonno di Mario Trufelli io lo chiamavo papanonno, parola che  esprime quello che è stato il mio rapporto con lui, non avendo conosciuto nessuno dei miei nonni.

  

IL PICCININNO

 

Mi rivedo dentro lo specchio del comò che aveva al centro una macchia grande quanto una medaglia, e quella macchia cadeva sempre sull’occhio sinistro quando mi specchiavo. Allora mi specchiavo per la faccia, sempre così pallida, un pallore che svaniva intorno agli occhi, che apparivano smarriti in un continuo girare irrequieto.

 

Ho la sensazione di sentirmi ancora nelle gambe’ la debolezza di quell’anemia che mi dava tanto dolore alla testa e mi rendeva cattivo. Per questo tutte le mattine alle sette andavo all’ambulatorio comunale per le iniezioni di vitamine e per prendere il chinino contro la malaria. Mi accompagnava la mamma ma più spesso il nonno, e non mi ribellavo mai, anche se l’ambulatorio mi opprimeva con quell’odore pungente di spirito e di tintura di iodio.

 

Tutte le mattine bisognava aspettare il turno e fare la fila nell’androne di un convento aperto all’indiscrezione dei passanti. Non c’erano sedie, solo due rialzi di pietra lunghi un paio di metri e lì ci pigiavamo, e nessuno aveva vergogna dell’altro. Eravamo quasi sempre gli stessi, tutte le mattine. Non mancava mai una donna anziana, con la malaria cronica (cosi diceva la gente), che parlava di continuo. Era stanca dell’ambulatorio, delle attese, di noi stessi. Veniva lì puntualmente da due anni. E aveva la faccia gialla come un limone appassito. Qualche volta mi aveva fatto impressione quella faccia e quando tornavo a casa mi guardavo nello specchio del comò e vi vedevo riflessa la mia espressione patita, quella stessa espressione che avevano tutti quanti gli altri che venivano con me all’ambulatorio. Ci veniva anche Antonio, il mio compagno di scuola, con quelle gambette sottili storte dalla paralisi, e gli occhi grandi, senza luce. Erano sereni però, come se tutto intorno a lui fosse normale. Mi guardavano, poi si distraevano sotto la volta del convento, si smarrivano quei poveri occhi di Antonio, che mi aveva fatto sempre tanta pena, anche a scuola quando il fratello se lo portava a cavalluccio sulle spalle.

 

Quando veniva il nonno ad accompagnarmi attaccava subito discorso e faceva ridere tutti. Io le conoscevo le sue storielle allegre e i suoi racconti. Ma che sacrificio, povero vecchio, aspettare tutte le mattine davanti alla porta dell’ambulatorio per essere pronto al suo turno. Fumava sempre però con la sua lunga pipa a cannuccia e l’odore acre del fumo mi dava fastidio, mi faceva venire la tosse e molte volte mi innervosivo, uscivo nella strada e aspettavo che lui avesse ‘finito. Il nonno capiva e si dispiaceva per me, perdeva tono e tanto per scusarsi diceva: «Toh, guarda … toh ! » e smorzava la pipa con un sorriso dispiaciuto. D’altronde anche in casa accadeva la stessa cosa e se gli chiedevano perché non fumasse quando era con me lui rispondeva: «Fa male al piccininno, il piccininno è malato ».

 

Nel momento in cui si entrava nell’ambulatorio un brivido mi percorreva. L’infermiera era in fondo, quasi nell’ombra e non diceva una parola. Parlava sempre il nonno, io non riuscivo e il nonno diceva spesso una frase che faceva sorridere la signorina: «Come va la mia sposina, oggi? ». L’infermiera gli batteva con confidenza una mano sulla spalla e si preparava a farmi l’iniezione. Com’ero pronto a sbottonarmi i calzoncini e abbassarli giù fino al ginocchio. E lei infilava l’ago nella carne, rapida, con mano sicura. Le prime volte mi irrigidivo con la gamba, poi tutto fu uguale, mi abituavo a tutto. Un giorno da una parte, un giorno dall’altra, per tre mesi e l’ago non trovava più un posticino libero, e molte volte ricadeva sullo stesso punto.

