Rocco Montano (si dirà di lui più avanti) con una nota disinformata, deformata e tardiva sollecita Carlo Levi a intervenire a favore dell’ex podestà di Aliano don Luigino Garambone; Levi, “secondo il suo spirito” si da generosamente ma confusamente da fare, sottoponendo alla più ‘Alta Autorità’ in materia di epurazione – Mario Berlinguer, padre di Enrico, che sarà il mitico segretario del partito comunista, e di Giovanni Berlinguer -, una contravvenzione per fatti commessi dopo la caduta del fascismo, che gli era stata malamente e tardivamente prospettata come provvedimento di epurazione; e pare che ne avesse addirittura parlato con Togliatti o che avesse intenzione di parlargli. Il prof. Vitelli, tra altre lacune storiografiche sull’epurazione, sostiene che don Luigino è sotto accusa per aver esaltato, il 9 settembre 1943,la repubblica sociale italiana, quando la RSI non era neppure nella mente di Benito Mussolini, custodito a Campo Imperatore sul Gran Sasso e non sapeva che il colonnello Otto Skorzeny l’avrebbe “liberato” il 23, e Hitler gli avrebbe ordinato di fondare il fascistico stato fantoccio. Che questo piccolo guazzabuglio potesse permettere di affrontare il nodo storico dell’epurazione a Rabatana pare pretenzioso, e in questo articolo si sforza di esporre i fatti, per quanto possibile, data la scarsità delle fonti, con elementare semplicità e verità.

        Don Luigino Garambone, ininterrottamente podestà di Aliano dal 29 aprile 1929, viene arrestato il 4 ottobre 1943. Leggiamo l’accusa ufficiale: «Il Procuratore del Re Imperatore presso il tribunale penale di Matera. Visti gli atti processuali contro Garambone Luigi di Domenico di anni 38 da Aliano arrestato il 4-10-1943. Imputato di grida sediziose per avere, a seguito della notizia, appresa dalla propria radio, che in Italia si era costituito un nuovo governo fascista, esclamato ad alta voce dal balcone della sua abitazione: ‘Pianteremo la fune e la forca per quei vigliacchi traditori’. Art. 654 C.P. in Aliano il 9-9-1943». Certamente don Luigino era accusato di aver profferito altre grida sediziose, ma altrettanto certamente non quelle che, come si vedrà più avanti, gli faranno dire. Secondo quanto riferisce don Luigino in un suo memoriale al prefetto di Matera datato 21-II-1946, il fatto (che egli nega) sarebbe accaduto, alle ore 9,30, la sera del 9 settembre (giorno dopo l’armistizio). Nel memoriale don Luigino, tra l’altro, fa presente al prefetto che si trova senza mezzi e senza occupazione, essendo stato prima sospeso e poi licenziato da maestro elementare e da rappresentante del Banco di Napoli, con la moglie, due figli ed il padre di 83 anni a carico, e sbarca il lunario col lavoro di modesto operaio.
Il detto articolo del codice penale disponeva (ora è modificato): «Chiunque, in una riunione che non sia da considerare privata a norma del numero 3 dell’art. 266, ovvero in un luogo pubblico, aperto o esposto al pubblico, compie manifestazioni o emette grida sediziose, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a un anno». Il fatto costituiva reato, un reato di minore o lieve entità rispetto ai delitti, qualificato contravvenzione e rientrava in quella vasta categoria di illeciti penali trasformati in illeciti amministrativi (depenalizzazione), assoggettati a sanzioni pecuniarie non penali: in questo caso con la sanzione amministrativa da 103 a 619 euro.
