Presento il quinto dei racconti inediti e rari di Rocco Scotellaro – l’inedito Il Coprifuoco – col commento della prof. Giulia Dell’Aquila riportato alle pagg. 759-760 della rivista Forum Italicum, vol. 50, Issue 2, 2016
«Quanto mai opportuno è richiamare per Il coprifuoco la cronologia scotellariana condivisa dagli studiosi, in base alla quale gli anni tra il ’42 e il ’44 sono quelli in cui lo scrittore riflette intensamente sulla condizione dei giovani, per poi orientarsi tra la seconda metà del decennio e fino alla morte verso temi di più marcato realismo, pur nel persistente “timbro esistenziale” (Vitelli, 2004: 339). Il racconto è attestato da un’unica redazione dattiloscritta, composta da due fogli di cui uno scritto su recto e verso, per un totale di tre con numerazione; la data è dattiloscritta in calce al testo, alla fine della terza facciata: “(1944)”. Il testo, che è suddiviso in tre paragrafi attraverso sequenze di segni grafici, ha il sottotitolo “prosa di ROCCO SCOTELLARO”, dattiloscritto sul recto della prima pagina subito di sotto al titolo; l’autore appone la firma dattiloscritta “Rocco Scotellaro” a fine testo, di sotto alla data. Nella sua consistenza di prosa meditativa piuttosto che di racconto vero e proprio. Il Coprifuoco è chiara testimonianza dei tentativi dello scrittore di raggiungere una dimensione di realismo, tuttavia con ritorni e deviazioni verso il simbolismo.
Lo stesso incipit (“Non mi rassegno più”) introduce subito il lettore in una dimensione militante della coscienza che fa osservare al giovane autore la fissità della vita del paese ~ i suoi ritmi lenti e le sue invariate usanze – con una rinnovata speranza nel possibile cambiamento, nell’abbandono da parte degli “uomini estatici” del loro atteggiamento meramente contemplativo. L’andamento sintattico del primo paragrafo, nel quale il discorso principia germinando dall’ultima parola della frase precedente, sembra alludere a un rigido meccanismo determinista e ordinatore, che tuttavia nella chiusa del testo cede a una più positiva intonazione di fiducia (“E poi ecco: sulla soglia del mio balcone, in un vaso frantumato c’è un pugno di terreno grasso. Nel terreno grasso c’è una tenera radice. E io ho fede che domani il fiore dell’edera, fatigato dal sole, crescerà per un’altra sera”). Una condizione di solitudine estrema accomuna ogni forma vivente e oggettuale: “donne”, “mariti”, “sedie”, “bimbi”, “rondini” e “pipistrelli”, in un paesaggio che, descritto inizialmente in termini realistici, si presta pur nella sua vitalità ad essere trasfigurato in icone di morte. Tornano i simboli di quella poetica degli “ossi’ già così impressa nelle pagine di Uno si distrae al bivio (Paternostro, 2013: 15~l 6), “in cui gli interrogativi su di sé e sul mondo” si tramutano “in ossi, in cavalli, in simboli onirici strani, in morbose curiosità infantili” (Lamba, 1978: 10).
Un paysage de souffrance in cui la natura fa mostra delle sue insegne di ostilità e che si risolve in una sinistra teoria di emblemi apocalittici: “Dunque gli uomini? Saranno morti tutti”, e poi case “distrutte dal fuoco”, “mucchi di paglia dopo la trebbia”, “ceneri dei fuochi votivi”, “girandole nude dopo l’efflorescenza di pochi minuti”, “le ossa robuste e le mascelle delle carogne”, “l’albero lacerato dalla tempesta”, “le viti spampanate”, “le rose affrante”, “la brulla montagna e il carro delle immondizie”, “i rottami del mondo in questo scuro”.
Se la vista compila questo tetro regesto, l’udito analogamente acquisisce “il frastuono e la quiete della materia”, secondo lo stesso modulo anaforico (“ho visto. . .” “ho visto. . .”, “ho visto. . .”, ecc.; “ho sentito. . .”, “ho sentito. . .”, “ho sentito. _ .”, ecc.) che è invero quello che determina il ritmo dell’intera prosa, cadenzata su riprese continue a significazione della martellante riflessione dell’autore. È un giovane in conflitto con il suo mondo, quello che scrive; lo stesso che a Tricarico, sempre nel ”44, scrive la poesia Vento fila, con analogia di accenti:

A me questa notte
non darà pace:
sono stato scontroso con gli uomini,
sono giù di morale,
il cuore mulinato da rimorsi.
La lampada spesso si smorza.
Fiocca nei vicoli sugli stracci,
la campagna sola.
Vento fila nei baratri
delle lunghe stradette.
Giù nella Rabata,
chiuse le stentate
porte dei sottani,
e non verranno.
Non verrano i compagni
sotto alla finestra
a suonarmi la canzone di rampogna
questa notte/violenta di Carnevale (Scotellaro, 2004: 193).

