RoccoScotellaro: 6. Un cigno canta in ottobre? …
Il sesto dei racconti rari di Rocco Scotellaro è intitolato Un cigno canta in ottobre? … Secondo la prof. Giulia Dell’Aquila, curatrice della pubblicazione dei racconti rari o inediti di Rocco Scotellaro e dei relativi commenti sulla più volte citata speciale edizione della rivista Forum Italicum (pp. 761 – 763; 782 – 784), questo racconto fu probabilmente scritto tra il ’46 e il ’48. Ritengo che Rocco Scotellaro si sia impegnato in questi due anni, sebbene a intervalli, nella scrittura di questo racconto, certamente ispirato a una tragedia, avvenuta il 3 ottobre 1946, causata dalle esalazioni di acido etilico per la fermentazione del mosto. Perse la vita un giovane padre di famiglia, che lasciava cinque figli ( la minore, Teresa, aveva due anni). Avvertito mentre era intento ad eseguire lavori domestici, dell’imprudenza di un giovanissimo fratello, che si era recato con amici in una vicina cantina, dove fermentava il mosto, senza alcuna protezione, accorse immediatamente per soccorrerlo, ma fu l’unico, per una serie di disgraziate circostanze, che perse la vita. La tragedia provocò una forte emozione nel paese. La madre di Rocco Scotellaro riferì alla vedova che Rocco, molto scosso, stava scrivendo una “poesia”, riferendosi probabilmente a questo racconto, di cui il figlio evidentemente le parlava.
Nel titolo del racconto, il cigno, simbolo di purezza, innocenza, saggezza e solitudine, viene assunto come simbolo di morte, che pure simboleggia. Secondo la leggenda il cigno resterebbe muto per tutta la vita e in punto di morte troverebbe la voce e canterebbe una struggente e bellissima canzone. Il racconto col titolo innanzi citato è pubblicato nella rivista Il Sud letterario e, come attesta la curatrice, ci perviene anche attraverso due più ampie redazioni dattiloscritte, col diverso titolo Il cigno di ottobre.
È stato scelto di pubblicare la versione pubblicata su Il Sud letterario, ritenuta più vicina all’ultima volontà dell’autore. Ciò che differenzia le due versioni più ampie da quella pubblicata è un pezzo probabilmente espunto, ad avviso della professoressa, per la sua natura saggistico-riflessiva piuttosto che narrativa. La motivazione non mi convince, perché il pezzo espunto (o aggiunto?) narra l’evento motivante il racconto ed è parte della struttura narrativa di un brillante testo, vero elzeviro, come lo ritiene Vitelli:
È una necessità vedersi col compare e discutere la bevuta al cannello a forza di punti alla morra, perché l’aratro stanca e lo scasso fa scoppiare in corpo, perché la tina da rivoltare dà alla testa e l’afa – il profumo di tutti grappoli ribollenti . procura lo svenimento e la morte. Bisogna dimenticarsi qualche momento, se per tutti i momenti della vita si è soli e dimenticati dai propri simili. Soltanto la morte ci svela agli altri. La morte fermenta giorno per giorno, dalla mattina ala sera: il suono a martello delle campane può rintoccare all’alba d’un giorno con la neve o coi fiori bianchi del mandorlo o con lo stridore delle rondini nel pieno della calura.
A meno che non si voglia pensare che Scotellaro abbia prima pubblicato il racconto come risulta da rivista (mancherebbe in questo caso un dattiloscritto o manoscritto) e lo abbia poi rivisto e ampliato: in questo caso i dattiloscritti più ampi sarebbero da intendere come materiale di lavoro per un testo da includere eventualmente in un volume di racconti cui forse Scotellaro ha pensato. Ma a oggi non c’è conferma. Non va dimenticato, del resto – osserva la prof. Dell’Aquila -, che lo stesso Scotellaro è sempre stato consapevole della limitatezza del raggio di circolazione delle riviste e della opportunità di raccogliere i suoi racconti in volume. Ma bisognerebbe anche considerare che la tragedia colpì tanto la sensibilità dei tricaricesi, e l’animo poetico di Scotellaro in particolare, che egli si impegnava ad adeguare sempre più il testo ai suoi sentimenti. La morte del contadino (la tragedia dei fratelli uccisi dalle esalazioni del mosto) osserva giustamente la prof. Dell’Aquila, assurge a simbolo di una condizione umana universalmente disperante e illusoria, come sta a suggerire un appunto manoscritto sul verso dell’ultima pagina di una delle due redazioni, una citazione tratta dal libro dell’Ecclesiaste: “Osservai quel che si fa sotto il sole e vidi che tutto è vanità e afflizione di spirito (I,14).