 

Ma poi dimenticavo ogni cosa, volevo andarmene subito, e dimenticavo anche Antonio, anche la donna con lo scialle. Volevo correre a casa e per la strada alzavo il passo. Il nonno non riusciva a starmi dietro e mi gridava: «Ehi, ehi!» Mi arrestavo un attimo, si fermava anche lui per accendere la pipa poi, pensando alla signorina dell’ambulatorio, diceva con aria contrariata: «È tanto buona, ma si pitta tanto brutto … ».

 

Ma una mattina mi rifiutai di andare all’ambulatorio. Alzai la voce in casa per farlo capire, una voce esile che sembrava uscisse con grandi sforzi dalla gola. Tutti mi vollero dire una parola buona, il nonno mi faceva le moine, inventava una infinità di promesse, ma in ultimo si convinse anche lui che avevo ragione e disse alla mamma che cercava di abbonirmi: «Lucia, lascialo stare il piccininno. Gli farà più bene un po’ di sole. Glielo farò prendere io il sole, vedrai».

 

E così ebbero inizio le mie passeggiate quotidiane in compagnia del nonno. Il primo giorno andammo per le vie di una campagna aperta, a volte sperduta nelle grandi distese di stoppie bruciate da un sole chiaro, allucinante in quei primi giorni di agosto. Portavamo in testa i cappelli di paglia e il nonno mi raccontava storielle di pastori e di briganti.

 

A un crocevia il nonno sentenziò: «Qui ci sono sempre molte serpi, specie in questa via dritta ». Lo faceva forse per scherzare, anche perché proprio su quella strada si apriva il cancello del cimitero, desolato a quell’ora, con i pini immobili. Ma io ne volli approfittare. «Voglio andare per la via traversa», esclamai, « la conosco, ci sono venuto due volte l’anno scorso con mio fratello». Il nonno cercò di obiettare. « C’incontreremo alla fine », insistetti. « Lasciami andare». Il nonno non voleva farmi torto. «Stai attento, mi raccomando, e non correre»

 

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Lui prese la via dritta, io andai per la traversa. Tacitamente si giocava a chi arrivasse prima. Camminavo svelto, spensierato, mi venne voglia di mettermi a gridare a squarciagola. Ma poi, ripensando per un attimo alle parole del nonno, mi chiesi, perplesso, se non avevo fatto male a lasciarlo solo su quella strada solitaria col pericolo delle serpi. Un gran dubbio mi venne nel cuore. Mi fermai esitante e dopo un attimo tornai indietro rifacendo di corsa tutta la strada. Imboccai la via dritta con l’affanno alla gola: vidi il nonno che se ne andava calmo, il passo cadenzato e la pipa in bocca. Gli corsi vicino, gli tirai la punta della giacca. Non dissi nulla. Le cicale stridevano forte nelle siepi bianche di polvere. «Embhé! », fece lui appena mi vide al suo fianco. Io sorrisi con un po’ di rossore sulle guance, un segno di buona salute, a sentire la mamma. Il nonno mostrò di apprezzare il mio gesto e continuò a camminare in silenzio. Il battito misurato del suo bastone suonava assai distinto nello stridìo delle cicale.

 

Lui era un passo più avanti a me, io gli venivo dietro. Ebbi un attimo di estasi quando mi attaccai con una mano alla punta della sua giacca.

 

Il nonno non parlava, gli piaceva trascinarmi così, dietro ai suoi passi. Le sbuffate di fumo che uscivano dalla pipa mi venivano sul viso, mi fecero tossire, ma cercavo di non farmi sentire: mi inebriava quella volta l’odore acre della pipa. Poi il nonno cominciò a raccontare una storia di briganti ed io lo ascoltai fino in ultimo senza interromperlo mai.

 

Il nonno mi creava un mondo fantastico allora, una visione quasi irreale delle cose. Mi aveva fatto credere, quando ero più piccolo, che tutte le cose andassero a dormire la sera, col primo buio, per svegliarsi all’alba di ogni giorno. Mi aveva fatto credere nel sonno degli alberi, dei pali della luce, e, tenacemente, nel sonno del treno, che non avevo mai visto da vicino, e che mi aveva sempre stimolato la fantasia quando mi ero fermato a contemplarlo dalle vigne dietro al camposanto, lontano, giù giù, nella valle del fiume, costeggiata dai binari della ferrovia. Il treno era un giocattolo meraviglioso che camminava, lento e costante, dietro al suo pennacchio di fumo. Mi pareva di vederci dentro le persone, le loro facce, le loro mani che salutavano. Mi affascinava il fiume che accompagnava il treno per chilometri e chilometri lungo le stazioni, le casette colorate e gli alberi grondanti di fiori bianchi, rosa e rossi, «i fiori del mare», diceva il nonno con una punta di nostalgia. E quando si passeggiava lungo i sentieri, tra file ininterrotte di rovi, non mancava mai di ricordarmi che le spine più insidiose sono quelle del fico d’India, che lasciano segni dolorosi sulle mani dei bambini imprudenti.