Ma soprattutto è da rinvenire una straordinaria coincidenza tra il paesaggio del Coprifuoco e la poesia Approdo, datata “Tivoli, 3 giugno 1942”. Qui, la fragilità dell”esistenza umana è scossa da un vento che è l”unica sicurezza in un orizzonte mobile di morte:

Certo è il vento: non ti fa dormire
percotendo le vetrate che ti fa spaurire.
Misero fuscello
nella bufera dei soffi ventosi
la casa sradicata
e in una corsa folle
verso là dove si placano i venti,
e dune di cenere umana
con rottami di ossa sconvolti
verso là dove placano i venti
su boscaglie di quercie cadute.
È il vento (Scotellaro, 2004; 160).

INDICE DEI PASSI CITATI
Lamba = Lamba I (1978) Il mito nei racconti inediti di Rocco Scotellaro, Hyria, anno VI, n. 2, giugno, pp. 9-12
Paternostro 2013 = Paternostro R (2013) La poetica degli ossi di Rocco Scotellaro, ovvero uno degli elementi costitutivi del processo di destrutturazione e strutturazione della cultura italiana del tredicennio 1945-1958. In: Scotelaro R. Uno si distrae al bivio (saggio critico a cura di Rocco Paternostro). Roma: Lithos Editrice: pp. 7-41
Scotellaro 2004 = Scotellaro R. (2004) Tutte le poesie. 1940-1953 (a cura di Franco Vitelli, con Introduzione di Cuchi). Milano: Mondadori: pp. 5-20
Vitelli 2004 = Postfazione. In: Scotellaro R. Tutte le poesie cit. pp. 333-354.

