Del secondo racconto inedito e raro di Rocco Scotellaro – numerando i racconti nell’ordine dato dalla prof. Giulia Dell’Aquila – esistono due redazioni composte negli anni giovanili, come sta a dimostrare la firma finale dattiloscritta «Rocco Enzo Scotellaro», in uso fino al 1944, posta sulla redazione proposta (Forum Italicum cit., p. 774-5), intitolata: «Ed anche i ricchi … novella di Rocco Enzo Scotellaro». Il racconto fu inviato alla Domenica del Corriere affinché venisse pubblicato sulle pagine del settimanale, ma la richiesta fu sbrigativamente rifiutata dal direttore della testata Eligio Possenti, probabilmente – congettura la prof. Dell’Aquila, op. cit., p. 757 – per la necessaria cautela rispetto a un testo che mette in scena il rapporto tra città e campagna in una dimensione di emergenza determinata dalla guerra.
La seconda redazione è intitolata “Ed anche i ricchi …/Appunti” ed è firmata a penna “R. Scotellaro”. Il confronto tra le due redazioni mostra in quella pubblicata la chiara volontà di riduzione del tono oleografico a favore di un indirizzo più marcatamente realistico
Attraverso l’ospitalità che una famiglia di contadini offre ai Lorenzi, giunti dalla città oramai in assedio, la novella avvicina realtà lontanissime, il paese e la città. La famiglia ospitante, di cui significativamente non si legge il cognome, esibisce un’accoglienza di genuina e deferente spontaneità, in coerenza con un valore antropologico forte nella civiltà contadina; la famiglia Lorenzi, pur collocata socialmente in un condizione di maggiore benessere, porta le ambasce delle “disgrazie” e della “fame” imperversanti nella città. La contrapposizione tra città e campagna – che di lì a qualche anno, nel 1950, Scotellaro tratterà nella poesia Passaggio alla città (versi che scandiscono i momenti più delicati e difficili della vita di Rocco, che ha appena patito da innocente la grave ingiustizia della galera, si dimette da sindaco -un evento su cui è stato steso un velo retorico per nascondere la verità – restando fedelmente nel consiglio comunale fino al suo regolare scioglimento, lasciando Tricarico senza una prospettiva, una sicurezza di vita. Cercava una sistemazione tra Torino, Roma e Napoli, e infine si fermò a Portici, dove morì tre anni dopo).
La contrapposizione tra città e campagna si risolve con netto vantaggio della libertà della vita contadina e paesana sulla tirannide delle corse dei tram e del tempo che fugge rapido, si realizza nella morale esplicitata in chiusura del testo “Ed anche i ricchi sono poverelli”.
Allogato presso la famiglia contadina c’è anche un altro “gran signore”, il commendatore Franceschi, che la guerra e l’abbandono della città per il paese renderanno “umano” e finalmente “molto buono”, poiché la vita contadina è intrisa di fratellanza e cordialità ed è perciò migliore di quella cittadina. Franceschi, con tono serioso e pretesa di attenzione, parla del “mistero dell’umanità tutta buona” che si realizza solo tra cosiddetta “povera gente”, che lavora il pane con le proprie mani dalla mattina alla sera.
Tra il figlio del contadino, Peppino, e la figlia dei Lorenzi, Franca, nasce l’amore. I due ragazzini, per l’intraprendenza di Franca, si scambiano un bacio.

