Levi, Scotellaro e il cinema

         Nella speciale edizione Lucania within us. Carlo Levi e Rocco Scotellaro (La Lucania che è dentro di noi), della rivista Forum Italicum i due scrittori, in un certa misura, interagiscono tra loro anche per la trasversalità di alcune tematiche, e si ricongiungono nell’ultima più vasta sezione (140 pagine: da p. 913 a p. 1053), dove, da un inquadramento del cinema meridionale, all’analisi e recupero di sconosciuti materiali leviani, con affondi su Rosi e sul documentario antropologico, fino alla pubblicazione per la prima volta della sceneggiatura del film Rocco Scotellaro, realizzato per la Rai, viene mostrato – anche dopo la precocissima morte di Scotellaro e quella non senile di Levi, il sensibile interesse che Levi e Scotellaro hanno avuto per il cinema.
Il prof. Sebastiano Martelli, docente all’Università di Salerno, utilizzando una consistente documentazione inedita presente in archivi pubblici e privati, ricostruisce, con un ampio saggio di seguito sintetizzato, il rapporto di Carlo Levi e di Rocco Scotellaro con il cinema, per la trasposizione cinematografica del Cristo si è fermato a Eboli e il progetto cinematografico I fuochi di San Pancrazio. Alle spalle della trasposizione cinematografica del Cristo, realizzata da Francesco Rosi nel 1979, quando Carlo Levi era già morto da quattro anni, c’è un corposo e poco noto capitolo, ricostruito col suddetto saggio. La conclusione della lunga vicenda, dopo la morte di Levi, è trattata dal prof. Emiliano Morreale dell’Università di Roma La Sapienza col saggio Cristo 79: Rosi, la questione meridionale e il mondo perduto. Il saggio prende in esame la trasposizione cinematografica del Cristo fatta da Francesco Rosi, evidenziando i mutamenti che il libro subisce. L’interpretazione si snoda con gli opportuni riferimenti alla realtà storica e socio-antropologica del Mezzogiorno d’Italia, divenendo perciò il film anche l’occasione per un rinnovato dibattito meridionalista. Il Cristo di Rosi viene letto anche alla luce di due importanti antecedenti: Padre padrone dei fratelli Taviani e L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi.
Tornando a Martelli, il docente salernitano dipana il groviglio di sei versioni de I fuochi di San Pancrazio, che ci sono confusamente pervenute. Nel progetto del Cristo furono coinvolti grandi registi (Comencini, De Sica, Germi, Rossellini, Emmer, Lizzani, e Rosi). Viene inoltre ricostruito l’impegno diretto di Levi e di Scotellaro nella scrittura di soggetti, treatment (fase di scrittura di un soggetto cinematografico, trattamento è la parola che usa Scotellaro) e sceneggiature per il cinema, negli ani 1946-1953. Il fallimento dei progetti provoca la icastica annotazione di Linucccia Saba: «mi sembra questa storia del film, la storia di certe donne che per essere troppo belle finiscono per restare zitelle».
L’interesse per portare il Cristo sugli schermi inizia subito, sull’onda del grande successo per la pubblicazione del romanzo. Il primo regista a entrare in campo è Luigi Comencini. Questa prima esperienza convince Levi che occorre innanzi tutto garantire una sceneggiatura che non tradisca il libro, «cancellando quella dimensione peculiare che ne aveva segnato il successo». Questo potrebbe spiegare la decisione di coinvolgere nella sceneggiatura Rocco Scotellaro, che del mondo raccontato nel Cristo» era il rappresentante più autentico e nuovo.
E’ il caso di ricordare che gli interessi cinematografici di Scotellaro avevano già alcuni precedenti: nel 1942-43, non ancora ventenne, aveva collaborato al periodico lucano «Potenza Fascista», in cui rilevava una sorprendente attenzione al cinema come fenomeno di massa a alla sua influenza sul costume del Paese, alla sua capacità di raggiunger un pubblico popolare, al ruolo della critica cinematografica e del divismo. Al 1947 risale un suo primo esperimento di soggetto cinematografico, Sulla strada di Carbonara: un racconto appena abbozzato, ambientato negli anni della guerra e della presenza americana nell’Italia meridionale, sintonizzato sul cinema neorealista. Agli inizi del 1948 è datata la collaborazione alla sceneggiatura del Cristo. L’interesse di Scotellaro per il cinema lasciò indifferente Rocco Mazzarone: «L’incontrai poi nella primavera del 1943 a Potenza. Era reduce da un convegno letterario, in cui era stato notato per l’acume dell’intelligenza oltre che per la serietà della preparazione. Gli chiesi quali fossero i suoi reali interessi. Mi mostrò un articolo di critica cinematografica, che mi lasciò piuttosto indifferente».
