Il terribile silenzio di Rocco
Al romanzo L’uva puttanella di Rocco Scotellaro si aggiunsero i Frammenti e Appunti dai Quaderni, pubblicati, con nota introduttiva di Carlo Levi, in Nuovi Argomenti, 17-18, novembre 1955-febbraio 1956, pp. 1-40 e ripubblicati nel 1974 dalle Edizioni Basilicata, in appendice al romanzo o racconto lungo giovanile Uno si distrae al bivio (Usdb). Il romanzo e i materiali aggiunti appaiono ben poca cosa se confrontati col Disegno generale del libro pubblicato nello stesso Usdb, pp.97-104. Disegno generale del libro e Frammenti e Appunti dai Quaderni in Usdb si presentano come un documento unitario.
Tempo fa su Rabatana pubblicai in pdf: 1) il testo del romanzo, 2) il testo del Disegno generale del libro e i Frammenti e Appunti dai Quaderni, nonché 3) un “commentario” col titolo Rabatana legge L’Uva puttanella. Come è venuto in mente a me di rileggere i suddetti testi, spero che qualche lettore sia indotto a leggere almeno qualche brano. Rileggendoli, sono stato attratto dall’intestazione a Kafka, a lettere capitali, dell’appunto n. 12 della prima parte, articolato nei seguenti sette pensieri, che ora viene naturale definire kafkiani:
Nella mia Uva puttanella non è questione di puttanismo politico, fenomeno comune ai capi e ai gregari delle chiese e dei partiti e a tutti gli uomini.
Si tratta invece di rinuncia all’essere, di riluttanza al divenire maturi e grandi.
Ho visto uomini in divisa consacrarsi al sangue, e povera gente in fila per il tozzo di pane giornaliero: persone normali; ho visto arruffoni e speculatori, ladri e assassini: persone poco normali; capi chiese e capindustrie e capipoli, anormali; artisti col capo volante, esseri non essere, ma uccelli, sia che abbiano o non abbiano pane e comodi.
Mia madre mi vuole bene, io non le voglio bene, o soltanto qualche volta per abbandono o malanno provvisorio.
C’è gente che studia e deve arrivare, arriva ed è contenta.
C’è persone che vogliono sposarsi e si sposano.
Io non so che fare, forse mi ucciderò: sarà l’unico gesto normale, di cui spero che sia capace.
Penso che Dio è l’uomo più furbo di questa terra, sta nascosto in un buco per manovrarci così bene.
Kafka aveva annotato per anni, in fogli e quaderni, senza ordine, titoli e date, prose e aforismi, destinati a essere distrutti. Il suo fedele amico Max Brod, tra il 1931 e il 1954, pubblicò i quaderni di appunti di Kafka (otto quaderni: da Heft A a Heft H). Il suo intento era di farli conoscere, pertanto si fece interprete dell’opera senza alcuna preoccupazione filologica. Solo alla fine del 1992 Samuel Fischer pubblicò l’edizione critica dell’opera di Kafka (in particolare Lettera al padre e gli otto Quaderni in ottavo), modificando così l’immagine dei “racconti” che vigeva da sessant’anni. I testi sono accompagnati da un apparato critico con varianti e con ipotesi di datazione. Cito prose celebri quali, prima di tutte, Il silenzio delle sirene, e poi Prometeo, Indagini di un cane, La tana, che, a fianco di altre prose meno conosciute, ci restituiscono l’immagine di un Kafka nuovo, frammentario, sublime nella sua maturità e considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via.
Quando Rocco muore Brond non aveva completato la pubblicazione degli scritti di Kafka. Mi sono chiesto quale conoscenza Rocco avesse potuto avere a Tricarico. Tra i miei libri conservo opere che Rocco può aver potuto consultare: l’Enciclopedia Treccani (che nel 20° volume , pubblicato nel 1939, dedica a Kaka più o meno quattro righi) e la Storia Universale della Letteratura di Camillo Prampolini, pubblicata nel 1952, che nel volume V cita due volte lo scrittore praghese e nel volume VI, oltre a citarlo alcune volte, gli dedica un’ampia trattazione sviluppata in cinque pagine. Rocco può aver letto le suddette pagine e nulla esclude che abbia letto e studiato qualcuna delle geniali opere kafkiane, che gli ha ispirato gli appunti di cui sopra. Ma non poteva sapere che la sua vita sarebbe stata così simile a quella di Kafka e i suoi scritti sarebbero stati pubblicati grazie all’interessamento di un suo Max Bord (al quale chi leggerà questo post potrà dare un nome – o più nomi – ed esprimergli riconoscenza).
