Dedico questa gloriosa giornata di liberazione al ricordo di Aldo Moro

 

          Scorrono nei ricordi e nei racconti del quarantennio gli ultimi giorni della prigionia di Moro. Attorno al 2 maggio Moro ebbe quasi certamente la comunicazione che sarebbe stato liberato. Scrisse infatti due versioni di una lettera a Zaccagnini. Nella seconda parla della sua prigionia come di un evento al passato prossimo e desidera «dare atto che alla generosità delle Brigate Rosse devo, per grazia, la salvezza della vita e la restituzione della libertà. Di questo sono profondamente grato». È difficile immaginare che le BR gli avessero comunicato questa cosa per puro sadismo, che invece va presa come segno di un movimento, di un dibattito all’interno del criminale movimento terroristico.
Marco Damilano, direttore del settimanale «L’espresso», compie un viaggio nella memoria personale e collettiva nei luoghi e nelle correlazioni di quei 55 giorni (Aldo Moro, Un atomo di verità – Aldo Moro e la fine della politica in Italia, Feltrinelli, marzo 2018). Racconta, descrivendo l’ultima tappa del viaggio: « La scena del film che preferisco del film di Marco Bellocchio Buon giorno notte, dedicato nel 2003 ai giorni del rapimento, è quello finale, quando il prigioniero interpretato da Roberto Hertizka esce dalla parete del covo che lo separa dal mondo, si infila un capotto, lascia l’appartamento mentre i terroristi dormono e passeggia all’alba per le strade deserte di una Roma che si sta risvegliando, prima infreddolito e incredulo, poi a passi veloci, di fronte al Palazzo della Civiltà del lavoro, il Colosseo quadrato dell’Eur, sorridente, felice, leggero. È solo un sogno, però. Le Brigate rosse alla fine di quella notte bendano il prigioniero, lo portano fuori e avanzano verso l’ultimo cammino, nelle prime ore del 9 maggio 1978. Il buio, ancora, al posto della luce».
La situazione precipita subito, definitivamente, anche nella realtà: il 5 maggio fu emesso il comunicato n. 9: «Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo eseguendo la sentenza …» e il 9 maggio Moro fu barbaramente assassinato.
Damilano, per l’ultima tappa del viaggio ha scelto la fine dell’anno, la mattina di sabato 30 dicembre 2017. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella due giorni prima ha sciolto il parlamento e ha convocato le elezioni per domenica 4 marzo 2018. Il viaggio ci conduce alle porte di Roma, nella valle Tiberina, in un paesaggio antico e immobile, di sentieri fangosi e boschi secolari. Un viaggio che io e Titina, mia moglie, abbiamo compiuto per lungo tempo due volte l’anno, a maggio e a ottobre, per incontri in un monastero di clausura a Civitella San Paolo, frequentati da oblati e amici del Monastero, e una visita alla tomba di Moro nel piccolo cimitero di Torrita Tiberina a cinque chilometri.
La badessa del nostro tempo, Madre Francesca, prima di prendere i voti, era stata Presidente nazionale della FUCI femminile, del cui ramo maschile erano stati presidenti, nell’ordine, Andreotti e Moro. Gli oblati e la oblate erano appartenuti a quel mondo, compresa la vedova Moro, Eleonora, detta Nora in quell’ambiente dove tutti le davano il tu, che ha costantemente frequentato gli incontri per tutta la sua lunga vita, ancora per anni dopo che la nostra frequentazione era cessata. Agli incontri partecipava anche la sorella di Vittorio Bachelet, altra vittima della criminalità terroristica. Nel monastero, sottratta al regime di clausura, c’è una bellissima biblioteca con alcune decine di migliaia di volumi: un profumo di libri in una distesa di centinaia e centinaia di metri su più piani, che incanta e dona una dolce sensazione di benessere. Il catalogo di quell’immenso sapere era nella mente di una suora coltissima, china nello studio su libri o carte aperte su un leggìo illuminato dal sole.
