Domenica 22 ottobre è stata la giornata nazionale dei parchi letterari. Il Corriere della Sera del precedente mercoledì 18 ha trattato la Giornata dei parchi con la metafora del Giro d’Italia della letteratura “a spasso con Dante e Manzoni”, visitando da Nord a Sud case e luoghi resi celebri da poeti e scrittori, che accompagnano i lettori. Come il Giro d’Italia non fa tappa in tutte le regioni, così il Giro della letteratura non fa tappa in nove regioni, dove non sono stati istituiti parchi: Trentino, Friuli-Venezia Giulia, Piemonte, Valle d’Aosta, Marche, Umbria, Molise, Puglie, Calabria. In nove regioni è stato istituito un solo parco; in Toscana e Lazio, due; in Sicilia e Basilicata, tre. Aliano (Carlo Levi), Tursi (Albino Pierro) e Valsinni (Isabella Morra) sono i parchi della Basilicata. (CORRIEREFC_NAZIONALE_WEB(2017_10_18)_Page25)
Ho inteso partecipare alla ricorrenza leggendo i 13 componimenti della poetessa di Favale (Valsinni), con la quale, come scrive Giovanni Caserta, veramente comincia la letteratura lucana, cioè con una poetessa che vivrà e sentirà il dramma della propria esistenza di emarginata, quale riflesso dell’isolamento e della solitudine della sua terra. L’unica evasione per l’infelice fanciulla di Favale consisteva nel sogno, cioè nella poesia. Le sue rime escono postume nel corso del Cinquecento, verso la conclusione del trentennio 1530-’60 quando accade un fenomeno assolutamente nuovo, unico e mai più ripetuto nella storia della letteratura italiana: solo in questi anni, infatti, le donne “fanno gruppo”, si ha una sfilata di poesia al femminile – accanto alle notissime Vittoria Colonna e Gaspare Stampa, e alla stessa Isabella di Morra, si hanno Veronica Gambara, Laura Battiferri Ammannati e Veronica Franco, senza che riunire sotto un titolo comune le poetesse del Cinquecento significhi attribuire una peculiarità femminile alle loro opere, né sminuirne la portata.
Ho riletto, dunque, il sublime libretto di Benedetto Croce «Isabella di Morra e Diego Sandoval de Castro», dove sono pubblicati anche gli accennati 13 componimenti di Isabelle e 12 del Sandoval de Castro, e di esso pubblico due capitoli, dedicati alla poesia di Isabella e al paese dove ella visse e morì.

