Sulle orme di Cipolla
Le rilettura dei due più noti saggi ironici di Carlo M. Cipolla mi ha spinto a sfogliare la collezione del supplemento domenicale del Sole 24 Ore, dove il grande storico dell’economia ha lasciato molte tracce della sua ironia e altri ha spinto verso analoghi percorsi. Cambio, pertanto, il programma annunciato e inizio un diverso ciclo di pubblicazioni su Rabatana, cominciando con un brano di un’autobiografia di Cipolla, pubblicato sul Domenicale del 10 settembre 2000 col titolo «Come diventare storico per caso», a cinque giorni dalla sua scomparsa, il precedente martedì 5 settembre, dopo una lunga atroce malattia.
Io mi diverto a compiere questa ricerca, ma, se avrò sentore che i lettori di Rabatana si annoiano, smetterò immediatamente di tediarli.
Cipolla viene presentato come un irregolare della cultura e della storiografia. Privilegiava i dettagli, i particolari, rispetto ai grandi affreschi. Le cose rispetto alle parole. Sosteneva che a muovere i destini umani non fossero le gesta dei condottieri ma oggetti vili, insignificanti come una scheggia di metallo, una spezia, un grano di pepe. I suoi libri e i suoi elzeviri mandavano in bestia gli accademici e i letterati altezzosi, per i quali il bello scrivere è più importante dei contenuti, e l’eleganza più dell’esattezza.
Carlo M. Cipolla, non Carlo Maria, come hanno equivocato in tanti. Ho già raccontato come nacque quella M., e il pezzo autobiografico che segue fa capire che fu inventata come un espediente per non essere confuso con un omonimo, che aveva approfittato dell’omonimiq.
Ecco ora il brano autobiografico:
«Fin dal momento del nostro concepimento, la nostra vita è praticamente determinata dal Caso. Tuttavia non è mia intenzione discutere in questa sede perché mai il Caso abbia fatto sì che io nascessi a Pavia, o che mi toccassero in sorte occhi azzurri, una costituzione gracile, e cose di questo genere: sono problemi che possono interessare solo me, i miei familiari, e le persone che mi sono legate da vincoli d’affetto. É invece mia intenzione rendere testimonianza del determinante influsso che il Caso ha avuto nel corso degli anni sulla mia attività accademica e di studio. La prima cosa che devo al Caso è l’essermi dedicato alla Storia economica.
Quando ero uscito dal Liceo, io non avevo la più pallida idea di cosa fosse questa materia e a dire il vero, non sapevo nemmeno che esistesse. E nonostante ciò ero sul punto di esservi introdotto, quasi senza accorgermene, da un eccellente maestro. La cosa si svolse in modo piuttosto curioso. A diciassette anni la mia più grande ambizione era quella di diventare insegnante di storia e filosofia in un liceo. Pertanto, la cosa più ragionevole che potessi fare era quella di iscrivermi alla facoltà di Lettere e filosofia. Ma, secondo le disposizioni del tempo, a questa facoltà si potevano iscrivere solo gli studenti che provenivano dal liceo classico e io venivo dal liceo scientifico. Presso l’Università di Pavia esisteva però la facoltà di Scienze Politiche, alla quale mi potevo iscrivere e conseguire una laurea che dava adito all’insegnamento della storia e della filosofia nei licei. Non mi restava quindi che iscrivermi a Scienze politiche. Era il 1940 e il nostro Paese era entrato nella Seconda guerra mondiale, dalla parte sbagliata. Il professore che avrebbe dovuto insegnarmi Storia moderna era un ottimo docente, ma abitava a Napoli. Normalmente il viaggio in treno da Napoli a Pavia non richiedeva meno di quindici ore ma con la guerra era diventato insopportabilmente lungo e insidioso, sia perché i treni erano spesso impiegati per il trasporto di truppe e materiale bellico, sia per la minaccia degli attacchi aerei. Nel giro di due anni questo professore poté impartire a me e ai miei compagni non più di una dozzina di lezioni. Vi era tuttavia un altro docente, che abitava più vicino. Il professor Borlandi era professore di Storia economica a Genova e abitava a Pavia. Per arrotondare il suo stipendio, egli aveva chiesto un incarico alla nostra Università ma ahimè, l’Università di Pavia non aveva una facoltà di Economia, e la Storia economica non era compresa nel piano di studi di alcun’altra facoltà pavese. Gli italiani sono esperti nel formulare regolamenti complicati, ma sono ancor più abili nel saperli aggirare. Il consiglio della facoltà di Scienze politiche, dove il professor Borlandi contava degli ottimi amici, non potendo dargli un incarico di Storia economica, lo chiamò a tenere un corso di Storia e politica coloniale. Non è il caso di aggiungere che un corso del genere, in una facoltà del genere nell’Italia fascista, era compreso nelle discipline fondamentali e io avevo l’obbligo di frequentarlo.
