Cristo si è fermato a Eboli: il film di Francesco Rosi
Con la regia di Franco Rosi, napoletano, di una generazione più giovane di Levi, Cristo si è fermato a Eboli giunge sugli schermi cinematografici. È il 1979, Carlo Levi non c’è più da cinque anni.
Il saggio che racconta la conclusione della tormentata storia trentennale della trasposizione cinematografica (Cristo ’79: la questione meridionale e il mondo perduto), pubblicato sulla rivista «Forum Italicum – Lucania within us: Carlo Levi e Rocco Scotellaro» (pp. 947-952), a firma del prof. Emiliano Morreale del Dipartimento di Studi Greco Latini Italiani Scenico Musicali dell’Università di Roma La Sapienza, prende in esame il film di Rosi evidenziando i mutamenti che il libro subisce. L’interpretazione si snoda con gli opportuni riferimenti alla realtà storica e socio-antropologica del Mezzogiorno d’Italia, di tal che il film diventa anche l’occasione per un rinnovato dibattito meridionalista. Il Cristo di Rosi viene letto anche alla luce di due importanti antecedenti: Padre padrone dei fratelli Taviani e L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi.
Del film furono girate due versioni: quella normale per gli schermi e una versione lunga per la televisione.
In una conversazione con Tornatore (Rosi F. Io lo chiamo cinematografo [conversazione con Giuseppe Tornatore], Milano, Mondadori 2012) Rosi confida che al film si era interessato fin nei primi anni sessanta, ai tempi di Salvatore Giuliano. (Salvatore Giuliano, film del 1962, è un’inchiesta sui fatti che avevano condotto alla morte del bandito siciliano Salvatore Giuliano, rinvenuto a Castelvetrano la mattina del 5 luglio 1950. Presentato in concorso al Festival di Berlino 1962, vinse l’Orso d’argento per il miglior regista, nonché tre Nastri d’Argento. Il film è stato selezionato tra i 100 film italiani da salvare). Lo stesso Levi aveva incontrato Rosi sul set del film, forse anche per sondare se il regista fosse il nome giusto per il proprio film. “Il cinema neorelista doveva passare attraverso una storia – confida Rosi a Tornatore – e lì, in Cristo si è fermato a Eboli, la storia non c’è. Immagino che vedendomi girare Salvatore Giuliano, un’opera apparentemente senza storia, lui abbia pensato: ‘Vabbè, questo è adatto’ ’’. Levi, dunque, secondo l’ipotesi del regista, avrebbe immaginato un film non troppo narrativamente “incatenato’’, divagante, che mantenesse l’andatura liberamente osservativa e saggistica del suo libro, che Rosi girerà nel 1978, quattro anni dopo la morte di Levi e porterà sugli schermi nel 1979.
Il Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi sarà in effetti un film dalla struttura non serrata, ma non una costruzione libera ed episodica. A fronte di una sostanziale fedeltà nel riprendere i singoli episodi, il film mostra un atteggiamento assai diverso, per certi versi opposto a quello della materia narrata. E ciò per una doppia ragione. La prima differenza deriva dalla diversa formazione dei due autori, la seconda, dalla distanza temporale. Del libro Rosi accentua l’aspetto, certo assai presente, della descrizione della miseria e delle contraddizioni sociali, ma assai meno quello della ricognizione antropologica. In una parola, la grande assente nel Cristo di Rosi è la magia. Il libro di Levi era l’incontro di un intellettuale del Nord con una cultura contadina, e il punto di vista continuamente oscillava tra adesione e distanza, lasciandosi irretire da questo mondo. Gli esempi nel testo leviano sarebbero numerosissimi. Fin dalle primissime pagine quando descrive il funzionamento di un filtro d’amore, Levi lo fa come se ci credesse davvero. Lo scrittore assume a tratti il punto di vista di quel mondo, ne mostra usi e credenze, traducendole nella propria lingua e nel proprio ragionare. Il racconto è popolato di incantatori di lupi, racconti di incontri con il diavolo, corna di drago, uomini-animali, Madonne che sono temibili divinità al di là del bene e del male, tesori nascosti, monachicchi, angeli. Di san Rocco di Tolve Levi afferma di aver “potuto conoscere, per prove e favori personali, la particolare virtù”. Lo stesso Barone, il suo cane, è una creatura magica. Di tutto questo nel film resta poco, e l’unico momento di inquietudine è una eclisse solare: evento naturale che appare soprannaturale ai popolani, ma non certo al protagonista né al regista.
