All’inizio dell’anno riprese vigore un antico dibattito, concernente il divieto di bocciare nelle scuole elementari. Commisi l’imperdonabile leggerezza di condividere una petizione lanciata sulla piattaforma delle petizioni change.org, avendo del tutto confuso il senso della richiesta. Su FB ricevetti una tiratina d’orecchi dal mio caro amico Gilberto Marselli. Glberto non mi chiarì le idee e la questione, ma io non ignoro mai i suoi ammonimenti e non esitai ad eliminare da FB la mia condivisione, che non mi è ancora chiara, anche perché, … avendola eliminata, non posso consultare il testo e ritengo che non valga la pena impegnarmi in una complicata ricerca. La polemica – quale che sia il merito specifico – tocca, come ho detto, il cuore di un dibattito antico, che mi appassionò interamente, e appassionò parimenti i miei amici di fede politica, che si può sintetizzare col quesito: ha ragione don Lorenzo Milani o ha ragione la professoressa? Io e i miei compagni eravamo dalla parte di don Lorenzo Milani. Cinquant’anni sono tanti, i miei vecchi amici li ho persi lungo le strade della vita, ma io, cinquant’anni dopo, resto dalla parte di don Milani. Rilascio questa dichiarazione di fede e di ragione per segnalare e avvertire che, sulle colonne del supplemento domenicale del Sole 24 Ore (e forse o senza su altre prestigiose riviste),  è in corso un agguerrito attacco a don Milani, da parte del prof. Lorenzo Tomasin, professore ordinario di Filologia Romanza e di Storia della lingua italiana all’Università di Losanna.

Lo scorso 26 febbraio il professore pubblicò un’aspra e persino sarcastica stroncatura di don Milani. Sul Domenicale di oggi, domenica 10 settembre 2017, il linguista e accademico della Crusca Lorenzo Renzi, docente di Filologia Romanza all’Università di Padova indaga a 360 gradi la posizione del professore di Losanna. Subito appresso riporto il testo del suo articolo, dopo di che riassumerò l’articolo del prof. Renzi.

