La pagina annunciata del Cristo si è fermato a Eboli: il temporaneo ritorno di Carlo Levi a Grassano; l’invito di Ortensio Ruggiero (Orlando); il pranzo nel rispetto degli antichi costumi lucani; la conversazione; l’addio a Grassano.

          Il giorno dopo, ero invitato a colazione dal signor Orlando,  fratello di un noto giornalista che abitava a New York. Era un  uomo alto, serio e malinconico. Viveva ritirato in un suo palazzetto, in una parte isolata del paese, e, avversario degli attuali  potenti, si teneva lontano il più possibile dalle questioni locali.  lo avevo disegnato la copertina di un libro di suo fratello sull’America: questo era stato il pretesto della nostra conoscenza,  ed egli mi aveva usato ogni sorta di cortesie. Aveva ancora gli  antichi costumi lucani: sua moglie non mangiò a tavola con noi,  e ci lasciò soli. Parlammo dei contadini, della malaria, dell’agricoltura, dei vari aspetti della questione meridionale. lo avevo  visto quel giorno un confinato, un piccolo ragioniere torinese,  già impiegato ai sindacati, e mandato qui, a quello che egli diceva, come capro espiatorio per degli scandalosi furti di fondi  nelle casse sindacali ad opera dei gerarchi suoi superiori. Egli  aveva trovato da lavorare tenendo i libri di conti di una delle  più grosse proprietà di Grassano, e me li mostrò. In questa grande  tenuta non si coltivava che grano, secondo le direttive del governo. Nelle annate buone, malgrado il concime e il lavoro, non si raggiungeva che un raccolto di nove volte il seme; nelle altre annate la messe era di molto inferiore; a volte dava soltanto  tre o quattro volte la semenza. Era dunque una follia economica  questo insistere sul grano. Queste terre non consentirebbero che  la coltura del mandorlo e dell’olivo; e soprattutto, dovrebbero  tornare ad essere foreste e pascoli. I contadini erano pagati con  salari di fame. Ricordavo, nel giorno del mio arrivo, in piena  mietitura, le lunghe file di donne, che salivano dai campi in riva  al Basento su per l’interminabile strada, fino in paese, con in  testa un sacco di grano, come dei dannati dell’inferno, sotto il  sole feroce. Per ogni sacco portato fino in paese ricevevano una  lira. E giù, nei campi, c’era la malaria. Ma, dicevamo con Orlando, il luogo comune che l’unica causa dei mali di qui sia il  latifondo, e che basti spezzare il latifondo per redimere, come  suol dirsi, la terra, non ha fondamento. Le condizioni dei piccoli proprietari di Gagliano non sono migliori, anzi sono forse  ancora peggiori di quelle dei contadini senza terra di qui. Che  cosa fare dunque nelle presenti condizioni? – Niente, – diceva  Orlando con la sua profonda tristezza meridionale, ripetendo la  stessa sconsolata parola del migliore e piu umano pensatore di  questa terra, Giustino Fortunato, che amava chiamarsi «il politico del niente ». Io pensavo a quante volte, ogni giorno, usavo  sentire questa continua parola, in tutti i discorsi dei contadini.  – Ninte, – come dicono a Gagliano. – Che cosa hai mangiato? – Niente. – Che cosa speri? – Niente. – Che cosa si può fare? – Niente -. La stessa, e gli occhi si alzano, nel gesto  della negazione, verso il cielo. L’altra parola, che ritorna sempre  nei discorsi è crai, il cras latino, domani. Tutto quello che si  aspetta, che deve arrivare, che deve essere fatto o mutato, è  crai, Ma eroi significa mai.

La sconsolatezza di Orlando, che era quella .di tutti i meridionali che pensano con serietà ai problemi del loro paese,  derivava, come in tutti, da un radicale complesso di inferiorità.  Per questo può forse dirsi che è impossibile ad essi capire completamente la loro terra e i suoi problemi, poiché partono, senza avvedersene, da un confronto, che non dovrebbe essere fatto,  tutt’al più, se non dopo. Se si considera la civiltà contadina una  civiltà inferiore, tutto diventa sentimento di impotenza o spirito di rivendicazione: e impotenza e rivendicazione non hanno  mai creato nulla di vivo.

I pochi giorni di Grassano passarono cosi, fra la pittura, il  teatro e gli amici, in un lampo, e dovetti ripartire. Una mattina  presto, con un tempo grigio e incerto, l’automobile mi aspettava  davanti alla porta. Salutato rumorosamente da Prisco e dai suoi  figli e da Antonino e Riccardo, dissi addio a quel paese, dove  non sono tornato più.

(Carlo Levi, Cristo si fermato a Eboli, Einaudi Editore, 1947, pp.168-70)

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