Primo dei dieci racconti di Rocco Scotellaro inediti e rari

 Del racconto Il pellegrino della neve, che risultava inedito, esistono due redazioni dattiloscritte datate 1942. La ricerca condotta dalla prof. Giulia Dell’Aquila porta ad acquisire il ritorno dell’autore sul racconto in epoca successiva al 1942. Su carta intestata “Comune di Tricarico …” sono tracciati alcuni appunti di revisione: si tratta di fogli di piccolo formato, in uno dei quali si leggono anche appunti di un comizio, probabilmente tenuto da Scotellaro sindaco. Tali appunti sono integralmente riportati in una redazione evidentemente rimessa in bella copia e alla quale è stata aggiunta a mano la data 1942, riferita al tempo di concepimento e non di revisione, che è del 1946 o successiva. Questa è, quindi, la redazione pubblicata dalla prof. Dell’Aquila sulla speciale edizione della rivista Forum Italicum (2.2016, pp. 772-74) e riprodotta più avanti.

Il racconto, tra i dieci proposti, è quello che stilisticamente mostra più punti di contatto con Uno si distrae al bivio, da ricondurre alla natura leggendaria del testo evocata dallo stesso Scotellaro nel sottotitolo, poi scomparso, della redazione ritenuta anteriore e non pubblicata: “Il pellegrino della neve. Una quasi leggenda di Rocco Enzo Scotellaro”.

Ne è protagonista un vecchio pellegrino, che, da sempre, ricompare a percorrere i vicoli del paese nei giorni di più alte nevicate dell’anno, elemosinando pezzi di pane. Un inverno particolarmente mite disorienta paesani e pellegrino, che vedono messa a rischio la rassicurante ciclicità dei ritmi: quella mitezza appare “un evento nuovo e terribile insieme” come “una notte d’incubo troppo lunga”. Il testo mette dunque in scena la spasmodica attesa della neve: e il racconto viene iscritto nel solco di una tradizione letteraria che fissa nella neve una figura metereologica di morte, citando Bachelard, con rinvio a una nota. Gustave Bachelard è stato un filosofo francese della poesia e della scienza, la tradizione letteraria evocata conduce all’opera La poetica dello spazio, pubblicata nel 1957, che Scotellaro, morto quattro anni prima, non aveva potuto conoscere. Rocco, peraltro, aveva personale esperienza dei fenomeni metereologici relativi alla vita contadina in particolare e alla comunità. Si rilegga la poesia Neve e si pensi al detto lapidario, o alla nevere che non si riempivano negli inverni miti, con scarse precipitazioni nevose.

Emerge chiara una diversità di condizione tra pellegrino e paesani, con la malinconica solitudine del primo e l’affiatata comunione dei paesani. Il pellegrino è immagine di emarginazione: di giorno è seduto col capo chino sui gradini delle case, di notte si ripara in una caverna nel bosco, a “qualche ora di passi” dall’abitato. Quando il paese è sotto una coltre di neve, cresce il senso di intimità nella case. Ecco Bachelard (ma Rocco, con Neve, viene prima): «Per quanto sia, nel profondo del suo essere, un cittadino, Baudelaire, sente quanto si accresce il valore di intimità di una casa quando essa è attaccata dall’inverno. Ne “I paradisi artificiali”, egli parla della felicità di Thomas de Quincey, avvolto dall’inverno, intento a leggere Kant, aiutato dall’idealismo dell’oppio. […] Una graziosa abitazione non rende forse l’inverno più poetico e l’inverno non accresce forse la poesia dell’abitazione? (p. 65)» Allora di più il viandante desidera “la vita degli altri”, sentendosene irrimediabilmente escluso.

1. Il pellegrino della neve

Nessuno mai seppe il suo nome.

Dicono che aveva una lunga barba grigia e vestiva un saio e calzava sandali. Era uomo come gli altri, dicono; e non elemosinava in nome di Dio e dei Santi.

Passava ogni inverno per il nostro paese e invariabilmente c’era neve. Sostava un numero indeterminato di giorni e ripartiva con una bisaccia a spalla con qualunque tempo, il pellegrino della neve.

Un anno fioccò tardi. Quell’anno stesso arrivò sulla sera alle prime case, schiarate da una gelida luna. Fu grande la sorpresa di tutti i vicinati: che il pellegrino venisse senza che un lembo di neve n’annunciasse l’arrivo. Attraversò in tutta la lunghezza il paese e s’incamminò – era già piena sera – per la trazzera che menava all’altro versante di terre. Sempre – quando il giro di questua d’un giorno aveva terminato – per quella trazzera era solito incamminarsi. E la gente non gli dava gran conto se non che lui venisse e l’aria fosse folto sciame di falde.