5. Il coprifuoco

Non mi rassegno più.
La strada ha ancora il suono di pochi zoccoli ancora randagi. È spartita in due zone di sole e di ombra. L’ombra invade fino a raggiungere il marciapiedi e poi la base d`un muro. Il muro sarà scavalcato tra non molto dall’ombra. Il fruttivendolo ha sloggiato il suo posteggio. Il posteggio è sporco di carte. Le carte mulinano se passa l’autocarro. Un autocarro senza più fragore. Io non mi rassegno; vedo:: le cose si mettono a posto. È strano, è miracoloso, fa paura che le cose si mettano a posto.
Quattro donne, sbucate dagli antri a pian terreno, dispongono quattro sedie e si accomodano di fianco. Non hanno di che parlare, guardano. Guardano a pochi passi da loro. Dagli altri sottani vengono all’uscio altre donne. Come le prime quattro guardano solo. Qualcuna ha in grembo un lavoro, ma guarda. La strada ai due lati si allunga tra due cortei di donne. Su in alto bianche nuvole e i fili della tramvia lunghissimi da un capo all’altro. lo non mi do pace.
I mariti ritorneranno, dico, e sarà almeno un empito di gioia. Ma le donne non attendono. Eppure i mariti vengono, però alla spicciolata. Essi sono stracchi e laceri. Il loro ritorno non turba la compostezza dell’ora, la fissità della strada.
Ma proprio! Succede che i mariti prendano anch’essi una sedia per uno e si accomodano di fianco e guardano a pochi passi da loro.
C’è di nuovo qualcosa: i bimbi. Il loro però è un altro mondo davvero. E c’è che le donne e i mariti non li sentono baiare e quelli poi fanno un regno tutto loro e inaccessibile e fuori dei propri confini non conoscono altro. Così le rondini tra loro, quelle poche che sono rimaste. Così il pipistrello, ma è tutto solo e non ha buchi d’approdo al suo andirivieni. Si abbassa fin sui ciottoli. Ma non vi son buchi.
Certo tutto questo muoversi è qualcosa. Sì ma non ci vuol molto a capire che il tramonto è in atto. E subito (io ho visto una decina di volte a teatro il sipario calare) – subito né donne, né mariti, né sedie, né bimbi, né le poche rondini rimaste, ne il solo pipistrello.
È stata una giornata disastrosa nel mondo la nostra giornata del fuoco. Il fuoco, quando appiccava i camini alti delle case sul finire d’inverno la sera, pareva una lumera funesta inalberata sul paese, e i ragazzi gioivano e le donne gettavano barili d`acqua sui tizzi.
Il fuoco, quand’era San Pancrazio a maggio, bruciava cataste votive di legna nei vicoli e negli spiazzi e vi era il giovinotto che saltava la fiamma a gambe nude e attorno miravano le facce rosse dei cafoni.
Il fuoco, quando si ardevano le stoppie, lo spingeva il vento tardo di agosto, faceva nere le campagne.
Il fuoco, la notte della Madonna del Carmine a settembre, erompeva dalla terra alle stelle e le trombe delle bande suonavano.
Io non conosco altro fuoco che questo. Ma quello della giornata che dico è altro: il fuoco che nessuno sa veramente e tutti temono, che fa schianto e rade la terra e l’uomo non s’affaccia a vedere.
Non c’è più nessuno sulla strada. La strada è tutt’uno col cielo che è nero. Forse è una notte di veglia. La notte di veglia così si apparecchia quando uno è morto. Davanti casa sua non passa più la gente. Nella casa del morto non s’odono singulti. I parenti sanno guardare in faccia al morto senza fremiti più.
Dunque gli uomini? Saranno morti tutti. Le loro case sono distrutte dal fuoco. Io ho visto i mucchi di paglia dopo la trebbia, ho visto le ceneri dei fuochi votivi, ho visto le girandole nude dopo l’efflorescenza di pochi minuti, ho visto nei sentieri le ossa robuste e le mascelle delle carogne, ho visto l’albero lacerato dalla tempesta, le viti spampanate, le rose affrante, ho visto la brulla montagna e il carro delle immondizie l’ho visto ogni mattina girare per le vie al suono d’una sorda campana.
Vedo i rottami del mondo in questo scuro.
Sento convogliare il vento i rottami del mondo verso montagne di cenere, verso boscaglie di querce cadute. Non spero. So che i morti non risorgono più. So che una fossa – dovunque sia – può loro bastare e so che non affollano le loro abitazioni, non abbracciano muri per il folle desiderio di farsi ricordare.
Questo è il gran che: io so che la materia fa alte grida nel suo contorcimento, perché deve assestarsi.
Assestarsi. Ed io ho sentito la frana e le nevi sciolte, il verso del torrente pieno, la marea, il fulmine, il tuono.
E mi son sentito il volto schiaffeggiato farsi delle pieghe.
E ho sentito anche gli urli delle partorienti. Dunque il frastuono o la quiete della materia mi trova pronto.
Dunque debbo rassegnarmi se gli uomini sono estatici e pare che non attendano nulla. Debbo darmi pace se non c’è subito gioia. E non mi deve far spavento addormentarmi nel mondo lasciato solo, come quando la prima volta fu creato.
Può distruggere solo chi ha creato, se ce n’è mai stato uno a creare, mi son detto.
Sotto tutta la nostra maceria c’è un carbone acceso, che la cenere stessa tiene in custodia.
E poi ecco: sulla soglia del mio balcone, in un vaso frantumato c’è un pugno di terreno grasso. Nel terreno grasso c’è una tenera radice.
E io ho fede che domani il fiore dell’edera, fatigato dal sole, crescerà per un’altra sera.

 

2 Responses to Rocco Scotellaro, Il Coprifuoco

  1. Rachele ha detto:

    Non so se è a conoscenza della mostra “È fatto giorno”, in corso presso la Certosa di San Lorenzo in Padula, su opere di Luigi Guerricchio abbinate a poesie di Rocco Scotellaro da ascoltare tramite QR-Code. Molto interessante, so che le farà piacere. Sì, bisogna parlarne! Peccato che a scuola ormai si sorvoli su autori di tale importanza. Io l’ho sempre amato ma in questi giorni me ne sto ubriacando,grazie agli organizzatori della mostra e, ora, anche a lei.
    Cordiali saluti.
    Rachele Ubaldo

    • antonio-martino ha detto:

      Grazie dell’informazione. Manco dal Sud da circa sessant’anni e tra alcuni giorni si concluderà il mio 88.mo anno di vita, che crea una certa incompatibilità col digital. Grazie a lei ho pubblicato un avviso dell’evento.

      Cordiali saluti

      Antonio Martino

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.