Rabatana legge Torregrupata: Assuntina e Francesco, appena sposati, s’imbarcano per l’America, portando con loro il trovatello (IV)
IV
Assuntina e Francesco, appena sposati, s’imbarcano per l’America, portando con loro il trovatello
Il bambino fu deposto di notte e in gran segreto avanti una chiesa. Don Pasquale organizzò l’infame operazione e Ettorino vetturino, brutto come la fame – brutto per la fame di tutta la vita – eseguì. Il racconto dell’abbandono del bambino, a mio giudizio, scorre tra le più belle pagine del romanzo, ricche di coinvolgenti descrizioni e considerazioni antropologiche e sociologiche. Ci sono altre decine e decine di pagine, come queste “tecnicamente non riassumibili” (alla fine spiegherò che cosa intendo dire con l’espressione virgolettata) e, a differenza di queste, talvolta troppo lunghe.
La chiesetta davanti la quale fu deposto il bambino è quella di Santa Maria degli Ulivi di Torregrande. Non per allusioni, ma papale papale si fa capire, come se si dicesse esplicitamente, che si tratta della Chiesa di Sant’Antùn di Tricarico, e che quando è scritto Torregrande bisogna leggere Tricarico, dove è viva la presenza di Rocco Scotellaro, proprio lui, sindaco di Tricarico e poeta. A mio avviso, il ricorso romanzesco alla mera realtà soffoca spazi di libertà e si rischia di abusare, violando spazi dove l’invenzione non può avere posto. Se il personaggio del romanzo ha trent’anni quando Rocco è sindaco (1946) (nella realtà ne aveva ventitre), l’anacronismo rende inverosimili fatti storici realmente accaduti. Rocco sindaco/poeta di Torregrande, per la stessa ragione di spazio della libertà inventiva soffocata, non può, per esempio, recitare, come scritti solo qualche giorno prima, mentre era seduto sulla Preta (“lo sperone di pietra”), versi (della poesia Lucania) scritti sei anni prima da Rocco Scotellaro, sindaco/poeta di Tricarico, né può citare un emistichio (“cresce il basilico”), che non compare nelle poesie del vero Rocco e pare rimandare vagamente a Lucania di Mario Trufelli (Da noi la malvarosa è un fiore / che trema col basilico / sulle finestre tarlate / in un vaso stinto di terracotta / e il rosmarino cresce nei prati / sulle scarpate delle vie accanto ai buchi delle talpe.)
Due anziani contadini, Francesco Antonio Cardella e Antonia Maria Cisterna, trovarono il bambino. Un bel bambino, ben vestito e ben nutrito, aveva addosso una busta, nella quale c’erano dieci biglietti da mille lire (una somma enorme, scandalosamente inimmaginabile per chiunque, una vera disgrazia penserà Francesco Antonio) e un biglietto. Il biglietto non lo lesse nessuno per molti anni, perché in tutto quel tempo passò tra le mani di chi non sapeva leggere né tanto meno scrivere. Quando fu letto, dopo circa trent’anni, era presente anche Agatina, che riconobbe la calligrafia del suocero, don Pasquale. Un primo eloquente indizio per indagare sulle origini del bambino! Sul biglietto c’era scritto: «Chi troverà questo bambino e lo crescerà, lo deve chiamare Giovanni Campagna». Nunzio Campagna – autore del romanzo – ha pensato (non inventato) questo nome, perché Giovanni Campagna era il nome del suo trissnonno abbandonato avanti una chiesa. L’abbandono di bambini o l’infanticidio è stato nei secoli un fatto di tali proporzioni e tale frequenza che non c’è bisogno di aggiungere alcunché. Tornando al romanzo, Campagna era il nome della nonna di Emma, unica figlia del conte Manuel Campagna di Mafredonia. Il marchese zio non aveva voluto coinvolgere il nome della sua casata nella nascita illegittima, né riconoscere la paternità naturale; ma allo stesso tempo, mantenendo in vita il nipotino, gli volle dare un nome di appartenenza alla famiglia della madre.
Il ritrovamento del bambino e della enorme somma che aveva addosso mise in aspro contrasto i due coniugi per la difficoltà e i rischi che comportava. (L’enorme, incredibile somma, anche in questo caso considerata più una disgrazia che una fortuna, angoscia Ettorino vettorino e la moglie: due poveracci – si è già compreso – che hanno un ruolo rilevante in questa storia. Ettorino comincia a diventare pazzo quando il suo cervello fu invaso dall’idea della condanna al fuoco eterno per il suo peccato, e questa idea divenne la sua ossessione, che non faceva posto ad altre idee. Appiccò il fuoco alla casa e al carretto. «Mentre tutto bruciava, saltò sull’asino e si lasciò portare, senza destinazione. Per qualche giorno si parlò di lui, soprattutto perché non si trovò il suo corpo incenerito fra le misere macerie della casa. Poi, Ettorino vetturino divenne, sia per i soldi che per la scomparsa, una favola destinata all’oblio, ma non per i lettori di Torregrupata: più avanti avremo notizia della sua scomparsa». )
I soldi più che il ritrovamento di un bambino terrorizzavano Antonio Cardella e Antonia Maria Cisterna: erano tanti che non si sarebbero potuti nascondere, né giustificare. Meglio far finta di non aver trovato nulla. La moglie era titubante. Dopo molto discutere e litigare decisero di dare il bambino al fratello più giovane di Francesco Antonio, Cenzino, che aveva una figlia, Assuntina, che stava per sposarsi. Proposero di pagare il viaggio per l’America ad Assuntina e le spese del matrimonio a Cenzino. Assuntina era contenta di liberarsi del padre e della madre che stavano sempre col muso, e del fratello che era uno storpio e parlava a mezza lingua; per questo era disposta a tutto. Il futuro sposo (erano alla vigilia del matrimonio) si chiamava Francesco Totaro. Assuntina aveva sedici anni, la sua era ben altro che la bellezza dell’asino e il suo corpo era stupendo. In paese i soliti pettegolezzi dicevano che una ragazza così bella non poteva essere figlia di Cenzino. Francesco non era tanto un buon ragazzo, come in principio viene presentato, ma piuttosto era ciò che, nel linguaggio del luogo, esprime il suo cognome: totaro = torsolo di granoturco, fesso, babbeo. Era tale la differenza tra i due promessi sposi che nessuno se ne capacitava. Ma la spiegazione era semplice: Assuntina aveva ceduto la sua verginità a Francesco, per uscirsene di casa, dove non ne poteva più, e Francesco, da totaro qual era, se ne vantava in giro. Egli aveva una sola qualità: una straordinaria fortuna al gioco, al tavolo da gioco mostrava un’abilità sbalorditiva nel calcolare le mosse sue e degli avversari, ma il gioco non è un mestiere, dicevano i paesani, e un brutto giorno la fortuna ti può abbandonare.
Assuntina e Francesco si sposano e il giorno dopo partono per l’America, portando con loro il bambino. Si possono permettere, con i soldi avuti, un viaggio più confortevole di quello che sopportavano masse di emigranti che varcavano l’Oceano in cerca di fortuna.
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