In questa prospettiva più storico-sociale che antropologica il popolo è spesso un coro quasi indistinto (da cui si stacca sostanzialmente la Santarcangelese interpretata da Irene Papas, mentre risaltano le figure di don Traiella, del podestà don Luigino (Paolo Bonacelli) e del barone di Avellino (Alain Cuny). Già la scelta esplicita di fare interpretare i borghesi e i piccolo-borghesi da attori professionisti, e il popolo da non professionisti, è indicativa dell’identificazione di Rosi con l’osservatore esterno, rimuovendo però il suo viaggio interiore. Assai più che in Levi, in Rosi il protagonista è un osservatore. E il suo viaggio, soprattutto, non è un viaggio nella compresenza dei tempi, ma un puro viaggio nel passato. (Si può misurare in questo tutta la distanza dello sguardo di Rosi da quello del soggetto del Cristo scritto da Scotellaro, che addirittura cominciava ribaltando la prospettiva e mostrando in montaggio alternato il viaggio di Levi a Gagliano prima dell’arrivo dello scrittore (si veda su questo blog l’articolo Levi, Scotellaro e il cinema).
Un paio di esempi sono eloquenti. Nel libro, la comprensione della civiltà contadina da parte del protagonista risalta nell’episodio della visita della sorella, che rimane inorridita dalla miseria e dall’arretratezza, e davanti alla quale invece Levi sente tutta la lontananza del suo mondo borghese, e per la prima volta lo vede con gli occhi dei contadini. Nel film, questo ruolo di ribaltamento, di straniamento dell`episodio è quasi impercettibile. Ancora: nel film ascoltiamo, trasformate in lettera, alcune considerazioni del narratore sull’estraneità dei contadini allo Stato fascista, a “Roma”. Si tratta di uno dei passaggi del libro, e non stupisce che sia stato privilegiato tra tanti. Ma il passo non ha quel carattere di denuncia meramente politica che assume invece nel film: a cominciare dal fatto che poi prosegue parlando, per questa estraneità contadina, di “paganesimo” e di “terra del lupi”: una estraneità, dunque, quella che Levi evoca, non contingente, legata alla storia di breve periodo, ed emendabile politicamente.
E’ questo il punto decisivo. In generale, l’incontro col mondo contadino porta Levi a una radicale critica dello storicismo e dello statalismo. Una rilettura della storia d’Italia “dal punto di vista dei contadini” che lo porta alla conclusione che lo Stato è “l’ostacolo fondamentale che si facesse qualunque cosa”. Una conclusione che un artista e intellettuale come Rosi, di tradizione sì salveminiana e socialista, ma legato a una tradizione di buon governo e di riformismo illuminato, non avrebbe potuto accettare né nel 1945 né nel 1979.
In apparenza, dunque, Rosi privilegia la miseria sulla magia. Il suo è uno sguardo razionale che nasconde un cuore lirico. E il suo lirismo ha una sorgente assai diversa da quella del libro. Il film è il racconto di un pezzo di Meridione dimenticato dallo sviluppo: “La questione meridionale è oggi la vera questione nazionale”, scrive Michele Cimenti nel Dossier Rosi, pubblicato nel 2008 da Il Castoro. Nelle interviste, Rosi cerca di integrare la prospettiva meridionalista in una lettura che tenga conto delle disillusioni successive al boom:
Questa terra non è più isolata fisicamente, ma c’è forse una emarginazione ancora più crudele nella misura in cui il Mezzogiorno ha subito in modo traumatico l’arrivo di una civiltà dei consumi, senza che questa sia accompagnata da una evoluzione parallela delle altre forme di vita (Cimenti, Dossier cit., p. 144).
Non a caso, il film fu anche discusso all’epoca proprio su questo versante, come contributo al dibattito meridionalista, e in maniera molto appassionata: si allude al dibattito dopo la “prima” materana del film, a cui parteciparono politici, sociologi, sindacalisti, e in cui le parole più nette contro l’impostazione di Rosi sono quelle di Leonardo Sacco (rivista BASILICATA n. 1-3, pp, 17-22), che rimprovera al film una lettura regressiva e statica ella civiltà contadina, e una rimozione delle sue potenzialità rivoluzionarie e di opposizione allo Stato.
Il libro era stato scritto da Levi durante l’occupazione nazista, a Firenze: “chiuso in una stanza, e in un mondo chiuso, mi è grato riandare a quell’altro mondo serrato, serrato nel dolore e negli usi. ..”. L’attacco del film mantiene le parole di Levi, ma le cambia di senso: il prologo è infatti spostato avanti tempo, mostra un Levi vecchio che rivà a una memoria non più prossima e non sull’urgenza delle tragedie presenti. È la distanza temporale la chiave rosiana. E peraltro va ricordato che questo elemento era ancora versione più presente nella versione lunga per la televisione, che comprendeva numerose sequenze “al presente”.
Il film quindi, nel riproporre gli incontri e i luoghi del libro di Levi, a volte con scrupolo filologico (l’abitazione in cui è girata è la stessa in soggiornava lo scrittore), rimuove l’elemento magico in apparenza a favore di un approccio sociologico col senno di poi, che intraveda le contraddizioni dell’Italia post-boom. Ma in realtà, sostituisce la magia con la nostalgia, o quanto meno con un tono elegiaco di fondo.