Processato, don Luigino fu condannato dal tribunale di Matera a sei mesi di arresto (pena detentiva, ugualmente come la reclusione prevista per la punizione dei delitti, ma così denominata per distinguere le contravvenzioni dai delitti), pena confermata dalla corte d’appello di Potenza e, in via definitiva, dalla cassazione. Contravvenzione, dunque, e non epurazione. Possiamo definire l’epurazione l’azione di bonifica tesa alla punizione dei responsabili dell’avvento del fascismo e delle catastrofi che ne seguirono fino alla liberazione dell’aprile del 1945. L’epurazione ebbe inizio in Sicilia senza che fossero previste adeguate iniziative di organizzazione in materia e, all’inizio, fu mantenuta entro margini abbastanza ristretti. Gli Alleati preferirono risolvere i problemi d’emergenza nelle zone liberate, per dare da mangiare alle popolazioni stremate dalla fame e nel provvedere alle necessità di ordine igienico (seppellimento dei cadaveri, raccolta dei rifiuti, sistemazione delle strade ecc.). Il personale da rimuovere dalle proprie funzioni fu circoscritto dal governo militare alleato (AMGOT) ad una limitata “lista nera”, composta di alcune migliaia di fascisti “pericolosi”, che nel giro di pochi mesi furono arrestati o sottoposti a provvedimenti d’epurazione dagli organi giudiziari ed amministrativi a ciò preposti. Tutti i nove Prefetti dell’isola furono rimossi dal loro incarico e, nell’attesa delle nuove nomine di parte alleata, i loro vice ottennero le funzioni superiori in modo provvisorio, da esercitarsi sotto la vigilanza dell’AMGOT. Inglesi ed americani avevano deciso che l’amministrazione militare sarebbe stata indiretta: l’apparato provinciale e municipale dell’isola avrebbe continuato ad operare, sotto uno stretto controllo da parte degli Ufficiali degli Affari Civili (Civil Affairs Officiers) del Governo Alleato, presenti nei capoluoghi di provincia e nelle altre città siciliane. Anche i podestà locali subirono i provvedimenti epurativi ma soltanto quelli delle città più importanti, perché più compromessi con il regime fascista, a differenza dei podestà dei centri minori che continuarono a collaborare con l’amministrazione alleata. I funzionari comunali, al livello di tecnici, professionisti e dei gradi più bassi dell’amministrazione locale, furono in larga parte mantenuti ed ebbero il permesso di continuare ad esercitare le loro funzioni. Questa sorta di via “leggera” all’epurazione fu sperimentata soprattutto dagli americani nella Sicilia occidentale, a differenza degli inglesi (che esercitavano il controllo nella parte orientale) i quali furono più rigidi negli arresti e nelle deportazioni in Africa settentrionale, dove furono approntati dei campi di concentramento per i gerarchi fascisti ed i soldati catturati dagli alleati. Dopo la conquista della Sicilia (17 agosto), le truppe angloamericane continuarono la loro avanzata nel resto del Paese, nell’ambito della campagna d’Italia.
Il maresciallo Badoglio, nuovo Capo di Governo, ebbe però un atteggiamento attendista circa l’epurazione dei fascisti, perché riteneva che la situazione lo richiedesse, giacché l’Italia continentale era ancora nelle mani dei Tedeschi, ed agì soltanto quando fu sicuro dell’alleanza con gli angloamericani, dopo l’armistizio. Fino ad allora nulla si era mosso. Don Luigino podestà era e podestà rimase, come tutti, tranne casi eccezionali di gravi compromissioni col fascismo (A Tricarico, alla caduta del fascismo, era podestà l’agronomo agrario don Tommaso Gigli, che rimase in carica fino ai primi giorni di marzo del 1944, quando fu sostituito dall’avv. Carlo Grobert. Gigli tornò a far parte dell’amministrazione municipale come consigliere del gruppo d.c., che sosteneva il sindaco Amedeo (Benito) Lauria). Il primo decreto in materia di epurazione fu emanato il 18 dicembre 1943, n. 29/b, col titolo: “Defascistizzazione delle amministrazioni dello Stato, degli enti locali e parastatali, degli enti sottoposti a vigilanza o tutela dello Stato e delle aziende private esercenti pubblici servizi o d’interesse nazionale”. La differenza, rispetto alla fase iniziale in Sicilia, stava nel punire i fascisti non più in merito alla loro pericolosità, bensì rispetto alle qualifiche che avevano rivestito durante la dittatura. Un secondo decreto, 27 luglio 1944, n. 159, “Sanzioni contro il fascismo”, formato di 47 articoli, fu emanato dal governo guidato da Ivanoe Bonomi. Il decreto sottoponeva a giudizio di epurazione gli appartenenti alle amministrazioni dello stato, agli enti locali e ad altri enti pubblici e disponeva la sospensione dal servizio di coloro che, specialmente in alti gradi, col partecipare attivamente alla vita politica del fascismo o con manifestazioni ripetute di apologia fascista, si erano mostrati indegni di servire lo Stato e coloro che. anche nei gradi minori, avevano conseguito nomine od avanzamenti per il favore del partito o dei gerarchi fascisti. Il dipendente sottoposto al procedimento d’epurazione poteva essere sospeso dalle sue funzioni; in tal caso, nell’attesa che fosse definita la sua posizione, gli era concesso un assegno alimentare. Da quanto è detto nel memoriale al prefetto, il procedimento di epurazione a carico di don Luigino si era concluso sfavorevolmente e fu licenziato. Comunque, si può essere certi che egli fosse stato sospeso dal servizio, e probabilmente licenziato, in base alla normativa appena citata e che il reato per il quale era stato condannato non fu la causa o la concausa della sospensione. Che il fatto fosse stato commesso (come ritenuto dall’autorità giudiziaria) o no (come sostenuto da don Luigino con argomenti da azzeccagarbugli nel memoriale inviato al prefetto), o che fosse stato giudicato con un eccesso di severità o con equilibrio), Levi, Berlinguer e Togliatti non potevano farci niente e non era quello che bisognava raccomandare ad essi, che pare non fossero stati informati (ma sarebbe opportuno conoscere gli atti del fascicolo), che la sospensione e il probabile licenziamento di don Luigino dal servizio non erano conseguenti all’arresto, ma a separati e differenti  dovuti a provvedimenti di epurazione. (A Tricarico furono sospesi dal servizio allo stesso titolo i maestri Alfredo Toscano – che diventerà provveditore agli studi – e Settimio Massaioli).