La poesia d’Isabella di Morra

I versi, che Isabella di Morra scrisse, sono di carattere assai personale e privato, e non erano tali da circolare tra letterati e accademie; e forse, lei vivente, non uscirono dal castello di Favale o da quello di Bollita, se ella li comunicò ai suoi amici Sandoval. Non è improbabile che quei componimenti venissero fuori nelle indagini dei magistrati, che perquisirono il castello di Favale e ricercarono nelle carte della famiglia e della povera uccisa. Sparsene le copie in Napoli, furono letti con pietà e ammirazione; e un primo gruppo di otto sonetti e una canzone vennero nelle mani di Ludovico Dolce, che li pubblicò nel 1552 nelle Rime di diversi illustri signori napoletani presso il Giolito di Venezia, libro terzo, ristampandoli nel 1555 nella stessa raccolta che prese il numero di libro quinto, e nel 1556 aggiungendovi altri due sonetti, due canzoni e una versione più matura delle canzoni già edite prima, le quali ultime cose ebbe dal libraio napoletano Marcantonio Passero: tutti furono poi ristampati (ma la canzone sopraccennata in una prima forma imperfetta) da Ludovico Domenichi in una raccolta di rime di poetesse, edita a Lucca nel 1559. A queste raccolte, dove i posteri lo ritrovarono, il nome d’Isabella di Morra rimase oscuramente raccomandato: ché nessuno dei contemporanei (salvo, nel secolo seguente, il nipote nella storia della famiglia) scrisse un ricordo di lei; né del Sandoval e della sua morte lasciarono, ch’io sappia, alcuna memoria i letterati italiani, che pur lo avevano conosciuto, sicché egli andò immerso, anco più dell’infelice sua amica, nell’ombra dell’oblio.
Il carattere personale dei versi della Morra e il non vedervisi segno alcuno di esercitazione o bellurie letteraria formano la loro prima attrattiva. L’autrice possedeva certamente buoni studi, aveva letto poesie classiche e aveva pratica del verseggiare e della forma italiana; ma mise in opera questa abilità, acquistata con l’educazione e con la scuola, all’unico fine di dare qualche placamento o mitigazione al suo affanno e travaglio, e rasserenarsi talora nella poesia. Né erano, gli affetti che esprimeva, solamente quelli che già conosciamo per averne indicati i motivi nelle sue condizioni di vita e nei suoi sforzi di liberazione; ma, quando lo sconforto l’abbatteva ed ella stava per disperare, erano impeti religiosi, tentativi di nuove vie per salvarsi spiritualmente rifugiandosi nel di là e nell’eterno. Ed ora si stringeva a Gesù, a Gesù dio- uomo, e, con mistica frenesia, si sforzava di profondarsi tutta in lui e di farsene presenti le divino- umane sembianze, la fronte, le ciglia, gli occhi, le chiome, la bocca di perle e rubini, le mani, il bianco piede, tutto il corpo di cui misurava con l’occhio interno la statura e la figura. E talora guardava con nuovo sentimento la natura circostante, e mirava all’orizzonte il sole che sorgeva, e lo seguiva in tutto il suo cammino, e ogni momento del suo viaggio le rimenava alla fantasia una scena della vita evangelica della Vergine e di Gesù, e si sentiva presa dalla brama di essere anche lei nella schiera di coloro che avevano saputo rinunziare, tra gli anacoreti degli eremi, entrando risoluta in questa via dolce e spedita per ottener la santa pace; e quei luoghi, allora per la prima volta, non le erano odiosi, ma quasi le parevano lo scenario confacente alla vita di ascesi alla quale s’innalzava; e allora chiamava il Sinni « veloce », e « felice» la grotta, « chiare» le fonti e i rivi, e le piacevano le erbe «non segnate mai da altrui passi», e i «boschi intricati » e i « sassi ruinati », che la rendevano come «compagna di quelli spirti divi ». Anima ardente se altra mai, arde ancora tutta nei superstiti suoi versi.
Questa immediatezza passionale, questo abbandono al sentimento, è la virtù della migliore poesia femminile, e ne è anche d’ordinario il limite, perché finisce con l’aderire pienamente alla vita vissuta senza salire alla superiore contemplazione e all’alto rasserenamento. Ma la giovane donna, che soffriva e desiava e sognava e si dibatteva in quel selvaggio angolo della Basilicata, e aveva nel cuore l’anelito alla bellezza dell’arte, più volte si solleva sull’empito degli affetti e rappresenta da poeta. Sono tocchi da poeta quelli che rendono gli spettacoli naturali nella canzone religiosa ora ricordata; com’è del sole, di Febo sorgente, che – ella dice ammirando – « fa nel mar la strada d’oro ». Ed è una figura poetica quella che crea di se stessa, quando si descrive sull’altura intenta a spiare verso il mare:

D’un alto monte onde si scorge il mare
miro sovente, io, tua figlia Isabella,
s’alcun legno spalmato in quello appare
che di te, padre, a me doni novella …

dove affetto e immagine confluiscono, tremante com’è la strofe di gentile affanno in quell’apposizione e in quel vocativo, in quel « doni », e non già semplicemente «porti novella», e insieme pittorica nella rappresentazione. Un piccolo dramma è quel suo voler come infondere nell’antico, nel classico fiume che scorre per quella terra, il ricordo di se stessa, sì che il padre, quando tornerà, ve lo ritrovi: lo ritrovi nel mormorio delle acque, nelle onde che fremeranno al suo arrivo e gli diranno che, così, mentre era viva, le accrebbero non gli occhi no, ma i fiumi d’Isabella!

