VIII

Emma: sola mamma

 

Don Pasquale, da tempo ammalato, scomparve, … secondo la regola del suo ambiente criminale. Un giorno Agatina, mentre metteva ordine nel disordine intoccabile del suocero, fu attratta da indecifrabili segni tracciati a matita su una immaginetta della Madonna del Bosco (località puntualmente descritta come Montevergine di Avellino). Poco distante dalla chiesa, anzi attaccato, c’era un convento di suore, che fu fatto costruire come eremo di penitenza e di espiazione dal feudatario del luogo per segregarvi la moglie infedele e la figlia adolescente, nata dalla relazione adulterina. Era un convento particolare, le suore si chiamavano recluse e non suore, perché non si trovavano in quel luogo, un inferno, per loro scelta, né facevano i voti: vi erano state trascinate e chiuse con l’ordine di redimersi. C’era chi si dava alla penitenza e alle preghiere, ma la maggior parte impazziva e si riduceva a uno stato animale.

Emma, ancora incinta, fu reclusa in quel convento, dove non sopravvisse a lungo.

Agatina e Patrick vi si recarono. A Patrick l’edificio ricordava da vicino il manicomio dove aveva trovato il padre e sperò di non trovarvi la madre. Furono condotti dalla suora/reclusa da più tempo, la sola che potesse ricordare questa Emma, che nessuna ricordava. L’anziana reclusa era Elvira: la governante del marchese di Torregrupara, che aveva favorito e protetto l’amore di Emma e Michele. Elvira raccontò, raccontò tutto: ogni particolare degli inizi del tragico destino di Emma e Michele, e del bambino e di quella mattina, al sorgere del sole, quando, nel convento, nacque il bambino. Il cibo mancava, Emma deperiva a vista d’occhio, e con lei deperiva il bambino, che, per la fame, strillava notte e giorno. Un giorno giunse don Pasquale a controllare la situazione. Resosi conto che il bambino rischiava di morire, lo strappò alla madre.

Qui finisce il racconto di Elvira, che Patrick volle che tornasse con lui a Torregrupata.

Una domenica mattina Agatina e Patrck, insieme a Michele, che voleva vedere dove era nato il figlio e si era consumata la vita di Emma, si recano al convento, dove incontrano un uomo curvo e claudicante, a piedi nudi, barba e capelli bianchi. Era un penitente, che gridava il suo peccato di aver tradito un bambino innocente e preso i soldi di Giuda. Lo interrogano e il penitente confessa che egli, in cambio dei soldi di Giuda, molti soldi, aveva deposto un bambino innocente avanti una chiesetta. Solo lui e don Pasquale conoscevano quel segreto; e quando Agatina fece il nome di don Pasquale il penitente cominciò a inveire: il diavolo, il diavolo, era il diavolo! Non poté aggiungere altro, non poté dire avanti quale chiesetta aveva deposto il bambino: la verga gli cadde dalle mani, barcollò e si accasciò.

Ad Agatina bastò per essere sicura che il paese dove bisognava cercare chi avesse trovato e raccolto il figlio di Emma fosse Torregrande, una piccola capitale locale (la descrizione della località lascia individuare Tricarico).

Il prosieguo del racconto vede Michele recuperare in pieno le sue facoltà e accompagnare il figlio in collina, sulla riva di un laghetto, dove consumano un rito di legame col luogo natio, bevono l’acqua dove si abbeverano gli animali del bosco e dell’aria, e dove scende ad abbeverarsi un’aquila! Vede infine Patrick/Nicola rintracciare Assuntina a New York e i due incontrarsi e amarsi. Nicola le chiede di tornare dove era nata, di vivere con lui. Assuntina chiede: – Come la piccola mamma? – e Nicola ribatte: – No, come la grande donna! -. Ho sintetizzato all’osso questo finale fin troppo fantasioso della storia, perché a me pare che solo questo conta: quella sorta di rapporto edipico annulla il fatto che Assuntina fosse stata l’unica donna ad averlo tenuto in braccio da bambino come una mamma e gli avesse fatto sentire il caldo del suo corpo e il profumo della sua pelle. La piccola mamma non c’è più, non c’è mai stata, c’è il bel corpo di una grande donna da amare. La sola vera mamma è Emma.

(continua)

CONCLUSIONE SEMISERIA DI RABATANA

 

Quando nella prima metà del secolo scorso facevo le elementari (e  in quel preistorico periodo ho fatto anche le medie, il ginnasio, il liceo e un po’ di università) i maestri assegnavano temi la cui traccia era: “Dopo aver letto …”. Al posto dei puntini c’era il titolo di un racconto, una poesia, un libro: “Cuore” e “Pinocchio”, o “Dagli Appennini alle Andre”, “La piccola vedetta lombarda” ecc., immancabilmente). Una traccia schizofrenica, sentenzierebbe il dott. Coppola: per svolgere bene il tema bisognava fare un buon riassunto e qualcosa di più: l’aggettivo qualificativo allude al di più del riassunto.