Non è semplice affrontare il nodo storico dell’epurazione, che aveva il difficilissimo compito di eliminare non solo le strutture organizzative instaurate nel ventennio e di punire le responsabilità della classe politica e dei singoli. Per lo stato e per le nuove classi politiche si trattava di un compito affrontato in una fase sostanzialmente rivoluzionaria quale fu quella degli anni immediatamente successivi alla caduta del fascismo. Peraltro, neppure era facile un’azione giusta ed equilibrata di applicazione, da parte della magistratura, che nel complesso svolse una vera e propria opera modificatrice delle norme originarie. Si pensi inoltre, oltre che al provvisorio quadro giuridico in cui provvedimenti così disparati e diversi venivano inseriti o dovevano essere inseriti, ai condizionamenti internazionali e, soprattutto, all’acceso quadro politico, che divideva persino i partiti al loro interno (si pensi al conflitto tra Togliatti e la direzione del partito comunista).
Nonostante il gran numero di procedimenti aperti a carico dei funzionari, il processo di defascistizzazione fu poco incisivo; sulla base di un rapporto sull’epurazione, su 143.781 dipendenti pubblici esaminati, solo 13.737 furono processati e, di questi ultimi, appena 1.476 furono rimossi dal loro incarico. L’epurazione riguardò dunque solo pochi funzionari, tra l’altro colpì quelli più piccoli poiché i fascisti più importanti riuscirono a fuggire all’estero e solo in pochi furono sottoposti ai processi contro i criminali del regime, giudicati dall’Alta Corte di Giustizia. Il ministro della Giustizia e leader del Partito comunista Palmiro Togliatti concesse l’amnistia generale che graziò molti fascisti, compresi quelli che avevano commesso gravi crimini, e permise a molti funzionari del passato regime di rimanere al loro posto nelle varie amministrazioni dello Stato. Gaetano Azzariti, presidente del tribunale per la razza, diventa ministro della giustizia col governo Badoglio e presidente della corte costituzionale!.
La richiesta a Carlo Levi di intervenire a favore di don Luigino Garambone fu avanzata da Rocco Montano con una lettera del 2 febbraio 1946. Rocco Montano, nato a Stigliano, ha 32 anni ed è assistente ordinario alla cattedra di letteratura italiana dell’università Federico II di Napoli, di cui, dal 1928 al 1961, fu titolare il prof. Giuseppe Toffanin, cattolico e anticrociano, finito nel feudo liberale di Benedetto Croce. Quello stesso anno Montano conseguirà la libera docenza in letteratura italiana. Rocco Montano, autore di importanti studi di letteratura italiana – specie su Dante, l’Umanesimo e Manzoni – non ha avuto in Italia fortuna accademica; chiamato in America per interessamento di Charles Singleton, è stato visiting ad Harvard e professore a Urbana (University of Illinois) e nella Catholic University of Maryland . Io ho conosciuto Rocco Montano nei primi anni ’50, non personalmente, ma, come si dice, di fama. Conoscevo un suo nipote, pure di Stigliano, credo suo ospite per seguire gli studi universitari, e avevo un certo interesse per il prof. Toffanin, del quale, qualche anno prima, quando frequentavo ancora il ginnasio, avevo letto un piccolo elegante volume, che mi aveva fatto conoscere la poesia sublime e l’infelice vita e la tragica morte di Isabella Morra, nonché le poesie delle altre due poetesse cinquecentesche: Vittoria Colonna e Gaspara Stampa. Il volumetto faceva parte di una collana di letteratura italiana diretta da Ugo Ojetti, formata di circa 30 o 40 eleganti libri di formato tascabile, con copertina rigida di colore azzurro, intitolata «Le più belle pagine degli scrittori italiani scelti da scrittori viventi», edita da Treves nel 1929 (ricordo l’anno dell’edizione perché è l’anno di nascita di Mario Trufelli, proprietario della collana, che era orgoglioso della collana e della coincidenza delle date). Gli studi di Toffanin, cattolico, lo portano a una rivalutazione della tradizione cristiana e dell’aristotelismo nell’Umanesimo e nella Controriforma, con una deviazione della linea segnata da Francesco de Sanctis e Benedetto Croce, che determinò, nell’ambiente intellettuale partenopeo, il consumarsi di una asprissima e insanabile rottura con Croce. Ricordo parole urticanti di Croce nelle critiche a Toffanin e il giornale di Napoli, Il Mattino, dare alla visita di Toffanin al feretro di Croce a Palazzo Filomarino, il rilievo riservato alle notizie eccezionali.