 

Un’altra massima che però non mi turbava, anche perché fino a quel momento non avevo visto né il mare né tantomeno il fico d’India.

 

E andò così fino agli inizi dell’autunno, perché poi il nonno si mise a letto con la resipola e i duroni sotto i piedi.
* * *
Ma il tempo è un mago e il nonno lo comprese e se ne dispiacque. Avevo diciotto anni, e quando, alla sua presenza, parlai per la prima volta di una donna con un calore particolare, lo vidi sorridere sotto i baffoni bianchi, un sorriso tra l’amaro e il compiaciuto.

 

Si leggeva in lui la sorpresa e la rassegnazione. «Lucia», disse alla mamma che lo guardava attenta dall’altra parte del tavolo, durante il pranzo, «qui piccininni non ce ne sono più». Si alzò, cominciò a camminare insolitamente per la casa senza un motivo, provava la solidità delle sedie, entrò nella camera da letto di mia madre, si guardò a lungo nello specchio del comò, e quella macchia al centro dello specchio, alla distanza in cui si trovava lui, dovette cadergli sull’angolo della bocca come una smorfia.

 

Io lo seguivo con lo sguardo, volevo scoprire ogni suo gesto, volevo intuire i suoi pensieri. Poi lui tornò presso la mamma e sorridendo le disse che, forse, sarebbe partito, sarebbe andato per qualche giorno nel paese dov’era nato, un paese della Puglia che non vedeva da moltissimi anni.

 

E il mese successivo, di luglio mi pare, partiva con la corriera che fa ancora servizio con lo scalo ferroviario. Portava con disinvoltura un ampio cappello di paglia, il vestito nero delle ricorrenze e un cestino di giunchi pieno di provviste. «L’americano! », disse scherzando mia madre, e ridemmo tutti. Ci rise anche lui e annunciò prima di andarsene: «Mi fermerò due giorni dalla mia vecchia a Taranto». E quella era sua cognata, una donna anziana ma assai meno vecchia di lui. Da lei si fermò soltanto un giorno e quella non fece altro che parlargli dei suoi malanni, tra cui il diabete e un’asma irriducibile. Il giorno dopo partì per Palagiano, il suo paese. «Qui sono nato », pensò appena scese dal treno, e si sentì bambino.
Ma improvvisamente si accorse che tutto intorno a lui era cambiato.

 

Sentiva che tutto il suo passato si profanava in quel momento.

 

«Com’è diverso qui », si disse con sorpresa. Ma poi si confortò pensando che cinquant’anni di assenza erano veramente troppi, ed entrò nel paese come un forestiero, quasi con timidezza. Volle fare qualche visita ma nessuno si ricordava più di lui. Soltanto un amico, il più vecchio, il sopravvissuto, lo riconobbe. Si tennero per mano come due bambini, si raccontarono tutto il passato e alla fine quello gli volle donare un cucciolo, un cuccioletto biondo, col musetto appuntito e le orecchie aguzze. Il nonno svuotò il cestino delle provviste e vi sistemò il cane.

 

Ripartì subito dopo dal suo paese come uno straniero. Si allontanò lungo il breve tratto di strada verso la stazione ferroviaria parlando col cucciolo. «Piccinì », diceva soddisfatto, «vedrai come starai bene a casa mia Là ci sono i briganti che ti faranno festa. Non temere, piccinì, vedrai, vedrai … » e girava stupito gli occhi intorno, forse perché in quel momento abbandonava per sempre tutto il suo passato. Ma non c’era sconforto dentro di lui e quando risalì sul treno non pensò più a nulla, tutti i ricordi li abbandonava nella stazione deserta.

 

Il mattino seguente, con la prima corriera, arrivò a casa.