« Rileggo, a cinquant’anni dalla pubblicazione, la Lettera a una professoressa firmata dai ragazzi di Barbiana che si raccolsero attorno a don Lorenzo Milani: il priore moriva il 26 giugno di quello stesso 1967, poco più che quarantenne, e veniva sùbito laicamente santificato da chi voleva farne, senza consultarlo, un ispiratore delle imminenti rivolte, elevato grazie anche a quella Lettera agli altari novecenteschi della contestazione. Ogni rivoluzione del resto ha il suo cappellano, di solito cattolico: quella francese ebbe l’abbé Grégoire, prete e persecutore. Don Milani e i suoi contadini – ossia poveri , come li si chiamava nel linguaggio della scuola rurale di Barbiana, con termine che copriva indistintamente l’indigenza materiale e quella intellettuale, confondendo l’una con l’altra – presentavano in quel libriccino il programma di una scuola che si voleva inclusiva, democratica, rivolta non tanto a selezionare quanto ad accompagnare verso un livello minimo d’eguaglianza garantita, rimuovendo le differenze derivanti da censo e condizione sociale. Nobili ideali, senza dubbio, destinati a influenzare nei decenni successivi la scuola italiana, in cui molte delle raccomandazioni di don Milani e dei suoi ragazzi trovarono realizzazione talora puntuale, ben al di là – forse – delle loro stesse aspettative. Dalla sostituzione delle vecchie e inutili materie letterarie (a partire dall’inutilissima storia antica e dalla perfida poesia dei classici) con l’educazione civica e con la storia d’oggi; dalla cacciata della grammatica intesa come strumento d’oppressione all’abolizione di ogni forma di giudizio che distingua tra più bravi e meno bravi; dalla soppressione de iure o de facto della bocciatura – di ogni bocciatura – all’adeguamento del sistema educativo al passo dei più lenti. Sono tutti principî notissimi, e variamente giudicati e giudicabili, anche perché condizionati dal modo in cui volta a volta li si è applicati (di solito male; spesso peggio). Sarebbe fin troppo facile, e ingenerosamente sadico, osservare che la scuola prefigurata dalla Lettera a una professoressa è giust’appunto quella che oggi tutti deprecano, avendola scoperta se possibile peggiore di quella che l’aveva preceduta, perché capace di creare, nel suo sgangherato egalitarismo, disparità e ingiustizie ancor più gravi di quelle imputate all’odiosa vecchia scuola. Intanto, al santino di don Milani, che considerava la professoressa privilegiata e persino strapagata, occhieggiano oggi i rappresentanti del corpo docente peggio pagato e peggio considerato dell’Occidente. Ma che cos’era, poi, la vecchia scuola? Rileggendo la Lettera oggi, ciò che più colpisce non è tanto quel che impressionava forse i primi lettori: quel che allora pareva innovativo e progressivo sembra oggi logoro e semplicemente travolto, o meglio bocciato , dal corso precipitoso – ma forse non del tutto imprevedibile, né inevitabile – degli eventi. No, non è questo il punto. Ciò che impressiona oggi è il risentimento che anima quelle pagine, e che allora poteva essere inteso come riflesso dell’entusiasmo ribelle. Ma ormai appare solo come la manifestazione di una pervicace abitudine italiana a fare di odio e invidia la base di ogni ragionamento. Quella lanciata contro l’anonima professoressa (anonima sì, ma ben delineata sociologicamente e ritratta nella sua placida e detestata vita familiare, nel suo andare in vacanza al mare, nel suo frequentare i ritrovi degli intellettuali e persino le federazioni comuniste, in alternativa alla chiesa del paese) è una vera e propria lapidazione. La colpa dell’insegnante, agli occhi dei ragazzi di Barbiana, è di essere la ligia e ben retribuita esecutrice di un complotto scientemente ordito dal Sistema. Un complotto che, come si ripete tante volte nella lettera, mira a ingannare i poveri e i contadini. Se ingannare è ormai parola fin troppo ricercata (grazie all’intervenuto bando della lingua letteraria), se i contadini non esistono più e poveri o impoveriti sono tutti, l’accusa di ingannare i poveri si traduce semplicemente, nel linguaggio oggi più usuale in Italia, in quella di fregare la gente . In quel verbo, che i ragazzi di Barbiana non usano perché nel 1967 non si era ancora liberato dai ricordi squadristi che vi aleggiavano, ma che è davvero difficile sostituire con qualsiasi sinonimo: in quel verbo, e nell’etica che vi è sottesa, sta quanto di profondamente italiano – e purtroppo attuale – c’è nella Lettera a una professoressa . È l’idea che ci sia uno Stato, una scuola, una società, in una parola, un Sistema di cui si parla in terza persona, il cui preciso fine è quello di fregare , appunto, un noi in cui s’includono tutti coloro che, almeno pro tempore , lottano per il disvelamento del grande inganno (e perciò sono esenti da qualsiasi colpa). Nel frattempo, in attesa di passare da fregati a freganti , giacché tertium non datur , prendono per il ciuffo e linciano la professoressa – e, nella Lettera , i laureati in genere : memorabile il passo in cui si lamenta il fatto che «le segreterie dei partiti a tutti i livelli sono saldamente in mano ai laureati». A rileggerlo oggi c’è da ridere fino alle lacrime. La buona fede della professoressa è un’aggravante, comunque difficile da accettare. Meglio credere che l’azzimata docente sia ben informata del complotto, e lo avalli in coscienza, d’accordo col dottore e col giudice di cui è sposa fedele (così la Lettera ). Crederlo renderà più gustosa la sassaiola. La colpa, in fondo, è sempre della professoressa, ultimo ingranaggio del «carro armato» costruito dai ricchi (alias fascisti, alias dottori, alias Pierino, nel linguaggio della Lettera ) per schiacciare i poveri , alias contadini, alias Gianni, eroe degli ultimi di Barbiana, pronti a diventare i primi con rapidità ben poco evangelica. Già, perché nell’arco di pochi anni ricchi e poveri saranno indistinguibili, e finiranno per scambiarsi le parti in un balletto che avrebbe fatto girar la testa al curato del Mugello. Potenti diverranno gl’incensatori dell’altarino di don Milani, mentre gli odiati laureati , lungi dall’accaparrarsi laticlavi e ministeri (distribuiti con altri imperscrutabili criteri), faranno la coda per un posto da lavapiatti. Ma è così che i primi saranno ultimi ? Ah che rebus! A restare al suo posto sarà solo la professoressa, composta donna d’ordine che ieri bocciava troppo e oggi nemmeno può, anche volendo: ieri come oggi, sotto la gragnuola d’insulti di chi la vuole responsabile di tutti gli analfabetismi, capro espiatorio di ogni delitto. Mi fa una tenerezza. Sarà anche per questo che, in barba ai lapidatori seriali, ai curati ribelli e ai loro chierichetti, ai cercatori di complotti e ai pubblici predicatori, non so che farci: quasi per istinto, io sto con la professoressa.»

Il prof. Renzi ricorda la stroncatura di Tomasin a Milani e, prima di questa, sempre sul supplemento del Sole 24 Ore del 6 gennaio, una mezza stroncatura per il centenario della pubblicazione di un libro che ha fatto storia, il “Corso di linguistica generale” di Ferdinand de Saussure. Il “Corso” di Saussure – afferma Renzi – è l’opera che fonda la linguistica moderna, il grande mediatore del pensiero di Saussure, è stato Tullio De Mauro, che ha introdotto, tradotto e commentato il “Corso”, opera problematica perché non scritta dall’autore ma confezionata dagli allievi Charles Bally e Albert Sechehaye. Non solo in Italia, ma in molti altri paesi il Corso di Saussure si legge oggi con l’apparato di De Mauro.