La formazione di Montano si svolge inizialmente nell’ambito di Gentile e Croce, ma poi scopre nelle intuizioni di Giuseppe Toffanin un approccio del tutto distinto di straordinaria portata. Montano è autore di importanti studi, come attesta Vitelli, ma il punto da mettere in evidenza non è che non ebbe fortuna, ma che l’orientamento del suo pensiero lo pose in contrasto, sin dall’inizio, con la cultura dominante, sicché rimase isolato e in vari concorsi affrontati gli venne negata la cattedra universitaria. Senza dubbio dovette pagare anche lo scotto del rapporto con Toffanin, che Giorgio Bàrberi Squarotti afferma essere stato «uno di quei critici scomodi che nel passato molto raramente riuscivano ad ottenere cittadinanza nella seriosa Università italiana, o ottenendola, pagavano poi un prezzo alquanto alto di solitudine, di dimenticanza». Epperò Toffanin non doveva essere autore di “libercoli” scritti in “stile pretino”, come scriveva Benedetto Croce, se Antonio Gramsci scrive: « È molto importante il libro di Toffanin “Che cosa fu l’Umanesimo”. Queste tesi di Toffanin coincidono con le note da me fatte in altri quaderni. Solo che il Toffanin si mantiene sempre nel campo culturale-letterario e non pone l’Umanesimo in connessione con i fatti economici e politici».
Montano venne quindi chiamato alla prestigiosa università di Harvard, dove il critico letterario statunitense Charles Singleton, famoso e grande dantista, lo volle come suo erede ad occupare la prestigiosa cattedra che stava per lasciare.
Con la citata lettera del 2 febbraio 1946, Montano, dopo aver trattato ampiamente questioni del partito d’azione, nel quale militava, si intrattiene sulla questione politica generale, suscitando giustamente in Vitelli il dubbio che, insieme alla realtà del dibattito che in quel momento animava vivacemente il partito d’azione, Montano avesse introdotto ad arte la questione politica generale per fare in essa rientrare il caso di don Luigino, così prospettando il suo caso: “Don Luigino è alle prese con un processo di epurazione: alla Seconda Sezione della Cassazione c’è un ricorso per una condanna di non so quale entità afflitta a Potenza : pare che i carabinieri abbiano volutamente trasformato la notizia che l’ex podestà voleva dare della liberazione di Bagnasciuga in grida sediziose. Si trattava al solito, di una inimicizia ed io pensai che non era male aiutare il povero Luigino e guadagnarlo alla democrazia”. Quindi, in concreto, Montano sollecitò Levi “a un gesto generoso” che sapeva “conforme alle sue idee e al suo animo”, ritenendo che fosse bene “dare aiuto a uno dei tanti maestri che si è voluto prendere come capri espiatori della rovina”. Peccato, come nota giustamente Vitelli, che Montano concluda l’intervento con una nota trasformistica, secondo cui “don Luigino potrebbe validamente contribuire a spingere il suo paese nella nostra nascente sezione” del partito d’azione. Montano scrive oltre due anni dopo l’arresto di don Luigino, quando il mondo era cambiato, don Luigino aveva probabilmente scontata la pena e dalla cassazione si aspettava un’assoluzione che gli sbiancasse la fedina penale, cosa che gli sarebbe stata utile data la difficoltà della sospensione e del licenziamento in cui si trovava, ma che Montano ignorava. Non solo. Montano parla di una liberazione di Bagnasciuga, con che solo Dio sa cosa volesse dire. Probabilmente si riferiva al tragico discorso del bagnasciuga di Mussolini fatto a palazzo Venezia, all’ultima riunione del Direttorio del partito prima che il regime crollasse, il il 24 giugno 1943, vigilia dello sbarco alleato in Sicilia (avverrà il 10 luglio). Benito Mussolini avverte che il fronte interno si sta sfaldando, e che il Partito fascista è solo una macchina vuota. Pronuncia un discorso visionario e commette un errore lessicale, un piccolo errore, che forse non è neppure un errore, ma che lo rese ridicolo ed è stato troppo a lungo ricordato