2. Ed anche i ricchi.

Il treno si fermò piano alla piccola stazione e quasi non dette il tempo a scendere che riprese la sua corsa tra le gole dei monti. Un misero pezzo di cielo chiude l’orizzonte e per le montagne qualche contadino arava col mulo. La famiglia Lorenzi era sbalordita. Il giovane Giorgio non curò di stringere il nodo alla cravatta e porse il braccio alle due sorelle. Il babbo e la mamma restarono lì davanti alla stazione con le valigie ai piedi e guardavano estatici. Nessun facchino veniva a chiedere di portare le valigie, il personale tutto era scomparso, solo un ragazzo in cenci e con la faccia sporca, seduto ai sassi d”una piccola aiuola, masticava un gran pezzo di pane, vorace. Il babbo gli picchiò dietro la schiena, il ragazzo incartò il pane, lo intascò e fece da battistrada per la ripida salita che portava al paese. La famiglia procedeva silenziosa: lo sguardo di tutti fisso alle calcagne indurite e spaccate del garzoncello. Scendevano rari uomini, scamiciati, sudati con le zappe a spalle. Alle prime case il babbo si provò a domandare se avessero trovato un albergo. Il ragazzo rispose: – Ci sono già molti di quelli cosi detti sfollati e tutti son contenti di dormire sui pagliericci come noi. D’altronde l’albergo era una casetta come le altre. Proseguì che a casa sua c’era perfino un gran signore. Il tono della sua voce era allegro. Chiese il permesso di riposarsi, scartocciò il suo pane e lo offerse al giovane. – Senza complimenti, faceva, noi del meridione siamo gente rozza. ma di cuore buono, sapete. Si riaddossò le valigie e andò avanti. S’era già in paese e il babbo domandò: – E l’albergo? – Per di qua, signore, ancora un poco e siamo arrivati.
Un altro ragazzo corse e l’aiutò.
Una donna era sulla porta ad attendere: si stropicciò le mani e s’inchinava e diceva: -Senza complimenti, signori. Il ragazzo prese delle sedie e disse: -Questa è casa vostra. Poi rivolgendosi alla donna: -Mamma, di loro che qui da noi c’è un gran signore.-
Le sorelle si guardavano imbarazzate e raccogliendo le vesti si sedettero. Tutti si sedettero su sedie impagliate, davanti al focolare dov’era una bellissima fiamma.
Non passò molto che si accese una fervida conversazione; tutti si scambiarono sguardi di simpatia e il babbo continuava a dire: -Che bravo ragazzo il vostro Peppino!
Peppino si chiamava il ragazzo.
Il Signore scese la scala di legno: veniva dalla sua stanzetta di sopra, severo e pensoso all’aspetto. Con i nuovi arrivati fu molto cordiale; chiese e rispose, ad un tratto si finì di parlare, ché arrivava il padrone di casa, contadino. Di nuovo la conversazione s’accese, ma il signore ad un tratto parve distratto e seccato, manifestò il desiderio di parlare di cose molto serie, esigeva che tutti lo stessero n sentire: – A me piace questa vita, signori, incominciò, dove la fratellanza mi commuove e la cordialità con questa povera gente. In città io ero il Commendator Franceschi, tutto preso nei miei affari e non degnavo d`uno sguardo gl’inservienti e la portinaia. Un mondo come questo, della cosiddetta povera gente, che si lavora il pane con le proprie mani dalla mattina alla sera, m’era ignoto ed io quasi ostinato a comprenderlo. Ecco cosa ha fatto la guerra per me: mi ha reso umano e molto buono. –
Era evidentemente commosso e il contadino calmo sorrise: -È venuto in campagna a lavorare il… il …Commendatore. Sbiascicò la parola, che l’altro lo fulminò benevolmente con lo sguardo.
Si fece molto silenzio. Nella semioscurità di quella casa, dove soltanto la fiamma giocava la sua luce sulle facce, sembrava avvenuto un mistero. -Il mistero dell’umanità tutta buona- disse Franceschi. Poi si mangiò. Il contadino portò biada al mulo, alla mangiatoia sotto un arco della casa. Poi i ragazzi cominciarono a giocare con le mani, la figlia del nuovo signore, la più piccola quattordicenne, pregò Peppino di accompagnarla alla stanzetta di sopra.
Il ragazzo accese una lampadina e dette alcuni schiarimenti. Nella stanza di sopra, lei si appoggiò alla finestra, chiamò a sé Peppino.
– Sai, disse, mi chiamo Franca. –
-Bel nome, fece l’altro sorridente.
La ragazza gli fissò gl’ispidi riccioli biondi, lo trasse a sé e gli dette istintivamente un bacio: -Ti voglio bene-
-Sei bella! disse Peppino.
Suonava la campana del paese, Franceschi chiudeva le sue argomentazioni: -Ed anche i ricchi sono poverelli -ripeté più volte con enfasi, come se si trattasse d’un verso antico e bello; e Franca additava le sue labbra al ragazzo: – Qui, qui mi devi baciare.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.