La struttura schizofrenica era lo stratagemma escogitato dai maestri, quelli bravi, per aggirare le disposizioni ministeriali, che volevano che a scuola si facessero temi e non riassunti. I bravi maestri ubbidivano assegnando temi con la suddetta traccia, e gli alunni diligenti, avendo ricevuto buoni insegnamenti, facevano riassunti, con un di più, se ne erano capaci. Il maestro Alfredo Toscano, che prese la laurea, fece carriera e divenne provveditore agli studi, all’uscita del «Cristo si è fermato a Eboli», pubblicò un volumetto dal titolo «Dopo aver letto Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi». Il titolo fece sorridere gli intelligentoni, che presero fischi per fiaschi e mostrarono che, al posto delle teste, avevano fiaschi.

Un po’ di tempo fa un illustre linguista e uomo di scuola del calibro di Luca Serianni, alla trasmissione sul terzo canale della Tv condotta da Corrado Augias, ha proposto esplicitamente di sostituire a scuola il tema col riassunto e ha dimostrato quanto il riassunto sia più impegnativo e formativo del tema.

Ragioniamoci. Se si da il tema: “Dopo aver letto Torregrupata”, lo svolgimento deve dimostrare di aver letto il romanzo (perché dopo aver letto significa che bisogna averlo letto prima e averlo capito (perché se non si è capito, un povero cristo non è capace di scrivere un’acca): questo è il minimo sindacale per aspirare alla sufficienza. Un di più, dato dall’espressione ragionata di giudizi e valutazioni critiche, è apprezzato e premiato.

Può darsi che uno scolaro intelligente, furbo e sfaticato, che ha facilità a scrivere, senza aver letto neppure un rigo del libro o del racconto e, senza esprimere uno straccio di pensiero, infili un paio di metafore in bello stile orientale e altrettante citazioni di dubbia paternità. (La memoria gioca brutti scherzi, è bene controllare prima di sciacquarsi la bocca con una citazione, e il controllo può comportare fatica e tempo in una certa misura. Recentemente Corrado Augias, in una delle sue trasmissioni ha assegnato a Woody Allen una citazione sullo scrivere breve, che va attribuita a Blaise Pascal). Può anche darsi, e il caso si da, che il maestro al suddetto scolaro furbo, intelligente e sfaticato dia un voto alto, e nella vita questo scolaro abbia successo, molto successo. Ma lo sappiamo che così gira il mondo e ci tocca anche troppo spesso di conoscere e avere a che fare con fessi di successo.

Per fare un riassunto non te la cavi con un paio di metafore in stile orientale e citazioni dubbie. Devi scrivere in breve tutto il contenuto di un libro, di un racconto o altro. I riassunti hanno lo scopo di formare, di imparare a pensare, a organizzare il pensiero con la propria testa e, sopra tutto, di imparare la cosa più importante e più difficile: lo scrivere breve, che è un modo di pensare lucidamente e saggiamente.

Per scrivere una buona presentazione o recensione di un libro, bisogna essere passati per una scuola così fatta: deve far capire di che tratta il libro presentato o recensito (e quindi bisogna averlo letto) e deve saper suscitare la voglia di leggerlo (e quindi non deve essere un riassunto, che la voglia la fa passare). I riassunti sono un esercizio per la propria formazione, si fanno a scuola per imparare, e preferibilmente non si pubblicano su giornali o riviste o siti per far risparmiare tempo e fatica ai  lettori.

Inevitabile la domanda: Perché, allora, Rabatana ha pubblicato un riassunto di Torregrupata? Perché ha scritto –  facendo arrabbiare, e non poco, il mio amico Nunzio Campagna,  autore del romanzo -, impegnando ben otto post, che Torregrupata racconta quasi nei dettagli la storia di un trovatello emigrato a sua insaputa, che cerca con determinazione le sue origini e le trova? Rispondo confessando che gli otto post innanzi pubblicati non sono un riassunto ben fatto di Torregrupata. Infatti, il riassunto trascura circa la metà del romanzo con la scusa che non è riassumibile. I romanzi raccontano e, se uno chiede, a chi l’ha letto, di riferirgli  del romanzo, non gli si può dire: – Leggitelo! – Leggitelo, ossia invogliare a leggerlo  può farlo solo una buona presentazione o recensione, non il riassunto di mezzo romanzo.

Una metà circa di Torregrupata non è riassunta su Rabatana perché io non l’ho capita. Non è riassumibile significa che non si è capito. Che cosa? Che Torregrupata non è un semplice romanzo, ma un romanzo-saggio. La storia del trovatello emigrato a sua insaputa c’è tutta nel romanzo, ma non è tutto il romanzo. Quella storia ispira anche considerazioni e riflessioni filosofiche – e non solo filosofiche, bensì anche mitologiche, antropologiche, sociologiche, psicoanalitiche, teologiche ecc. -; considerazioni e riflessioni che, unite alle vicende del trovatello che evolve, formano l’unità di un romanzo filosofico o di un romanzo-saggio, di taglio meridionalista.