La sera, dopo cena, quando per le monache scatta il tempo del silenzio notturno, noi ospiti ci concedevamo una pausa di conversazioni con testimoni della storia religiosa, ecclesiale e politica del mondo cattolico. Il tempo, come aveva cancellato e stava cancellando quella storia, ha man mano cancellato chi ne testimoniava la memoria. Senza alcuna particolare intenzione, lontana da me, voglio riferire un particolare che riguarda una figlia di De Gasperi, che poi prese i voti, se non ricordo male, col nome di suor Lucia. Giovanissima, partecipò a una Tre giorni di esercizi spirituali, alla quale partecipava anche una oblata più grande, che si chiamava Giovanna, amica di sempre di Nora e Aldo Moro, anche lei costantemente presente alle riunioni di Civitella, una miniera aneddotica che faceva luce sulle storie e sulla storia; elargiva aneddoti a larghe mani: “il nostro libro di storia”, diceva Titina. La prima sera la figlia di De Gasperi le disse: – Mia madre, la sera, prima di andare a dormire, mi da la benedizione. Queste sere, Giovanna, la benedizione dammela tu –.
Torniamo al viaggio. La valle del Tevere appare all’improvviso lungo la strada, è coperta dalla nebbia dorata, il chiarore del sole sembra un’aurora anche se siamo a metà giornata. Il fiume è sotto la collina, da secoli gli abitanti lo osservano scorrere, trascina via passioni, ferite, incomprensioni, è il corso delle cose che non si può fermare. Dalla parte opposta, sullo sfondo, ci sono i Monti Sabini che proteggono la valle e la riserva naturale di Nazzano. Il paese è il borgo tipico di questa Italia di mezzo, che respira accanto alla capitale, ed è pieno di lui, di Moro: la strada che attraversa la rocca, via Aldo Moro, la scuola con i murales, la targa che ricorda don Agostino Mancini, parroco di una delle due chiese di Torrita, la chiesa di San Tommaso Apostolo, dal 1932 al 1990; fu lui a celebrare i funerali dello statista che lo Stato non era riuscito a salvare, un semplice prete di campagna al posto del papa che celebrò una commemorazione funebre senza salma. Era il 10 maggio 1978, piovigginava, nelle poche immagini di quel momento si vedono Eleonora, Giovanni. Anna, Agnese, Maria Fida, stretti nella macchina, dietro i vetri bagnati di gocce sottilissime. Dietro la bara di noce chiara c’erano solo loro, pochi amici e un oscuro sottosegretario, il sen. Vittorio Cervone, che, invano, aveva fatto di tutto in opposizione alla linea della fermezza e la famiglia volle che fosse presente.             “Il viaggio del fratello Aldo finisce qui”, disse don Agostino. E lì e allora finì la politica. Dopo l’assassinio di Moro sono arrivate la morte di Berlinguer, la dissoluzione della DC, Tangentopoli e la latitanza di Craxi in Tunisia. Fino all’ultima stagione, con la politica che da orizzonte di senso si è fatta personalismo e populismo, narcisismo e nichilismo, marketing digitale, cedendo alla paura e alla rabbia e all’ignoranza. Per questo la voce di Moro parla ancora, come aveva previsto lui stesso: “io ci sarò come un punto irriducibile di contestazione e alternativa”.
Una cappella spoglia, sobria, chiusa da un cancello e la tomba con la croce sopra illuminati da una finestra. Sul marmo c’è scritto semplicemente “Aldo Moro”, senza date. È posta nella parte opposta all’ingresso del piccolo cimitero, un angolo che si protende alto come un promontorio a strapiombo su una larga ansa del Tevere, che cinge il monte. Dalla cappella si vedeva, era come se si affacciasse. Le tombe non servono ai morti e ai vivi danno il conforto di pensare e di dire: oh, qui riposano in pace! Durante una delle nostre ultime visite avemmo la sgradevole sorpresa di trovare che, nello stretto spazio tra la tomba e il muro di contenimento all’angolo del promontorio, la vista dell’ansa del Tevere era stata ostruita da una brutta fabbrica, un loculario stretto e lungo, che, fortunatamente, non toglie la vista del monte Soratte, che si vede dal finestrone dietro la tomba, cantato dal nostro Orazio (Odi, I,9) Vides ut alta stet nive candidum / Soracte, nec iam sustineant onus / silvae laborantes gelusque /flumina constinterint acuto. (Guarda la neve che imbianca tutto il Soratte e gli alberi che gemono al suo peso, i fiumi rappresi nella morsa del gelo).
