Infanzia – terzo dei dieci racconti inediti e rari – è pervenuto inedito in una sola redazione estesa su quattro facciate di un foglio protocollo e su recto e verso di un foglio di taccuino di formato grande a quadretti, utilizzato per alcune integrazioni da inserire nel corpo del racconto. Il testo è datato “Tricarico / ‘Agosto ‘43” al margine alto sinistro della prima facciata del foglio protocollo e “12 agosto” nel margine basso a destra dell’ultima facciata dello stesso foglio. Il racconto è firmato a penna, subito dopo il titolo, in prima pagina, “Rocchenzo Scotellaro” , e sempre a penna “R. Scotellaro” in ultima pagina.
Protagonisti sono lo stesso Scotellaro e suo cugino, Nicola, sarto, che va individuato nel cugino Nicola Lavista. Il racconto assembla lontani ricordi, attingendo al condiviso repertorio di affabulazioni che il paese sempre custodisce: [o]gni angolo è una storia, ogni porta è una casa, una famiglia, la vita. Entrambi adulti rivivono in poche ore l’incanto e la spensieratezza dei giochi dell’infanzia e delle passeggiate in campagna.
Una mattinata di giochi, una mattinata non tutta trascorsa: “tremano le foglie rabbrividendo alla brezza, sotto il sole che s’è già sporto sulla montagna. Nicola fa il sarto. Io sono uno studente che legge le dispense”.

P.S. Al periodo “Non dirmi sciocchezze, tu il mare a Napoli non li hai mai visti come me” ho sostituito la a con una e.

3. Infanzia

Il paese la mattina pare lavato. Tutto è fresco, dove galli impettiti e le galline dolcemente orgogliose sono i soli viandanti e spadroneggiano.

Ogni angolo è una storia, ogni porta una casa, una famiglia, la vita.

Io dico immantinente a mio cugino: “La mattina basterebbe passeggiare per sentirsi felice”. Come glielo dico e come lui mi guarda e pare assorto, si capisce che si sente felice. Poi apre anche lui la bocca, attivando la mia attenzione al solo fatto che apra la bocca, dice che sarebbe ottimo andarsene in campagna.

Appena arrivati a fare il giro per tutte le piante di fichi cantando, come fa il giro del paese la banda quando vien festa.

Quindi, fucili di canna ad armacollo, uccidere qualche lucertola e seppellirla con gli onori dovuti in un camposanto squadrato di piccole croci, dove riposano pure cavallette e scarafaggi e persino in lungo quant’è un serpente.

Ma è ora di dar fuoco al camino e di cucinarci una colazione: due pezzi di pane, due uova, tre pomodori e tre peperoni, mezza cipolla, sale olio e conserva; la legna, il trepiedi e la padella. Niente manca; manca solo un fiammifero ché quel preparato si metta in funzione. Si blocca, ad intervalli di ricambio tra me e il cugino, la rotabile.

-Avete un fiammifero, compare?

Qualcuno dorme, che risponde: Non lo so. Fruga nelle tasche, dice che ancora non lo sa.

Il mulo con uno strappo me lo fa passare innanzi.

Francesco ha detto che lui non dà fiammiferi a ragazzi che o fumano 0 commettono mala azione o incendiano ed imparano ad odiare l”umanità.

-Un fiammifero? Si vendono al tabacchino!

Quest’altro ci porta in giro.

La risoluzione migliore: salire sull’albero armati di sassi e intimare la resa d’un fiammifero.

Tutto s’incendiò e divenne caldo e succulento. Oltre a tutto ciò che stava in padella, parevano da mangiarsi persino i bei carboni accesi.

Ma, non ci pensiamo, bevemmo anche il vino al fiaschetto di legno e, scamiciati, con la zappetta sulle spalle, accettavamo la vita del contadino, tranquilla e che dà poesia.

-Ci sono tante cose da fare! – Io dissi a mio cugino Nicola.

Possiamo fare quel che vogliamo ed essere chi ci piace!

-Già è vero- rispose mio cugino Nicola.

E ci demmo a tutti gli affari che potevamo comprendere.

Uno di noi rimaneva nella casetta e l’altro viaggiava a cavallo ad una canna per le provincie e i paesi.

Più piacevole era fare le due corse giornaliere della corriera e trovare all’arrivo il pasto imbandito di qualche vecchia noce e d’una mandorla ancora fresca e raccontare che si faceva. . .da quelle parti, dove si acquistano i medicinali per chi aveva la malaria o la tosse tremenda, si comprava la frutta in fichi e limoni.

-Oh, si-. Da quelle parti la vita è facile, c’è tutto, ci si diverte fino a gonfiarsi il petto: quelle strade affollate, i negozi luccicanti sono a guardarli … i carabinieri che non fanno paura proprio niente. . . Una ragazza sola col ragazzo. . .I signori con le signore al caffè. . .

Il bidello preso in giro che non dà bastonate. _ .I poveretti agli angoli, che, almeno loro se cacci due soldi sulla mano ti vendono i canzonieri e suonano la fisarmonica E tante cose e tante. Questo però non si diceva.

Mio cugino: «Che si fa da quelle parti? _

Ed io: -Dio santo, compare, il pesce è salito a cinque lire.

Ed apparivamo preoccupati, poi contenti in cuor nostro.

-Da quelle parti ci sono già le pesche grosse tanto.

– E quando arrivano qua?

-C”è tempo ancora. -E di là ci sono?