Renzi, date queste informazioni, scrive di non dubitare che Tomasin tenga qualche freccia pronta nel carniere da tirare al primo anniversario utile su De Mauro. Il quale, oltre che esegeta di Saussure, è stato il linguista del Novecento che più ha fatto per far conoscere il pensiero di don Milani, lo ha condiviso, ne ha fatto un’insegna, ha aperto con un grande, ispirato ritratto di don Milani il suo libro “Le parole e i fatti”, 1977. Lorenzo Tomasin, dice, ha riletto don Milani, “Lettera a una professoressa”. L’ha letto con un occhio al presente e l’altro al 1968, l’anno della contestazione generale. Lettera a una professoressa” è stato il libro più letto dai Sessantottini, più di Marx, più di Marcuse. Sarà per colpa sua, suppone Tomasin, che adesso siamo ridotti come siamo ridotti, convinto com’è che il ’68 sia all’origine di tutti i nostri mali, scolastici, soprattutto, e sociali.

Leggiamo questa parabola da “Lettera a una professoressa”: «Non bocciare. Al tornitore non si permette di consegnare solo i pezzi che son riusciti. Altrimenti non farebbero nulla per farli riuscire tutti. Voi [i professori] invece sapete di poter scartare i pezzi a vostro piacimento. Perciò vi contentate di controllare quello che riesce da sé per cause estranee alla scuola». Don Milani è convinto che “Pierino del dottore”, figlio della borghesia, sia sempre promosso non per quello che impara a scuola, dove, certo, è uno scolaro attento, ma per quello che già sa da casa, come figlio di gente istruita. Gianni, figlio di contadini (ce n’erano quasi due miliardi nel pianeta, hanno calcolato i ragazzi sulle statistiche mondiali), è bocciato perché “non ha la lingua”, premessa necessaria per ogni apprendimento. La famosa professoressa si giustifica: lei ha promosso chi sapeva, bocciato chi non sapeva. Dicono i ragazzi di Barbiana: avrebbe dovuto fare come il tornitore coi pezzi che non volevano riuscire, lavorarci fino a poter mostrare rifiniti bene anche quelli!

Don Milani parlava di “poveri” e di “ricchi”, di “città” e di “campagna”, di dottori e di contadini. Un mondo diviso in due. Negli ultimi cinquant’anni il mondo è cambiato, dicono alcuni, più che nei venti secoli precedenti. Le classi sociali si sono rimescolate. Non possiamo più vedere il mondo con gli occhi di don Milani e dei suoi ragazzi, ma non possiamo nemmeno credere che le ingiustizie che li offendevano e li rivoltavano siano scomparse dalla faccia della terra. La prassi educativa moderna prevede ormai in tutti i paesi avanzati che la scuola non perpetui, ma cerchi di compensare la distanza tra i punti di partenza tra i bambini della diverse classi sociali. Prevede che ci siano statistiche sulla promozione sociale. Prevede pratiche speciali per i disabili. Sull’apprendimento della lingua da parte dei figli dei migranti si discute sui giornali, mentre di quella dei figli dei contadini fino a don Milani non ne parlava nessuno. In questo mondo nuovo, i problemi suscitati da don Milani non sono scomparsi. La sua voce chiama ancora, non più nel deserto. Ma Tomasin preferisce la professoressa.

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Va doverosamente ricordato il libro della prof. Francesca Giusti Lettera di una professoressa (trent’anni dopo Barbiana)

One Response to Ritorno a don Lorenzo Milani cinquant’anni dopo Barbiana

  1. Gilberto Marselli ha detto:

    Devo chiederti venia, ma non ricordo proprio i termini della nostra diversità di opinioni. A giudicare ex-post, continuo a ritenere che fu salutare l’intervento di don Milani, che tentò di smuovere un po’ le acque melmose (e non ancora allo stato attuale, che potrebbe meglio definirsi di “acque fangose inquinate”). E lo fu tanto più perché dimostrò che anche nel mondo cattolico -nonostante le delusioni patite dai dossettiani, traditi dalla degenerazione del doroteismo)- vi fosse qualcuno che aveva il coraggio di difendere alcune idee. Come ho dimostrato nel mio libro, per me l’attributo “contadino” ha un significato molto diverso da ogni legame professionale con la terra: “contadino” è chi è escluso dalla gestione di un potere degenerato in clientelismo e corruzione. In questo senso, continuo a ritenere che i “contadini” debbano essere messi più a loro agio per poter usufruire di quanto viene più facilmente elargito ai “luigini”. Naturalmente, non sono mai stato un estremista: ome non accettai il “totalitarismo” di alcuni cattolici integralisti e politicizzati che si sentivano impegnati in una “guerra di religione” anziché in regolari competizioni politiche così non fui mai vicino a quanti si illudevano, attraverso certe battaglie giuste, di attuare una rivoluzione impossibile, tra l’altro anche perché avevamo ancora un controllo da parte dell’esercito USA.Come ho detto nel mio libro, eravamo dei vasi di terracotta tra il bidone del PCI (che voleva un’impossibile rivoluzione) e quello della DC (che prometteva riforma MAI realizzate pur di avere più voti dei comunisti). So che non concorderai con me; ma questo è lo stato d’animo di un perdente come……e come tanti altri, purtroppo…

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