Con una lettera non datata, ma quasi certamente del settembre 1949, Levi chiede anche a Chaplin di essere il regista del film: «Molti produttori e registi americani e italiani – scriveva – mi hanno proposto in questi ultimi due anni di trarre un film dal mio «Cristo si è fermato a Eboli». Sono stato sempre trattenuto dal fondato timore che il senso dell’opera venisse tradito o sviato. Fin dal primo momento, ho pensato che la sola persona nel mondo cinematografico che avrebbe potuto intendere il mio libro, e rifarne, in piena autonomia, un’altra opera d’arte e di umana scoperta, era lei». Negli archivi che conservano le carte di Levi non si trova alcun riscontro da parte di Chaplin. Che il riscontro ci sia stato o no, l’essersi rivolto a Chaplin dimostra quanto Levi fosse preoccupato che la trasposizione cinematografica avrebbe potuto non rispettare la struttura del libro, e anche quanto ci tenesse alla collaborazione di Scotellaro. Lo tiene infatti costantemente e minutamente informato sui vari passaggi della vicenda, non mancando di fargli sapere che aveva scritto a Chaplin, ma che non aveva ancora spedita la lettera.
Arriva anche il giorno che Levi può finalmente annunciare a Scotellaro che il film si sarebbe fatto: aveva firmato l’impegno per quanto lo riguardava, ma restava ancora incerto quello che riguardava De Sica, dati gli impegni del regista; e con la stessa lettera comunica a Scotellaro che aveva chiesto al produttore di assumerlo immediatamente come collaboratore e di mandargli un acconto sul suo futuro compenso. Ma il film non si fece. De Sica, dopo aver traccheggiato a lungo, aveva combinato con gli inglesi e sarebbe stato più disponibile fra più di un anno. La sceneggiatura del Cristo sin dagli inizi prende dunque un abbrivio in cui saranno molti a mettere le mani nel progetto e con obiettivi e finalità assai diversi. Sono pervenute alcune pagine manoscritte di Rocco Scotellaro, che sono esclusivamente sue. Si tratta della parte iniziale di un treatment in cui, anche se lo spessore letterario del romanzo incombe, si notano già la capacità di entrare nel nuovo specifico narrativo, una ambientazione e descrizione funzionale al diverso registro di scrittura e alla diversa fruizione. Ma l’aspetto più interessante dell’operazione è la qualità della lettura interna che Scotellaro fa del Cristo, ponendosi come l’interprete più fedele del libro leviano ed integrando con squarci di ambientazione e di situazioni del paesaggio e della condizione contadina, dove non mancano anche echi provenienti dalla sua produzione poetica.
Il treatment scotellariano prevede un incipit originario con due flashback, uno corale su Gagliano mentre i contadini rientrano dalla campagna, l’altro su Carlo Levi che esce dalla sua cella del carcere per essere informato della prossima partenza per la Lucania sede del suo confino. Nella seconda parte c’è l’arrivo di don Carlo a Gagliano, l’incontro con le autorità, il primo intervento al capezzale del contadino morente per la malaria. Entrano in scena molti personaggi protagonisti del romanzo leviano: donna Caterina, il dott. Milillo e il dott. Gibilisco il “medicaciucci”, don Luigino il podestà, Giulia la “strega”. Il testo scotellariano si interrompe con l’ ufficiale esattoriale maestro di musica e compositore che prova il suo clarinetto “Faccetta mera… bella abissina…”.
Il treatment di Scotellaro è precedente a quello elaborato con gli sceneggiatori americani; da questi esplicitamente richiesto, è previsto l’inserimento di un episodio del tutto inedito rispetto al romanzo: la storia sentimentale del pittore con una giovane del paese in cui è confinato; una significativa variante “atta a dare motivo di eccellente materia per un film di un grande successo artistico e commerciale”. Un pegno da pagare.
Il coinvolgimento degli sceneggiatori americani riguarda anche un altro progetto, I fuochi di San Pancrazio. La prima idea del progetto risale all’autunno del 51 e il complesso iter si protrae fino alla metà del 1953. La sceneggiatura nella sua ultima versione, è costruita intorno alla vicenda di Pancrazio Piratore, artigiano-maestro di fuochi pirotecnici. Siamo negli anni trenta del 900 in Lucania, e precisamente a Tricarico. Pancrazio, considerato il più abile artificiere in un territorio che va dalla Lucania alla Puglia, rimasto vedovo, vive con due figli ventenni e una figlia che lo aiutano nel lavoro.
Come accennato, sono pervenute sei versioni del progetto: una è identica in quella già pubblicata in Giovani soli di Rocco Scotellaro (Due drammi in tre atti e altri scritti inediti, raccolti da Rosaria Toneatto), pubblicato da Basilicata editrice con prefazione di Leonardo Sacco.
Circa il problema non secondario della paternità del progetto e dei materiali collegati, Martelli sostiene che si evidenzia un lavoro a più mani, che coinvolge non solo nominalmente Levi, ma anche Linuccia Saba, Gerardo Guerrieri e Rocco Scotellaro. La lettera-contratto (25 febbraio 1952) della casa di produzione, con la quale Scotellaro viene assunto come sceneggiatore e dove si specificano i compensi previsti – piuttosto consistenti – conferma che l’autore della sceneggiatura è Rocco Scotellaro con la collaborazione di Levi, Linuccia Saba e di Gerardo Guerrieri: a Scotellaro si chiede l’impegno “ad apportare insieme con i suoi collaboratori tutte le modifiche che (…) saranno richieste.