Il mistero dell’intitolazione di quell’appunto n. 12 mi ha comunque lasciato la ferma convinzione che, se ci sforzassimo di conoscere un pochino Kafka, impareremo qualcosa in più su Rocco.
Il titolo di questo articolo è ispirato al seguente aforisma di Kafka: «Le sirene possiedono un’arma ancora più terribile del loro canto. Il loro silenzio». Penso che dalla sera del 15 dicembre 1953 (le ore diurne del suo utimo giorno Rocco le visse, parlò e scrisse) dura il silenzio di Rocco e mi chiedo se il suo silenzio viene ascoltato o no.
L’aforisma è tratto dalla seguente storia. Le storie di Kafka hanno talvolta lo stile delle parabole e il senso è difficile, quasi impossibile da decifrare. E’ evidente che in questa storia il referente non è l’Odissea, qui le sirene non cantano e Ulisse non ascolta il loro silenzio.
Franz Kafka, “Il silenzio delle sirene” (Quaderni in ottavo, 1916/18)
“Teoricamente esiste una possibilità di essere felici in modo assoluto: credere nell’indistruttibilità in sé e non cercare di aspirarvi.”
Dimostrazione del fatto che anche mezzi inadeguati, persino puerili, possono servire alla salvezza.
Per proteggersi dalle Sirene, Odisseo si tappò le orecchie con la cera e si lasciò incatenare all’albero maestro della nave. Naturalmente tutti i viaggiatori avrebbero potuto fare da sempre qualcosa di simile, eccetto quelli che le Sirene avevano già ammaliato da lontano, ma era risaputo in tutto il mondo che era impossibile che questo potesse servire. Il canto delle Sirene penetrava dappertutto e la passione dei sedotti avrebbe spezzato ben più che catene e albero. Odisseo non ci pensò, benché forse lo sapesse per esperienza. Confidava pienamente in quel poco di cera e in quel fascio di catene e, con l’innocente gioia per i suoi astuti sotterfugi, navigò incontro alle Sirene.
Ora, le Sirene hanno un’arma ancora più terribile del canto, cioè il silenzio. Non è certamente accaduto, ma potrebbe essere che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio. Al sentimento di averle sconfitte con la propria forza, al conseguente orgoglio che travolge ogni cosa, nessun mortale può resistere.
E, in effetti, quando Odisseo arrivò, le potenti cantatrici non cantarono, sia che credessero che solo il silenzio potesse vincere un così abile avversario, sia che, alla vista dell’estasi nel volto di Odisseo, che non pensava ad altro che a cera e a catene e a un enorme cavallo di legno sulla piana di Troia, si dimenticassero proprio di cantare.
Ma Odisseo tuttavia, per così dire, non udì il loro silenzio e credette che cantassero e di essere lui solo protetto dall’udirle. Vide fugacemente sulle prime il movimento delle loro gole, il respiro profondo, gli occhi pieni di lacrime, le bocche socchiuse, ma credette che questo facesse parte delle melodie che non udite risuonavano intorno a lui. Ma tutto ciò sfiorò appena il suo sguardo fisso nella lontananza, le Sirene sparirono davanti alla sua determinazione e, proprio quando era più vicino alle Maliarde, non seppe più niente di loro.
Esse però – più belle che mai – si stirarono e si girarono, lasciando ondeggiare al vento le loro terribili capigliature e graffiavano furiosamente con gli adunchi artigli gli scogli. Non volevano più sedurre, volevano solo farsi penetrare il più a lungo possibile dallo sguardo dei grandi occhi di Odisseo.
Se le Sirene fossero dotate di consapevolezza, quella volta sarebbero state annientate. Ma sopravvissero e solo Odisseo sfuggì a loro.
A questo punto, si tramanda ancora un’appendice di quest’antica leggenda. Odisseo, si dice, era così ricco d’astuzie, era una tale volpe, che neppure la Parca, filatrice del destino, poteva penetrare nel suo intimo. Forse egli, benché questo non si possa capire con l’intelletto umano, si è realmente accorto che le Sirene tacevano e non ha fatto altro che opporre, sia a loro che agli Dei, come se fosse uno scudo, la finzione precedentemente narrata.
Cfr. Virgilio, Eneide, V 854-871
Ed ecco il Dio* a Palinuro scrolla sulle tempie
il ramo bagnato di rugiada obliosa
e le tremanti pupille gli spegne nel buio.