 

«Hai fatto presto ritorno », gli disse contenta mia madre e cercò di liberarlo del cestino. Ma il nonno la fermò. «Lucia», disse con solennità, «lasciami il cestino che dentro c’è il piccininno ». E tirò fuori il cucciolo spaurito. Tutta la famiglia volle carezzarlo e sorrisero tutti per il nome che gli aveva imposto. Riuscii a carezzarlo anch’io e mi resi conto che in quel momento avveniva un passaggio di poteri tra me e il cane, gli trasmettevo quasi un’eredità. Il nonno si stava adottando un piccininno più paziente; era un sentimentale, nei suoi racconti non faceva altro che parlare della sua gioventù, dei suoi amici e dei suoi cani. Faceva le moine al cucciolo come a un bambino, lo faceva passeggiare per la casa, lo prendeva tra le braccia e la mamma gli stava dietro e alzava la voce perché lui si sporcava il vestito nero. Noi nipoti ridevamo di cuore e il nonno ci guardava con aria contrariata, forse perché aveva promesso al cucciolo un sacco di cerimonie da parte nostra. Il cane tremava, si sentiva estraneo in mezzo a noi e quando il nonno lo lasciò per terra, si accucciolò ai suoi piedi: non voleva saperne più di camminare. «Ciù ciù piccinì! Ciù ciù piccinì! », lo incoraggiava il nonno, e vinto da quella sua insistenza la bestiola alzò la gambetta di dietro e gli fece la pipì sulla scarpa. Scoppiammo a ridere tutti fragorosamente. Il cane si spaventò, corse a nascondersi in un angolo della casa. Il nonno gli andò vicino, si piegò a carezzarlo. «Non li curare, piccinì», diceva per rincuorarlo. «Lasciali stare, piccinì, quelli sono tutti briganti». E col cucciolo tra le braccia scoppiò a ridere anche lui.
* * *

 

Nel millenovecentocinquantatre il nonno morì. Era marzo. Lo accompagnai al cimitero in un chiaro mattino, c’era il sole sulle colline. Non piangevo, eravamo ancora vicini noi due e io mi sentivo il piccininno che andava a passeggiare con lui lungo le strade assolate della campagna.

 

E lo lasciai lì, sulla via dritta della collina che porta al camposanto, mentre io me ne tornavo ancora una volta lungo la via traversa.

 

 

 

4 Responses to I Racconti dello specchio del comò di Mario Trufelli – 3. Il Piccininno

  1. enza Spano ha detto:

    leggendo questo racconto ho ripensato a mio nonno -tatàrann- Maurizio , alto imponente , capoclan della famiglia. A Natale seduti alla sua tavola tutti i figli e nipoti gli baciavano la mano in senso di rispetto.
    In casa solo lui mangiava la carne ed io la piccoletta di famiglia seduta su una sua gamba mangiavo con lui.
    A mio fratello Maurizio gli toccava di comprare il sigaro – toscano. Quando lo guardavo allontanarsi da casa per la piazza vestiva in inverno con una mantella nera, il cappello e il fumo del suo sigaro.
    la piccinnenna ero io ed ancora oggi che ho 64 anni quando penso a lui ed anche a mio padre mi vedo piccola.
    i nostri ricordi fanno parte di noi e non ci permettono di dimenticare chi ci ha voluto bene.
    grazie Antonio per aver riportato alla luce questi ricordi sopiti.
    Enza Spano

    • Antonio Martino ha detto:

      Mi ricordo di tuo nonno, sia pure un po’ vagamente, un po’ confusamente. D’inverno se ne stavano in piazza intabarrati ad ascoltare il giornale radio trasmesso da un bar. Le mani in tasca, la testa affondata nelle spalle, fumavano il toscano tenendolo in bocca dalla parte accesa; di tanto in tanto, con un colpo della lingua (?), lo cacciavano fuori e tiravano un’alta profonda boccata. Ero incantato, ma non ho mai capito come facessero e dove finisse la cenere.

  2. Gilberto Marselli ha detto:

    Grazie Antonio di avercelo offerto. Questo racconto ci ha ridato anche il caro Mario, con la sua sensibilità ed il suo affetto intimo. Un salutare ritorno al passatto, come lo vivemmo da ragazzi e come, in sostanza, ci formammo ad essere quelli che siamo diventati. Grazie Antonio e, attraverso te, grazie soprattutto a Mario……..

  3. Antonio Martino ha detto:

    Ho telefonato a Mario e gli ho letto il tuo messaggio. Si è commosso.

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