VI

Victor, già Tom, diventa un evoluto cittadino americano 

Non passò molto tempo dal ricovero in orfanotrofio che Victor fu adottato da una coppia di sposi: Steven Shiffer, trentenne, con le caratteristiche somatiche di un irlandese, lui; Elizabeth Thompson lei, di alcuni anni più giovane, con ascendenze afro-americane. Erano andati in un istituto di adozioni data la sterilità di Steven.

Victor non aveva ancora cinque anni, fu adottato e chiamato Patrick – Patrick Shiffer -. A diciotto anni, quando lasciò definitivamente il college era un americano a tutti gli effetti, parlava e scriveva perfettamente la lingua, conosceva storia, costituzione, leggi degli Stati Uniti, aveva familiarizzato coi suoi coetanei e adottato stile di vita e valori sociali dell’americano fiero di esserlo.

Per festeggiare la conclusione degli studi Steven e Patrick fecero un viaggio in Italia. Avrebbero voluto visitare Torregrupata, ma il paese era sconosciuto. Si informarono, consultarono perfino una sorta di prontuario dei Comuni dell’ex regno borbonico. Invano! Patrick fu deluso, ma non smise di pensare che quel paese introvabile era il paese della sua nascita, non smise di pensare a quel posto di pecore e di aquile.

Ritornò in Italia nel luglio del 1943, al comando di un reparto composto prevalentemente di oriundi scozzesi, irlandesi e italiani. Ad appena trent’anni era colonnello dell’esercito degli Stati Uniti. Poneva piede in Italia da nemico (mancavano due mesi alla richiesta dell’armistizio da parte del governo italiano) e gli dispiaceva. Sperava, avanzando sul suolo italiano, di avere notizie di Torregrupata, chiedeva in giro, ma a tutti era ignoto persino il nome di quella località. A Napoli, grazie a una serie incredibile di casualità, sentì l’espressione “marchese di Torrgrupata”, ma era solo un modo di dire per riprendere chi si dava arie: “Ma chi ti credi di essere? Il marchese di Torregrupata?”. Comunque, fu uno spiraglio. E, infatti, ancora casualmente, Patrick venne finalmente a sapere che un paese chiamato Torregrupata esisteva realmente e, con la forza delle parole e molti dollari, riuscì a convincere i suoi informatori ad accompagnarlo. Questi, dopo ricerche andate a vuoto, lo convinsero che non avrebbero cavato un ragno dal buco chiedendo informazioni  a destra e a sinistra. Erano riusciti a sapere che a Torregrupata c’era una persona che sapeva tutto, ma dalla sua bocca non sarebbe mai uscita una parola. Solo la nuora, vedova, che viveva con lui e si diceva fosse la sua amante, sarebbe riuscita a farsi fare qualche confidenza. Si riferivano evidentemente  a don Pasquale e a Agatina. Patrick conobbe Agatina e le chiese aiuto con una eccitazione che commosse la donna. Agatina aveva sentito parlare di una certa Assuntina, partita per l’America dopo il matrimonio, ma non sapeva nulla del bambino. Riteneva, peraltro, che suo suocero, don Pasquale, qualcosa potesse sapere. Meglio, tuttavia, non domandargli nulla per il momento. Patrick ripartì, lasciando Agatina seriamente determinata, per conto suo, ad aiutarlo. Prese, pertanto, ad interrogare abilmente il suocero e a fare domande in giro, nel paese. Un vecchietta ottantenne, zia Peppa, che stava di casa all’estremità, fuori mano, dette preziose informazioni. Riferì, infatti, che una notte di tanti anni prima aveva udito provenire da una casa vicina, dove abitavano padre, madre e un giovane figlio molto bello, che si chiamava Michele, rumori di tafferugli e implorazioni dei genitori. Ricordò pure di aver visto, in lontananza sulla strada, come se osservasse per assicurarsi della buona riuscita dell’operazione don Pasquale. Di Michele, dopo quella notte, non si seppe nulla; i genitori erano morti e la casa era chiusa. Zia Peppa conservava la chiave di quella casa.

 

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