-E come! Se l’ho detto, grosse tanto.

-Uh! In paese non arriva prima mai niente. -E così.

-Eppure la terra ce la zappiamo sudando. Queste maledette montagne le tagliamo a pezzi per rendercele fertili, ah! Volevo riprendere la zappetta e fingermi lì per lì contadino che suda, tagliare le siepi per coltivare il greppo della rotabile.

-Portano le more, sciocco, queste siepi.

-Essi, ma quando?

Dopo tutto, a metà di agosto, contadini ci eravamo già stati e mio cugino non rinunziava a prendere servizio come autista della corriera al mio posto. Andava a Napoli:

-Eh? Che ci vediamo tra quattro giorni! –

-E bon viaggio. Ti raccomando le forme delle scarpe che qui non ci sono numero 27 e numero 28 da uomo sennò come faccio a lavorare?

-Allora fai il calzolaio, adesso? M’interruppe Nicola interrogando con meraviglia. Volevo scompormi, ma rovinavo tutto il gioco e l’incanto.

-Bisognerà che m’arrabbatti, compare, la vita è cara come la moglie, i figli. . . e sai bene che nel nostro paese si fa contemporaneamente il calzolaio e il barbiere per sabato e domenica, il muratore quando c’è da fabbricare, il contadino se c`è da zappare, il falegname se c’è da segare e mettere chiodi, come si fa benissimo l’elettricista quando per avventura si fulmina una valvola e ti suonano alla porta di notte come se fossi una levatrice.

-Ti lascio col tuo Dio! – Mio cugino metteva in moto la canna facendo rumori a scoppi con la bocca e salutava.

-Fatti buon viaggio e statti buono, gli gridavo.

Subito con una pietra battevo sui ginocchi una foglia come il calzolaio la pezza di suola.

Passarono quattro giorni nella nostra fantasia, in qualche ora. Venne il sabato e passò anche la domenica: mi finsi in camice bianco a sfoltire la barba ai pastori che venivano di campagna per l’appunto.

ll lunedì feci tutti gli altri mestieri ed aspettavo all”indomani l”arrivo di mio cugino Nicola.

Era alto il sole, sempre allo stesso posto, ed io sollevando lo sguardo, vissi quattro aurore e quattro tramonti e mi sentivo il corpo vuoto e l’anima che uscì fuori tutta a librarsi nell`aria pura. `

Bastava solo pensare ad un qualsiasi modo di vita che questo subito entrava nell`animo. Essere tante cose! Ci stavo rifettendo quando a cento passi dalla casetta Nicola attacca a rumoreggiare.

M’affacciai a guardare il rumore, come se venisse veramente da lontano, si sentisse alle curve, rintuonasse di nuovo sbucando e la stessa canna sollevava la polvere come i grossi furgoni sulle rotabili.

Erano passati quattro giorni. Napoli era bella.

-Il mare! Di là c’è il mare! Guardava Nicola.

-Il mare?

– Si, un pozzo che non finisce mai, arriva fino sotto il cielo.

– Il mare?

-Sì, sì. Non capisci, tutto azzurro, tutto azzurro. Come il cielo, ti dico, proprio come il cielo. ‘

-Azzurro come le foglie delle viti, eh?

-Macché viti, come il cielo.

-Non dirmi sciocchezze, tu il mare e Napoli non li hai mai visti come me. Ci metti un’ora per pensare che il mare è come il cielo, ma chissà?

Ah, ecco lo hai letto sul libro, non dirmi sciocchezze, smettila. Incredibile davvero, Startene un’ora dietro la siepe a pensare al mare e a bearti.

Mio cugino ancora non si snebbiava.

-Eppure ho passeggiato per le strade ampie di Napoli e al lato c era il mare.

Tacemmo. In quei minuti mi fisi il mare anch’io azzurro si, come il cielo.

Approntammo tutto per farci il pranzo. Cogliemmo i fioroni per frutta.
Mangiammo la pasta con serietà. Come 1 contadini che pensano un poco, prima .di piegarsi per l’altro boccone. Tutto il pomeriggio dormimmo. Sulla rotabile correvano le automobili. Per i sentieri si arrampicavano i muli. Verso la sera zio § venne a trovarci. Veniva col vero fucile e coi cani.

Faceva notte ed era l`ora buona per la posta di caccia nel vallone. Noi lo zio ci lasciò alla casetta raccomandandosi. Restammo con una candela accesa a raccontare i fatterelli e a giocare alle cartine “Stella”. Non aprivamo la porta per non vedere tutto nero.

Si sussultava se una canna si muoveva.

Sulla rotabile passava ancora qualcuno.

Ci pareva un triste sogno ascoltare quei rumori.

Poi un’automobile doveva avere i fari accesi. Doveva aver illuminato per un ‘ attimo la campagna.

Lo zio chissà quando veniva. Si aveva sonno. Nicola si addormentava, io lo scuotevo.

Tutto ciò mio cugino mi ha fatto questa mattina ricordare. Ci siamo raccontato tutto di quei tempi.

-È l’infanzia! Ha detto mio cugino. -Un`ora sola d’infanzia ci risana, ti senti bene?

– E come no! gli rispondo.

La mattina non è tutta trascorsa: tremano le foglie rabbrividendo alla brezza, sotto il sole che s’è già sporto sulla montagna.

Nicola va a lavorare, fa il sarto.

Io sono uno studente che legge le dispense.

 

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