Per ricordare Antonio Infantino

copertina 1 copertina 2]Nel ricordo di Antonio Infantino, caro amico e illustre figura della nostra terra, desidero rendere noto un testo che scrissi anni addietro per recensire il suo volume Danza cosmica. colore, suono ed architettura. Potenza, Consiglio Regionale di Basilicata, 1996, pp. 203 con illustrazioni.

“Chi è più furbo, la volpe o chi la cattura?”, “Una lampada, in una serie numerica illimitata, è simultaneamente accesa e spenta”, “Il barbiere che rade tutti i cittadini, raderà se stesso?”, “Si può possedere la ricchezza?!”. È con questi ed altri paradossi della Scuola orfico-pitagorica che si apre il singolare volume di Antonio Infantino, patrocinato dal Consiglio Regionale di Basilicata, tra le iniziative tese a studiare e divulgare la specificità storico-culturale della Basilicata. Esso è catalogo di una mostra delle sue opere, allestita a Bruxelles nell’Espace Leopold. Salle d’expositions del Parlamento Europeo (1996) e, contemporaneamente, è summa della sua vita, della sua continua ricerca di intellettuale e della sua poliedrica attività di artista impegnato nelle arti visive, nella musica, nel teatro, in televisione, nel cinema, nell’architettura. Il testo introduttivo al catalogo e le testimonianze ivi pubblicate con traduzione in inglese di H. MacMillan e in francese di Giuseppe Infantino – padre dell’artista – avvicinano alle molteplici vicende culturali, che lo vedono partecipe e protagonista di un’arte intesa “collettivamente come pittura, architettura e musica quale mediazione conciliatrice di natura e uomo”. Nel contempo questi scritti, al pari delle tavole illustranti le sue opere, illuminano la sua personalità, “tra il visionario dolce e l’artista rigoroso e implacabile”, sempre protesa ad indagare gli uomini e le loro culture, a contemplare e meditare la natura con animo mediterraneo e, per “simpatia armonica”, perdersi dentro alle cose animisticamente, sciamanicamente. Lì dove, afferma Infantino. “guardare, numerare, scrivere è sentire e vivere poeticamente la natura che si fa continuamente, così come i miei umori, stati d’animo ed aspetti caratteriali si fanno e si combinano istante per istante, in modo razionale ed irrazionale. In questo continuo divenire, colore, suono, danza costituiscono gli elementi primi di un’“architettura paradossale, intesa in senso cosmico e poetico”.

Studiando i testi antichi del retroterra storico e culturale della Magna Grecia, Antonio Infantino scopre nelle credenze orali e nelle conoscenze sciamaniche dei tarantolati, relegate dagli studiosi degli anni ’50 come Ernesto De Martino nell’ambito inquietante del mondo magico, la base portante degli insegnamenti della Scuola di Metaponto o Scuola italica, che avrebbero influenzato a tal punto la cultura europea e mediorientale da costituire – nell’ottica di lettura dell’artista di Tricarico ‒ il presupposto della più generale cultura mediterranea. Dalla possessione animistica dei tarantolati sarebbero nati i concetti orfico-pitagorici della Fisiognomica (orfica) e della Metempsicosi (pitagorica), legati alla teoria degli umori, dei temperamenti e dei caratteri. Ciò spiegherebbe, a suo dire, la curiosità e l’interessamento che nel corso dei tempi tanti studiosi stranieri hanno manifestato verso la terra lucana, come ci testimonia Platone che raggiunse Metaponto alla ricerca di quegli scritti di Ocello Lucano sulla natura, che poi egli avrebbe ricopiato intitolandoli “Timeo”. Plotino, Avicenna, la Scuola di Salerno, Nicola Cusano sono elementi della stessa ricerca “naturalistica”, fino a J.J. Rousseau e a Schelling, che nel concetto di “anima nell’arte” si sarebbe appunto ricollegato a quell’“anima unita al corpo da numero ed armonia”, teorizzata nel IV sec. a.C. da Filolao Lucano. Se ne troverebbero riflessi anche nel melodramma del Rinascimento italiano, come nell’“Orfeo” di Claudio Monteverdi, dove Euridice torna dal mondo dei morti proprio grazie alla musica, così pure nella pittura di Carracci, Guido Reni, Domenichino, Poussin, fino al recente “Orfeo” di Albert Camus, tutti tesi ad indagare e a sottolineare la permanenza culturale di quegli insegnamenti, nonostante i loro oltre duemila e cinquecento anni di vita.

Le tavole con cui si articola il volume definiscono i momenti più significativi dell’opera di Antonio Infantino che, dalle prime collettive di pittura e dal concerto tenuto al circolo La Scaletta di Matera (1965), si concentra poi in Brasile durante gli anni ’70, che lo vedono impegnato come architetto nella elaborazione di numerosi progetti: a Jacarei (San Paolo) per la realizzazione dell’Ospedale S. Francisco e per la sistemazione urbana della piazza cittadina; a Ubatuba (San Paolo) in un impegnativo progetto commissionatogli dalla Uba-tumirim Emprendimentos LTDA, per l’urbanizzazione di un’area di 1.500.000 mq destinata a residenze di vacanza, per le progettazioni della chiesa di San Juan voluta dalla Braslar LTDA, dell’Hotel Pausada Azul Marino, dell’Hotel Pausada Pereque Aceu e di una cappella in quest’ultima località; ad Ubatumirim (San Paolo) per il progetto di un Centro sociale e di un Centro di assistenza medica, per conto dell’Associazione di assistenza sociale e sanitaria diretta da P. Pio Populin; a Santo Andrè (San Paolo) per la realizzazione di residenze per Goro Kawamura; a Maranduba (S. Paolo), infine, per la costruzione della chiesa “Sertao da Quina”.