Il paese dove ella visse e morì

Ed io ho voluto recarmi nei luoghi nei quali fu vissuta questa breve vita e cantata questa dolorosa poesia; in quell’estremo lembo della Basilicata, di cui ci ha parlato il Lenormant, tra il basso Sinni e il confine calabrese, tra la riva del mar Jonio, dove verdeggia la foresta di Policoro, e il corso del Sarmento, che versa le sue acque in quel fiume: un pezzo della Magna Grecia e della regione detta la Siritide, che, memore di quanto di essa celebrano le storie, sogna sempre una vittoria sulla malaria desolatrice e un rifiorimento dei suoi campi e della varia operosità dei suoi abitatori. E ho visitato, presso la stazione ferroviaria che prende il nome di Nova Siri, la torre del Sinni, sorta sulla spiaggia, per difesa e allarme contro le scorrerie dei barbareschi, a un lato della quale è ora appoggiata la marmorea tomba di un garibaldino e medico, nativo del prossimo comune, che volle essere colà sepolto, fuori del dominio dei preti, in faccia al libero mare; e sono salito alla Nova Siri, ossia alla Bollita, al vecchio feudo che fu dei Sandoval di Castro, luogo natale più tardi di quel borbonico ministro di polizia Giampietri, pugnalato da carbonari napoletani nel 1821, e del nonno di Luigi Settembrini, del quale si mostra ancora la casa avita. Il castello dei Sandoval, un tempo ben protetto dal precipizio alle sue spalle, è ridotto ad abitazioni private. Dalle sue finestre si guarda la via mulattiera che congiungeva Bollita alla terra di Favale, quella che soleva percorrere il suo barone e poeta, e che percorse lo sciagurato pedagogo di casa Morra, apportatore della lettera fatale. Per un’altra strada, cominciata a costruire poco innanzi il 1860, per la « rotabile» che attraversa questo corno della penisola italiana e mette capo a Sapri sul Tirreno, si raggiunge adesso, in poco più di un’ora d’automobile, Favale o Valsinni: alla cui entrata sono case di recente fabbrica, quasi tutte dovute a reduci emigrati di America, e il nuovo palazzetto municipale, che ha sulla facciata una lapide che ricorda i trenta figli di quel comune caduti nella guerra mondiale, e un’altra lapide con una pietosa epigrafe, dettata dal De Gubernatis, in memoria d’Isabella di Morra. Qualcosa di simile a un culto si è acceso, in questi ultimi anni, intorno alla risorta immagine della poetessa, presso i suoi concittadini: un gentiluomo quasi ottuagenario, il Melidoro, ristampò a sue spese e divulgò largamente l’edizione delle rime procurata dal De Gubernatis, e a sue spese fu incisa la lapide commemorativa; il dottor Guarino, che ha ereditato il suo zelo, invocò e tentò di promuovere nuove indagini sulla vita e le opere d’Isabella e ha fatto ritrarre in cartolina il paese con una scritta che lo lega al nome di lei. Il piccolo abitato è aggrappato e come conficcato nelle falde del ripido colle, che il castello sovrasta: il castello, anch’esso scosceso per tre lati e inaccessibile, che fu già uno dei molti arnesi di guerra e di riparo degli irrequieti e perpetuamente ribelli Sanseverino e del quale rimane in piedi la costruzione centrale e tutt’intorno i ruderi delle altre smantellate. Dal lato verso borea, che è quello dell’ingresso, si vede dai suoi spaldi svolgersi a valle in lungo nastro il Sinni, che ha qui il suo corso più stretto, e qui si gonfia torbido e impetuoso, e il suo mormorio accompagna l’unica vista dei monti tra i quali è rinserrato, tutti nereggianti di elci e di querce. Quella vista aveva davanti agli occhi immutabile, quel mormorio udiva incessante la giovane Isabella, relegata nel rude castello, in un paese allora quasi impervio, remoto da ogni consorzio culto e civile; e, nel ricontemplare questo scenario montano – che ha, e più aveva dell’orrido, quando la roccia non era stata incisa dalla nuova strada e scendeva compatta al fiume, – quasi si rinnovella l’oppressione e l’impeto disperato che fremeva in quel petto femminile. Sopra uno dei monti, che sono di faccia, di là dal fiume, sorge a seicentotrenta metri Colobraro, feudo dei Carafa e poi dei Donnaperna; dall’opposto lato, dietro una cortina di colli, è il monte Coppola, di ottocentonovanta metri, l’« alto monte» dove Isabella ascese talvolta con la persona, e più spesso con la fantasia, a mirare il lontano mare, ricercandolo in lungo e in largo con deserta brama di prigioniera. Dalla sua cima, nel nitido panorama della intera sottoposta regione, si vede Noia, ora Neopoli, non lungi dal bosco dove Diego Sandoval soggiacque all’agguato; e a settentrione, varcato con lo sguardo il fiume, si scopre Sirisio ossia Senise, in cui dimorava la gentildonna che dava alla misera lume di aiuto e di liberazione. Tra le mura ancora superstiti del vetusto castello, tra le quali mi sono aggirato e a lungo soffermato, Isabella sanguinò, trafitta dalle mani fraterne; ed ebbe riposo nella chiesa, che è giù ai piedi del castello, dedicata a san Pabiano: chiesa affatto ammodernata e dalla quale furono tolte via le lastre di marmo che coprivano i sepolcreti, e forse con esse l’indicazione di quello in cui erano deposti i corpi dei personaggi della casa baronale. Il parroco, venendo incontro al mio desiderio, ha fatto aprire un varco nel muro sottostante; ma i cumuli di ossame e gli interposti scompartimenti hanno impedito una completa esplorazione.
La mia visita ai luoghi in cui avvennero quei fatti non mi ha, dunque, fruttato nuovi documenti per illustrarli; ma era poi questo il vero motivo che mi aveva spinto a quel pellegrinaggio? In realtà, io non aspettava, e nemmeno vagamente sperava, di trovare colà nuovi documenti; ma ero tratto, come suole, dal desiderio di un più sensibile ravvicinamento ai casi del lontano passato per mezzo delle cose che vi assistettero muti testimoni, e che non sono, o assai poco, cangiate nell’aspetto, e sembrano svegliarne o prometterne la più vivace evocazione. Era, insomma, un modo di coronare per me stesso, per un mio intimo gusto, con un raccoglimento dell’animo e della mente, con un volo dell’immaginazione, le modeste indagini critiche, che ho esposte di sopra.