La storia della (mancata) realizzazione di questo progetto è lunga, complessa, travagliata, coinvolge diverse case di produzione americane, italiane e francesi, e si intreccia con la storia della produzione del Cristo, che si ritiene che qui non interessi. D’altro canto, vale la pena soffermarsi un attimo (e in proposito riporto pressoché integralmente le pagine 937 e 938 del saggio di Martelli, omettendo le citazioni ivi contenute) sui giudizi americani, in particolare là dove si sottolinea in maniera chiara che il soggetto è “melodrammatico” e “triste, deprimente”, imperniato su una storia tragica in un villaggio italiano; una storia del tutto “non adatta” per ricavare un film di successo. Si tratta di giudizi che evidenziano la difficoltà di coniugare e attualizzare la rappresentazione del mondo contadino con i paradigmi narratologici del romanzo popolare, ma ancora più significativi sono i riferimenti all’aspetto “triste”, “deprimente” della tragica vicenda e alla ristrettezza dell’ambientazione. Sono limiti di non poco conto per un’industria cinematografica come quella hollywoodiana che si apprestava ad invadere l’Italia e l’Europa con il proprio immaginario e i propri modelli culturali, di costume, di vita che, unendosi al nuovo grande esodo migratorio, alle scelte politiche, economiche, industriali, sociali in un quindicennio avrebbero scompaginato e disgregato l’assetto di lunga durata del mondo contadino, in particolare meridionale. L’avanzata di nuovi modelli culturali, sociali, di costume, di un immaginario legato alla modernità incalzante, a un’idea di progresso senza possibili mediazioni con il passato, cominciava ad imporre una diversa auto rappresentazione della società italiana e alimentava una totale rimozione rispetto a quel macrosegno del passato rappresentato dal mondo contadino. In questo quadro non poteva esserci spazio possibile per soggetti cinematografici come quelli concernenti Cristo si è fermato a Eboli, I fuochi di San Pancrazio ed altri che pure tratta il saggio del docente salernitano.
Nella seconda metà degli anni settanta si assiste ad un ritorno di attenzione della cultura italiana alla civiltà contadina. Quando si è ormai consumato il crepuscolo della civiltà contadina e si toccano con mano i limiti e i rischi della modernità realizzata, il cinema avverte la necessità di tornare a fare i conti con quel mondo ormai alle spalle: lo fa con una tensione che si muove tra “memoria e ribellione”; una rivisitazione autoriale in cui la memoria si confronta con la storia attraverso uno sguardo che contamina mito, epos, ideologia e paradigmi estetici cinematografici, rientrano in questo filone due film di grande successo come Novecento (1976) di Bernardo Bertolucci e L’albero degli zoccoli (1978) di Ermanno Olmi.
Su un altro versante che, tra l’altro, ha ad oggetto proprio il mondo contadino meridionale, si realizza finalmente la trasposizione filmica di due opere come Cristo, si è fermato a Eboli (1979) e Fontamara (1980) che il mondo contadino avevano sollevato ai vertici della letteratura italiana del Novecento. Francesco Rosi e Carlo Lizzani recuperano non solo “l’affiato etico/estetico neorealista”, ma anche un fruttuoso rapporto tra cinema e letteratura nel segno di un rivisitazione di quel mondo, della sua storia, dei suoi limiti e dei suoi valori, di come una certa intellettualità lo aveva incrociato e rappresentato con una “osservazione partecipata”, che gli aveva dato dignità e senso storico, una operazione forse utile anche nel tempo della modernità dispiegata.
È certamente il caso di ricordare che iIl 28 agosto 1954 Carlo Salinari pubblica su «Il Contemporaneo» un articolo sul premio Viareggio di quell’anno intitolato Tre errori a Viareggio. Il terzo errore, secondo Salinari, fu l’assegnazione del premio a Rocco Scotellaro, perché Scotellaro poeta non apriva una strada nuova. «E’ un poeta, abbastanza vivo, di una tradizione e un passato ormai chiusi, non è certo il poeta dell’avvenire». Non si tratta della personale opinione di un giovane (trentacinquenne) docente universitario, bensì della linea di politica culturale del partito comunista, espressa dal responsabile del suo ufficio Cultura, che da inizio a un ostracismo nei confronti di Rocco Scotellaro, sul quale cala una cappa di silenzio, che dura vent’anni. Per l’appunto a metà degli anni ’70, l’on. Enrico Berlinguer, in un discorso a Potenza, pone fine all’ostracismo.

(continua) V. post 10 aprile 2018 Cristo si è fermato a Eboli: film di Francesco Rosi

 

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