Ed è in questo modo che io incontrai per la prima volta il professor Borlandi. Né lui né io nutrivamo un grande interesse per la storia e la politica coloniale dell’Italia. Lui era uno storico economico con una spiccata propensione per il Medioevo, io volevo diventare insegnante liceale di storia e filosofia. Ma eccoci lì, messi insieme dal caso, uno far finta di insegnare, e l’altro a far finta di imparare, la storia e la politica coloniale italiana. Gli studenti che frequentavano le lezioni erano pochi: qualche volta se ne vedevano solamente due o tre. Erano giorni terribili: la maggior parte dei giovani italiani erano sotto le armi, e molti di essi morivano in ogni parte del mondo. Io ero a casa a motivo della mia fragile costituzione fisica e della mia ostinata determinazione a evitare il servizio militare a ogni costo. Così il professore e l’allievo che frequentava fedelmente le sue lezioni, divennero buoni amici. Il giorno in cui il professor Borlandi mi chiese se avessi voluto intraprendere una ricerca sotto la sua guida, era una splendida giornata di sole, e mi è rimasta nella mente come uno dei più vivi e piacevoli ricordi della mia vita. Mi suggerì di intraprendere lo studio di un argomento ben definito che richiedesse una ricerca originale negli archivi della nostra città. Faber fit fabricando. Il tema scelto fu la storia della popolazione della città di Pavia e in questo modo egli mi fece conoscere gli archivi e il piacere di scovare documenti inediti. (…)
Un bel giorno, mentre stavo lavorando all’archivio civico di Pavia, mi imbattei in un documento cinquecentesco pieno di numeri: conteneva le medie annuali dei corsi dei cambi tra il ducato d’oro e la lira milanese, dalla fine del Tre all’inizio del Cinquecento. Rimasi colpito da questo lungo e straordinario elenco di cifre. Tornato a casa tutto eccitato, provai a tracciare un grafico dei dati che avevo raccolto. Il risultato fu una curva molto interessante con una caratteristica successione di periodi di rapida crescita dei tassi di cambio (corrispondenti alla svalutazione della moneta locale), che si alternavano a periodi di relativa, o addirittura di assoluta stabilità. (…) Pochi mesi dopo aver trovato quel documento nell’archivio di Pavia, scrissi in fretta e furia un articolo sulla svalutazione della moneta lombarda nel Medioevo. Esso venne accolto e pubblicato da una rivista che vantava una gloriosa tradizione legata a personaggi come Pareto e Pantaleoni.
Scoprii ben presto che quello rinvenuto nell’archivio civico di Pavia non era un documento eccezionale né isolato. Se ne potevano trovare di simili per numerose altre zone, e anche dove non se ne trovavano, si potevano ricostruire abbastanza facilmente le serie dei corsi dei cambi sulla base di dati che erano stati raccolti durante il Medioevo e i primi secoli dell’età moderna per iniziativa sia pubblica sia privata. Queste nuove scoperte mi convinsero ch’ero stato piuttosto intempestivo a dare alle stampe il mio articolo sulla moneta lombarda. (…) Mi rivolsi quindi alla redazione della rivista con la preghiera di non pubblicare il mio articolo.
Passai i mesi successivi in Francia, avendo ottenuto una borsa di studio da quel Governo; ma il mio soggiorno non fu né utile né piacevole. Si viveva male a Parigi nell’immediato dopoguerra. Caddi presto ammalato, e la malattia divenne disperazione quando scoprii che nell’ospedale della Cité Universitaire era impossibile avere una tazza di tè con del latte, per non parlare del limone. Tornai in Italia piuttosto malconcio, ma potei ristabilirmi pian piano e riprendere i miei studi sui movimenti monetari nel tardo Medioevo. Fu allora che mi accorsi con stupore che il mio articolo sulla moneta lombarda era stato pubblicato. E fu questa solo la prima di una serie di sorprese. Quando mi recai a Milano nella redazione della rivista a chiedere una spiegazione, mi fu detto che la mia lettera non era mai stata ricevuta; e mi si fece notare che non solo io avevo corretto le bozze di stampa, ma che avevo per di più richiesto un considerevole numero di estratti. Tutto ciò mi apparve molto misterioso; ma non ci volle molto a scoprire la chiave dell’arcano. In una sperduta località del Sud viveva un vecchio signore che si chiamava Carlo Cipolla come me. Negli anni passati, egli aveva pubblicato su quella stessa rivista due o tre recensioni, e in redazione esisteva una scheda a suo nome con il relativo indirizzo. Le bozze del mio articolo vennero quindi inviate erroneamente a lui per la correzione. E questo mio omonimo, anziché rispedire il pacco all’editore segnalandogli la svista, si diede la pena di correggere con cura le bozze, rimandandole indietro con la richiesta di numerosi estratti. Naturalmente, avrei potuto adottare misure legali nei suoi riguardi; ma in queste cose io sono troppo pigro. E il mio disappunto svanì del tutto quando mi misi a riflettere sulla felicità che quel tale doveva aver ricavato nel distribuire tutti quegli opuscoli fra gli amici del caffè e sulla piazza del paese: che doveva aver fatto mostrando di aver scritto un saggio sulla storia monetaria di una metropoli del Nord. Con che coraggio si poteva rovinargliela?”
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