 

2 Responses to Ricordando Isabella di Morra nella Giornata dei parchi letterari

  1. Antonio Martino ha detto:

    III
    D’un alto monte onde si scorge il mare
    miro sovente io, tua figlia Isabella,
    s’alcun legno spalmato in quello appare,
    che di te, padre, a me doni novella.
    Ma la mia adversa e dispietata stella
    non vuol ch’alcun conforto posa entrare
    nel tristo cor, ma, di pietà rubella,
    la salda speme in pianto fa mutare:
    ch’io non veggo nel mar remo né vela
    (così deserto è l’infelice lito)
    Che l’onde fenda o che la gonfi il vento.
    Contra Fortuna allor spargo querela.
    ed ho in odio il denigrato sito,
    come sola cagion del mio tormento.

  2. Antonio Martino ha detto:

    I

    I fieri assalti di crudel Fortuna
    Scrivo, piangendo la mia verde etate;
    me che ‘n sí vili ed orride contrate
    spendo il mio tempo senza loda alcuna.
    Degno il sepolcro, se fu vil la cuna,
    vo procacciando con le Muse amate;
    e spero ritrovar qualche pietate
    malgrado de la cieca aspra importuna,
    e, col favor de le sacrate Dive,
    se non col corpo, almen con l’alma sciolta
    essere in pregio a piú felice rive *.
    Questa spoglia, dov’or mi trovo involta,
    forse tale alto re** nel mondo vive
    che ‘n saldi marmi la terrà sepolta.

    * Cioè, in Francia ** Il re Francesco I

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