come il discorso del bagnasciuga. Un mese dopo il gran consiglio lo sfiducia. Ecco perché l’ho definito un discorso tragico. Ed ecco la parte che interessa: «Il nemico ‘deve’ giocare una carta. Ha troppo proclamato che bisogna invadere il continente. Lo dovrà tentare, questo, perché altrimenti sarebbe sconfitto prima ancora di aver combattuto. Ma questa è una carta che non si può ripetere. Fu concesso a Cesare di invadere per la seconda volta la Britannia, dopo che un naufragio gli aveva disperso i legni coi quali aveva tentato la prima invasione. E ancora bisogna distinguere tra “sbarco”, che è possibile, “penetrazione”, e, finalmente, “invasione”. È del tutto chiaro che se questo tentativo fallirà, come è mia convinzione, il nemico non avrà più altre carte da giocare per battere il Tripartito. Giudica male gli sviluppi di questa guerra, colui che si ferma agli episodi. Il popolo italiano è ormai convinto che è questione di vita o di morte. Bisogna che non appena il nemico tenterà di sbarcare, sia congelato su quella linea che i marinai chiamano del “bagnasciuga”, la linea della sabbia dove l’acqua finisce e comincia la terra. Se per avventura dovessero penetrare, bisogna che le forze di riserva, che ci sono, si precipitino sugli sbarcati, annientandoli sino all’ultimo uomo. Di modo che si possa dire che essi hanno occupato un lembo della nostra patria, ma l’hanno occupato rimanendo per sempre in una posizione orizzontale, non verticale».
Il bagnasciuga, dicono i linguisti, è la zona della carena, compresa fra la linea d’immersione massima e minima, e quindi alternativamente bagnata o asciutta, mentre la linea lungo cui l’onda marina batte la spiaggia è detta battigia. Mussolini parlò il 24 giugno, e il 25 tutti gli italiani sapevano che aveva confuso la battigia col bagnasciuga e ridevano alle sue spalle.
Il precedente 7 gennaio Rocco Montano aveva scritto una prima lettera a Levi , che – sostiene Vitelli, al quale vanno accreditate anche le affermazioni che seguono – è un’acutissima e partecipe recensione al Cristo si è fermato a Eboli, che risulta particolarmente precoce, considerando che l’opera era stata pubblicata da Einaudi nel 1945. Insieme a Mazzarone e a Scotellaro, Montano è uno tra i primi lettori del Cristo in Basilicata. Nel P.S. alla suddetta lettera Montano comunica a Levi che il suo libro non era ancora conosciuto neppure a Matera, dove molti lo chiedevano ed erano riusciti ad averlo dall’editore. Il ruolo accademico di Montano si fa sentire nell’analisi, coniugato con la militanza nel partito d’azione e con l’attaccamento alla terra natia, che vibra più forte vivendo lontano. Di fronte a siffatta stimolante e anticipatrice analisi, è un peccato, afferma sempre Vitelli, che una ventina anni dopo il critico letterario abbia, se non ribaltato, riempito di mille distinguo e riserve la primitiva posizione, al punto da renderla irriconoscibile .

 

2 Responses to Don Luigino epurato ?

  1. angelo colangelo ha detto:

    Caro Antonio,
    è un altro dono meraviglioso questo tuo articolo, in cui s’intrecciano mirabilmente i ricordi personali con la storia locale e nazionale di un periodo particolarmente complesso e convulso.
    Io ne sono rimasto particolarmente colpito, anche perchè con la tua ricchezza di informazioni e puntualizzazioni riesci a lumeggiare due personalità, Carlo Levi e Rocco Montano, cui sono particolarmente legato, seppure per ragioni diverse.
    Un grazie di cuore e un abbraccio,
    Angelo

    • Antonio Martino ha detto:

      Grazie a te, caro Angelo, per il tuo incoraggiamento, che oramai è una costante. E questa volta ne avevo speciale bisogno, perché non vedo R.M. nella sollecitazione a Levi di un intervento a favore di don Luigino (che, ripeto, io ho ben conosciuto), e ho il timore di non aver capito, di aver sbagliato.
      Ti abbraccio. Buona notte
      Antonio

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