Con gli anni ’80, dopo la partecipazione insieme ad Amerigo Restucci e I. Romiti al Progetto di sistemazione del Parco archeologico “Antica Eraclea” per conto della Soprintendenza ai Beni Archeologici della Basilicata, Infantino vive ed opera prevalentemente in Belgio. Per il Progetto di restauro dello Zuiderpershuis di Anversa, edificio monumentale destinato a spazio polivalente per lo spettacolo e le attività culturali, da lui redatto per conto del Ministero dei Beni Artistici e Culturali e del gruppo Teatrale Nieuwe Scene (1986-87) e per la ricerca storico-filologica ad esso connesso – ricerca pubblicata nel ’92 nella serie “Academiae Analecta” – nel 1991 a Bruxelles viene insignito dell’“Alloro” della Reale Accademia Belga di Scienze Letteratura e Belle Arti.

Con gli anni ’90, i suoi interessi si concentrano tra Belgio, Olanda, Germania, Francia, Alabama (USA), oltre che Italia con numerosi concerti ed esposizioni di quadri e con spettacoli teatrali con i Nieuwe Scene (“La nave dei folli” di A. Infantino, 1990 e “Haduick, mistica fiamminga”, regia di C. Cornette, scenografia di A. Infantino, 1994) e con Dario Fo (“Iuan Padan”, di D. Fo, regia di C. Cornette, scenografia di A. Infantino, 1993). Partecipa a trasmissioni televisive come “Uno mattina”, ove presenta i ludi scenici sul tema “Le maschere di Tricarico” (ideazione, scena e regia di A. Infantino, 1995) e come “Tenera è la notte” con lo spettacolo “Comportamenti poetici: danza, scena, colore, canto e musica sotto forma di Tarantata” (di e con A. Infantino, 1995). Si impegna in alcuni cicli di conferenze, tra cui quella tenuta a Prato sul tema a lui caro di “Trance, estasi, tarantismo” (1994). Si tratta di una tematica costante di studio e di ricerca filologico-musicale che quest’artista ha assimilato dalla propria terra ed approfondito fin dal ’70 e dalla costituzione del gruppo dei Tarantolati di Tricarico e concretizzatasi di recente nel compact disc “Tarantella tarantata. Danza cosmica, suono e colore”, inciso in occasione della mostra dei suoi dipinti a Bruxelles e della pubblicazione del catalogo che stiamo esaminando.

In ogni epoca, scrive Infantino, l’attitudine del tarantolato, cioè di chi ha subito il morso della tarantola e cerca di vincere la potenza del suo veleno attraverso l’uso catartico della musica e dei colori – ed è simbolica in questo contesto l’immagine del ragno e della sua tela – è stata ed è quella di ricostituire un ordine cosmico naturale e di andare alle fonti stesse della vita, ristabilendo gli equilibri spezzati e ritrovando quelle energie positive che si manifestano come suoni e colori. Secondo la ricerca d’archivio condotta dall’artista, dobbiamo a Matteo Zaccolini e al suo manoscritto “De colori per i tarantolati e del ballo di quelli che sono pizzicati dalla tarantola” (compilato a Firenze nel 1610 su commissione dei Medici), le più antiche testimonianze scritte su questo fenomeno, che nel nostro secolo è stato poi indagato da Ernesto De Martino. Pur evidenziando l’indiscutibile validità delle conclusioni cui è pervenuto l’antropologo, a parere di Infantino, tuttavia, l’approccio al tarantismo, visto esclusivamente come l’espressione della miseria psicologica delle classi subalterne del Mezzogiorno d’Italia, limita la portata significante di un fenomeno che, a suo dire, è indicativo di una permanenza che affonda le sue radici nella memoria genetica dell’uomo e nella sua visione cosmica.

Con Antonio Infantino ci troviamo, dunque, di fronte ad un artista raffinato che “sfugge al senso immediato, a quell’assurda pretesa che vuole misurare tutto, ad ogni costo – annota Mario Trufelli nella sua testimonianza pubblicata nel catalogo e che chi conosce Antonio non può che condividere – Il suo respiro espressivo variegato multiforme alla fine produce libertà mentale, lungo i cieli dell’immaginario nei quali si muove senza ipoteche o compromessi. E sono luoghi, i suoi, che nessuna mappa riuscirà mai a codificare: Antonio si sottrae allegramente alle catalogazioni. Per lui la storia è tutta raccolta nell’anagrafe: nome, cognome, data di nascita. Al di là di questa non racconta più nulla di sé, non saprai mai da dove viene, dove pensa di andare, dove si fermerà, Seguirlo, inseguirlo, credergli fino in fondo vale una scommessa […]. Ciò nonostante, conclude Trufelli con una suggestiva immagine poetica, egli resta “ancora e sempre il ragazzo che decapita cardi nelle campagne lucane e li trapianta, costringendoli poi a riprodursi con colori più smaglianti e forme più vistose, in altri paesi, in altre latitudini”.

 

(«Bollettino della Biblioteca Provinciale di Matera», XVII (1996), n. 27-28 alle pp. 172-174).

Carmela Biscaglia

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One Response to Per ricordare Antonio Infantino di Carmela Biscaglia

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