A questo punto, qualcuno potrebbe chiedere: Ma se Rabatana ha capito di non aver capito Torregrupata, perché l’ha riassunto? La risposta è semplice. Rabatana ha il dovere di dare fiato anche a questa voce tricaricese è l’ha fatto come ha saputo. Non inutilmente, credo, perché, bene o male, grazie anche a questa conclusione sgarrupata, ha spiegato che cosa è questo quarto romanzo di Nunzio Campagna e in qualcuno può aver suscitato la voglia di leggerlo. Che, poi, leggere un’opera in originale è la sola cosa saggia che bisogna fare: i riassunti si scrivono o si pensano dopo aver letto l’opera, non si leggono, ripeto, per non leggere l’opera di cui si tratta e dare ad intendere che la si conosce, risparmiando tempo e fatica. Leggere in originale fa anche capire se l’opera è bella o brutta, se è riuscita o no, se deve essere conservata nella propria biblioteca o se va data come regalo di compleanno a … chi la merita.

 

4 Responses to Rabatana legge Torregrupata: Emma: sola mamma (VIII) – Conclusione semiseria di Rabatana

  1. domenico langerano ha detto:

    Perché non ci dici qualcosa di più su “”””Il maestro Alfredo Toscano, che prese la laurea, fece carriera e divenne provveditore agli studi, all’uscita del «Cristo si è fermato a Eboli», pubblicò un volumetto dal titolo «Dopo aver letto Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi»””””.
    Grazie
    Mimmo

    • Antonio Martino ha detto:

      Caro Mimmo, Il qualcosa di più che mi chiedi lo concretizzo con un passo dell’Uva puttanella e un mio commento. A. T. era fratello di don Pancrazio T.

      Scendendo dal corso, a passi di cavallo, sprofumato Don Enrico si avvicinò a quel gruppo. A un tratto: – Eccolo – gridò tanto forte che il capitano e tutti si voltarono a lui. E lui così coperto di sguardi, si mosse tra la folla verso un uomo: Prese il Segretario del fascio alla gola, lo tenne quanto tutti lo avessero visto e
      allora gli tirò uno schiaffo; come un lampo ruppe la folla e si diresse alla jeep, indicando l’uomo che aveva percosso: ma non successe niente, perché non c’era uno che non sapeva il significato di quel gesto.
      La jeep mosse balzellando il muso, Don Enrico avanti con il lungo dito a far segnale, la folla si dimezzò, qualche trenta persone andarono dietro e rimasero giù, sotto il portone di Don Enrico, che aveva già la tavola pronta per il capitano, il podestà, il vice e gli altri canadesi.
      Don Enrico fu individuato in don Peppe Santoro (fratello dell’avv. Giovanni Santoro patrigno dell’archistar prof. Amerigo Restucci, rettore dell’istituto universitario di architettura di Venezia, forse il più noto a Tricarico di una numerosa discendenza), perché era stato visto, tra la folla accorsa in piazza a salutare i “liberatori” o a curiosare, avere un alterco con Alfredo Toscano. Scotellaro scrive che don Enrico prese alla gola il segretario del fascio. Per la verità storica, l’ultimo segretario del fascio di Tricarico è stato il maestro Settimio Massaioli e don Peppe non ebbe alcun alterco con lui. Alfredo Toscano è stato il segretario del fascio “storico” di Tricarico. Combattente in Grecia subì una mutilazione alla mano ed è stato l’unico fascista tricaricese a pagare duramente con l’epurazione la sua militanza fascista. Rimasto senza lavoro, mise a frutto la sua maturità classica, conseguita dopo il diploma magistrale, si laureò in giurisprudenza e, intrapresa la carriera di funzionario della pubblica istruzione, la concluse come provveditore agli studi.

  2. Nunzio ha detto:

    Caro Antonio, l’ultimo riassunto e la conclusione semiseria hanno fatto capire, a me e agli altri lettore che ti seguono, il piano della lettura di Rabatana. Attraverso la individuazione dei nuclei narrativi, che nel romanzo non seguono l’ordine temporale, ‘è stata costruita la linearità degli eventi e facilitata la comprensione della storia. Del resto, come poteva essere presentata, se non nel modo da te scelto? Questo ti ha consentito di cogliere in Emma l’unica madre, il senso profondo e vero dei legami del protagonista. Se tu hai visto in Torregrupata io carattere del saggio, devo dire che non ne avevo l’intenzione. Volevo soltanto esporre, oltre ai fatti, i pensieri, i sentimenti, i comportamenti e le possibili riflessioni con cui i vari personaggi entrano nella storia e la costruiscono. Ma, come si sa, l’autore non è la persona più idonea a parlare di ciò che ha scritto, né? a riassumerlo. ANCHE PER QUESTO, IL TUO LAVORO è PREGEVOLE e merita tutta la mia riconoscenza. Con affetto, Nunzio.

    • Antonio Martino ha detto:

      Grazie di avermi fatto capire di più del tuo romanzo e di aver apprezzato la mia lettura. Con affetto ti saluto, Tonino

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