Una improvvisa quiete gli fasciò le braccia
e insieme con il timone e con lo scafo
senza che giungesse ai compagni il suo grido lungo
cadde indietro giù nel silenzio delle onde.
E il Dio si alzò sulle ali verso la Notte.
Intanto la flotta prosegue sul mare il cammino sicuro,
audace s’avanza per l’aiuto promesso dal padre Nettuno;
e già s’appressava agli scogli delle Sirene,
un tempo rischiosi e bianchi per le ossa di molti
morti – suonavano allora da lontano quei sassi
sul flusso continuo del mare – quando Enea
sentì che la nave errava malferma qua e là,
che perduto aveva il pilota, e la regge lui stesso
per le onde notturne. A lungo pianse,
turbato nell’animo, la sorte toccata all’amico:
«Troppo fidavi nel cielo e nel mare sereno, Palinuro;
e ora chissà in quale spiaggia giacerai insepolto.»
* Il Dio Sonno. Al v. 815 Nettuno infatti aveva risposto a Venere (che implorava l’approdo sicuro per il figlio nel Lazio): «unum pro multis dabitur caput», «per lo scampo di molti sarà uno solo abbandonato alla morte.» Capo Palinuro è a sud di Salerno.
(Nota di Rabatana. Gli ultimi 18 versi del Canto V dell’Eneide La toria termine sono la conclusione della storia. Per compiere la sua missione – portare in salvo i penati da Troia, fondare una nuova Troia in Italia – Enea ha dovuto abbandonare vilmente Didone, ammazzare Turno, ormai sconfitto, che pur avrebbe potuto risparmiare. Domina la figura di Palinuro, che qui è vittima del Sonno durante una navigazione tranquilla. Il nocchiero, che era stato abile e vigile durante la tempesta, e salva la flotta facendola salpare sulle coste siciliane; salva di nuovo le navi cedendo al sonno in una notte tranquilla, perché vittima sacrificale richiesta dai Fati. La vicenda di Palinuro sottolinea il fatto che l’eroe non può nulla di fronte al volere di un dio, ed evidenzia il tema dell’imperscrutabilità del disegno divino che in questo caso si vena d’ingiustizia. Sembra quasi un capriccio quello di Nettuno, che esige in ogni caso una vittima. Proprio grazie al sacrificio di Palinuro, divenuto “capro espiatorio”, i Troiani potranno raggiungere indenni il Lazio).
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Mi sorprendi sempre più e mi domando fino a che punto arriverai ? Sei un pozzo di cultura al quale vorrò sempre più attingere, almeno fino a quando me lo consentirà la vista sempre più traballante (i guai della vecchiaia !!!).
Mi sorprendi sempre più e mi domando fino a che punto arriverai ? Sei un pozzo di cultura al quale sempre più attingerò, almeno fino a quando me lo consentirà la vista sempre più traballante (i guai della vecchiaia !!!)
Carissimo GIL, Se vedi poco il rimedio non sta nello scrivere due volte la stessa cosa (ma lo so che l’hai fatto perché mi vuoi bene e hai voluto incensare due volte). Credo che il rimedio stia nel fare le cataratte. Un abbraccio, Antonio
Metafore o non metafore, strani riferimenti e ardite connessioni che molte volte non colgo, caro Antonio ti leggo sempre con gusto divertito perché mi consenti di tuffarmi in mari della letteratura che mi sono mancati e ora tu mi dai modo di inebriarmene.
Grazie di avere il privilegio di esserti amico
Mimmo
Caro Mimmo, E’ una storia di Kafka, come tutte le storie dello scrittore praghese difficili se non impossibili da decifrare. Di mio c’è solo il titolo di questo articolo: “Il terribile segreto di Rocco”. Intendevo dire che Rocco, come persona, è silente perché è morto, ma come poeta il suo canto continua. Ma noi ci vantiamo di essere stati suoi amici, di essere suoi paesani, ma non ascoltiamo né il suo canto né il suo silenzio, non sappiamo nulla. Si tratta per ora di una improvvisazione. Voglio rifletterci e “studiare” e se cavo qualcosa di interessante scriverò un altro articolo.
Grazie dell’amicizia, te lo dico col cuore, Antonio
Grazie a voi tutti,che fate vivere Rocco, tutti i giorni nei nostri cuori.Luigi
un silenzio assordante capace di farci riflettere e di indurci ad ascoltare.
grazie Antonio