Accanto a Moro riposa la moglie “Eleonora Moro Chiarelli”, scrive Damilano, sbagliando il cognome, che è Chiavarelli, non Chiarelli, con la sua foto sopra l’altare e le date di nascita e di morte incise sul sepolcro. Io e Titina non abbiamo vista la cappella con i due sepolcri. Ci chiediamo se la sua semplicità architettonica e apocalittica non sia stata alterata. Domande senza risposta, perché il nostro viaggio a Torrita Tiberina è finito.
Agnese, la figlia secondogenita d Aldo e Eleonora Moro ha testimoniato quanto fosse caro al padre questo minuscolo paese di mille abitanti, costruito attorno a un antico palazzo baronale, a cinquanta chilometri da Roma. La famiglia aveva una villetta. Anche la villetta era meta del nostro laico pellegrinaggio, tornando a Civitella dopo la visita alla cappella, passavamo lentamente davanti. La famiglia veniva qui a riposare. Moro ascoltava dischi di musica classica, raccoglieva fichi, frequentava messa tutte le mattine, spesso era l’unico uomo presente, oltre a don Agostino, L’anno prima decise di comperarsi una tomba. Sembrava che la ritenesse una cosa urgente. La famiglia non capiva. Era il tempo interiore di Moro. L’uomo della lentezza e della tranquillità, dell’ascolto di tutti che richiede sforzo di comprensione, in quell’ultimo anno di vita aveva fretta, sentiva l’urgenza di qualcosa che scivolava via. Voleva portare a termine la svolta politica per cui aveva lavorato, voleva comperarsi una tomba, voleva compiere il suo tempo.
Questa piccola tomba lontana dal centro di Roma – scrive Damilano -, però, non è un luogo di misteri, ma di Mistero. Il mysterium iniquitatis del male nel mondo e della vita che non muore, quello di cui scrisse Moro a sua moglie Eleonora prima di essere ucciso. Mysterium iniquitatis della natura drammatica e sconvolgente, perennemente eluso, sulla morte e sul male.
Damilano non dice perché la tomba di Moro gli ha ispirato questa espressione: mysterium iniquitatis. Così prosegue nel ricordo della scena di Bellocchio: “Parte la musica di Shine on Yoy Crazy Diamondi dei Pink Floyd sulle immagini terribili della messa in sufragio di Aldo Moro celebrata il 13 maggio nella Basilica di San Giovanni in Laterano dal papa, di fronte a tutte le alte cariche dello Stato, senza la salma del defunto». Il papa è morente, la sua giornata è vicina al tramonto, mancano tre mesi. Ma in quel pomeriggio sembra un grandioso angelo sterminatore venuto a ristabilire la Giustizia, a punire i malvagi e a premiare gli innocenti. Lui può, rappresentante di un potere spirituale che si professa eterno. Esprime “il grido, il pianto dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce”; protesta con chi “non ha esudito la nostra supplica”, chi non ha salvato Moro: non i terroristi, e neppure gli uomini dello Stato imbelli, ma addirittura “il Dio della vita e della morte”. Mai nell’età moderna si è udito un papa ripetere l’invettiva biblica, la rivolta dell’uomo giusto perseguitato contro un Dio che permette il male, la domanda di Giobbe. Quel 13 maggio 1978 non si vide l’irrompere della giustizia divina, ma non andò delusa l’aspirazione che un papa alzasse la sua voce per parlare con autorità, in nome di Cristo, del significato sempre più terribile dei tempi che viviamo e della salvezza che attendiamo.
Perché Dio permette il male? E’ il Mysterium Iniquitatis, uno dei grandi misteri fondamentali dell’esistenza, sul quale l’uomo si interroga da sempre. Paolo di Tarso ne parla nella Seconda lettera ai Tessalonicesi, e rimando, sperando di riuscirne a parlare, a un libro di Sergio Quinzio, intitolato per l’appunto Mysterium Iniquitatis, pubblicato da Adelfi nel 1995.

 

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