Fin dalla sequenza dell’arrivo nel paese, si avverte nel film una discrasia quasi stridente tra le immagini e le parole. Il testo di Levi, che descrive la Gagliano fuori dalla storia e preda della miseria, è recitato con voce suadente da Volonté sulle note di Piero Piccioni, mentre scorre il paesaggio fotografato da Pasqualino De Santis con il filtro dégradé, che rende scura la parte superiore dell’immagine, rendendo i cieli come in un perenne annuvolamento. Le immagini, dunque, ci dicono tutt’altro dal testo: ci dicono di un mondo passato e che, sotterraneamente, si impone come oggetto di ambigua nostalgia. Questo sguardo sul mondo contadino diventerà più precisamente un contraltare della violenza dell’Italia degli anni di piombo nel successivo Tre fratelli (1981). L’addio finale sotto la pioggia in cui tutti salutano don Carlo, e che sui primi piani dei bambini, accompagnato sempre dagli archi di Morricone, diventa un addio a un mondo contadino ormai scomparso, un addio a quella che nel film stesso viene chiamata “l’umile Italia”.
Ma allora, più ancora che col testo di Levi, è utile leggere il film di Rosi insieme a due titoli immediatamente precedenti, entrambi vincitori al festival di Cannes, che segnano una singolare rinascita di interesse per il mondo contadino, spesso in chiave ambiguamente o dialetticamente nostalgica: Padre padrone (1977) di Paolo e Vittorio Taviani e L’albero degli zoccoli (1978) di Ermanno Olmi. Sono forse loro gli antecedenti diretti del Cristo di Rosi. Più in generale, in quell’epoca si ha in Italia un ritorno di interesse, verso il mondo contadino che non ha equivalenti nel cinema europeo dell’epoca, e nemmeno nel cinema italiano precedente.
In quella chiave vengono letti anche antifascismo e resistenza: si pensi a Novecento (1976)di Bertolucci, ma anche a L’Agnese va a morire (1976) di Giuliano Montaldo. E forse non a caso anche come Fontamara, più volte “film mancato” come Cristo si è fermato a Eboli fin dagli anni ‘40, trova realizzazione in quello stesso periodo in una formula produttiva simile a quella di Rosi (Carlo Lizzani, 1980), e sullo schermo approda anche Uomini e no di Vittorini (che Valentino Orsini realizza pochi mesi dopo il “Cristo”). Si tratta di film nati nel pieno degli anni di piombo in uno dei momenti di maggior crisi ideologica della sinistra, del meridionalismo, di un certo cattolicesimo sociale. E di questo, con lucidità, dà conto retrospettivamente lo stesso Rosi, riandando al periodo delle riprese del “Cristo” nella sua conversazione con Giuseppe Tornatore, quasi quarant’anni dopo. Il film, ricorda il regista, fu girato in un momento storico drammatico, durante i giorni del sequestro e della prigionia di Aldo Moro, “tenendo le radioline attaccate all’orecchio”: “E mi sono inoltrato nelle riprese entrando in una specie di serenità, di calma, che mi veniva da quel mondo, da quelle immagini che trasudavano quegli stessi valori che, contemporaneamente, i brigatisti stavano distruggendo”.
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Ci voleva un Piemontese per trascinarci nella nostra realtà dei tempi,dopo Tranquillo Secondo, Giuseppe Guido Loschiavo ed altri fermati dalla Vita! E se non fosse per la inesauribile fonte del “Brigantaggio”(ogni paese ne aveva almeno uno con i suoi gregari),sarebbe svanita anche la fantasia.
Ignazio Silone, fino agli anni Sessanta,è stato pseudonimo, e poi anche nome legale di Secondo Tranquilli (non Tranquillo Secondo), scrittore abruzzese, amico di Rocco Scotellaro, autore di Fontamara. Giuseppe Guido Loschiavo è stato un magistrato e scrittore, dal suo libro d’esordio Piccola Pretura è stato tratto il film In nome della legge, con la regia di Pietro Germi.
Antonio….Non a caso lì ho citati!
(c’è un correttore che correggendo troppo… cade in errore!)
Sei davvero sorprendente per questa ottima capacità di critica e di storia cinematografica. Mi hai svelato percorsi analitici che, da solo, non avrei saputo scoprire. Un esame critico essenziale per poter meglio comprendere le due opere (il libro di Carlo ed il film di Rosi) ma soprattutto proprio la “nostra cultura”” da troppi erroneamente criticata. Grazie sempre, Antonio. GIL
Grazie a te, GIL, per la tua amicizia, che mi è molto cara e di conforto.
Caro Antonio,
la tua ricostruzine della trasposizione cinematografica del “Cristo si è fermato a Eboli” di Carlo Levi ad opera del grande cineasta Franco Rosi è puntuale, organica e interessante.
Io ricordo ancora la bella e significativa intervista, che il Maestro Rosi rilasciò riguardo alla storia da te raccontata, quando ricevette il Premio Levi ad Aliano. Sono passati circa venti anni.
Permettimi di aggiungere anche che essa avvenne nel contesto di un programma culturale, che propose una importante relazione del nostro caro amico Gilberto Marselli sull’attualità della questione meridionale.
Un caro saluto,
Angelo