Egli andava nel bosco, lontano qualche ora di passi, s’inoltrava tra le querce con piede sicuro. Li, sotto a un rialzo del terreno, era scavata una caverna, lì dentro appiccava dei rami, s’adagiava a dormire; a poche ore dall’alba riprendeva la via del ritorno in paese.

Aveva lo sguardo acuto e mesto e estatico di chi vive solo tra la muta bellezza dei luoghi, il passo fermo di chi scende tra il mondo a capirlo dopo averlo studiato e fantasticato nella sua solitudine; e i suoi gesti erano stanchi. Fin da giovanetto al seguito di suo padre s’era dato alla strada per trovarsi del cibo. Così com’era dal capo fino, dalle lunghe e sottili gambe, pareva un uccello.

Legato a una sua legge di viandante, mai tempo e luogo, nel corso dei suoi viaggi, si mostrarono mutati.

Ma la neve quell’anno era mancata e neppure ci avrebbe fatto caso, se da una parte del bosco non avesse visto fila di contadini sui muli che venivano a far legna. La neve no certo non c’era, se sul mattino le prime case avevano aperte le mezze porte, i bambini scendevano ancora scalzi sulla strada, diradavano calme le donne della prima messa. La piazza era piantonata da vari gruppetti di uomini che conversavano come nei mattini d`estate. Il paese in tutte le strade già gesticolava vociando.

Ebbe quell’uomo per la prima volta come uno stupore di se stesso, sentiva trovarsi davanti a un evento nuovo e terribile insieme, lo stesso stupore che avrebbe potuto dare una notte d’incubo troppo lunga, cui non sarebbe mai e mai più successo il giorno.

Stupore ed apprensione che quello non fosse il paese della neve oppure ch’egli avesse perduti i calcoli del tempo controllati dai giorni di viaggio. Ola caverna era l’illusione del suo arrivo, l’allucinazione che gli avrebbe potuto dare lo spossamento del lungo cammino.

Sedette sul gradino di una bottega.

Qualcuno gli lasciò cadere una moneta, una donna gli portò del pane. Neppure ringraziava chinando il capo. Forse si sentì mancare come talvolta nei boschi e nelle rotabili, quando il respiro montava e batteva come un orologio.

Un vecchio gli strisciò d’accanto e gli picchiò il piede col bastone: -come va che non giri? -gli fece- e come mai non hai portato sulle spalle una bella nube di neve?-

Il pellegrino scattò: La neve! – disse – la neve! – e dalla piazza gli uomini dei gruppetti mirarono dalle montagne scendere cavalloni di nuvole e l’aria s’intristì e il pellegrino -fermatosi un po’ pensieroso – cadenzò col passo fermo per le strade, chiese alle porte il pane dei pellegrini. l

Fioccò nel pomeriggio, prima con una pioggerella che inumidì le strade, poi più dense e larghe falde scesero. Si scorgevano le prime peste. Al crocicchio le peste s’incrociavano in fanghiglia. Gli angoli dei muri cominciavano a splendere del color della neve. Il viso del pellegrino pure splendeva di bellezza bianca.

Ritornò nel bosco: sui rami irsuti facevan ressa le falde senza far presa. Il pellegrino capiva lo sforzo della natura per tutto imbiancare. Sulla fanghiglia si spegneva ancora un fiocco.

All`indomani però, senza che i paesani, come il pellegrino faceva, avessero seguito quello sforzo della natura, sarebbe stata un’illesa bianca pianura.

Accese il fuoco. Stette ritto davanti alla fiamma con un atteggiamento esaltato ch’egli si vedeva specchiato nell’animo.

“Come sempre – poté dire a se stesso- domani sull’alba un’orma immacolata passerà”. Quell’orma, la sua. La sua solitudine altro trionfo non avrebbe avuto.

Passò nel mattino come l’anima di un morto.

Ma per li uomini, era venuta la neve, nient’altro Si facevano fiamme, si beveva e cantava anche nelle case. Lo stesso vecchietto gli gridò ridendo dal focolare “ecco, bene! Ha fioccato” e tornava a conversare con i suoi. I passanti venivano con ombrelli ben calzati, argomentando d’affari.

Inutile parve a un tratto al pellegrino la sua esaltazione.

Le strade si spalavano per il passaggio, si sgombravano gli usci, la neve diventava sporca. Niente di bello, niente di tanto grandioso dovevano essere quei sentimenti, conveniva cambiare passo.

Anch’egli cercava del pane alle porte e, pure per un momento gli era assente l’entusiasmo per lo spettacolo della neve

La sera non ritornò alla caverna. Errò per le strade mentre il vento ammonticchiava la neve e ne soffiava il pelo.

Era ora che si dormiva, per gli altri.

Dové bussare a qualche porta: non gli fu risposto. Poté forse desiderare quella prima volta la vita degli altri.

 Ma doveva andare, e s’incamminò nel turbine di neve verso un altro paese.

 

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