6. Un cigno canta in ottobre? …
Il principio d’un avvenimento, come l’inizio d’una stagione, sono altrettanto notturni quanto lo sboccio d’un garofano nei vasi grassi delle finestre. Un momento ti trovi di fronte a fenomeni che credi siano indizi, ma sono già il fatto, il tempo, la stagione, il garofano sbocciato.
La donna stamane – cielo incerto e vento alto – ha sporcato il semicerchio del camino di canne e foglie secche; ha dissotterrato i lari della cenere del camino, vi ha imposto un mezzo tronco e il fuoco ò ritornato nella casa, nella mia, in quella di tutti, d’un tratto.
Non si spegnerà che un giorno inavvertito di marzo, di aprile o di maggio. Sarà il segno sul volto ingentilito dei cafoni, il segno sulle gambe deturpate delle femmine.
Così un pomeriggio.
Il passeggio diradava. Spolverato dalle strade quel letto di paglia che l’estate va ammassando durante i viaggi della trebbiatura e la provvista delle stalle. E l’estate, il tempo delle donne ferme agli usci a spidocchiarsi, d’un tratto può mancare.
Bene, un pomeriggio così, il sole gioca a moscacieca coi muri che annebbiano, un asino affardellato del tino, dei barili, del pestauve, dei cesti; un corteo di ragazze con
coltelli aperti alle mani, un uomo che sta alla cavezza smesso l’occhio feroce dello zappatore: tutto questo, un pomeriggio che ti colga fuori d’una delle porte del paese,
dice della festa dionisiaca di ottobre che incomincia, vendemmia e vino imbottato.
Un imbrunire avrà la forgia cessato il suo ronzio nelle fumose “ferrarie” che subito in cantina cominceranno i denti del torchio a riempire le botti del loro
ritmo lesto, poi lento e faticoso.
Gli uomini s’imbratteranno a delizia il corpo del primo vino e berranno nelle profonde “galette” mettendovi la testa dentro. I falegnami hanno lavoro da peregrini. Chiamati da grotta a grotta, da cantina a cantina, a stringere le botti.
I cafoni entrano con tutte le scarpe nelle botti a compiere lavaggi.
Sui muli si trasportano barili e tini schiumosi.
Sulle strade depositi di vinaccia e acqua color vino che s’incanala.
Sulla vinaccia arriverà a nevicare e allora il vino nuovo non morderà lo stomaco, non gonfierà il ventre, ne pungerà la pelle.
Avvolti nel fumo delle case, orciuolo colmo a mano destra, la neve sui tetti e i fili elettrici, quattro fave in pentola a bollire, allora si dirà che l’autunno è passato.
Qui la vita non ti dimena che rarissime occasioni nel suo giro forsennato. Del resto essa è quale una barca che si dondola e cammina sul respiro del mare.
Monotona non si direbbe la vita di migliaia di anime in un paese sulla montagna, circondata da campi degradanti con l’orizzonte di altre montagne, ma fatidica.
Le lucerne dei campagnoli precorrono l’aurora: le tenebre e il silenzio rotti dagli scarponi che battono le strade avanti giorno.
Le lucerne dei campagnoli sono le prime stelle ad apparire sulla montagna: un viaggio di andata e di ritorno dal paese alla campagna, dalla campagna al paese.
Aria di terra che si respira col groppone curvato e la zappa che si sospende al cielo.
Visto un contadino così, in uno spazio limitato di terreno dove due pietre possono segnare il luogo adatto per prendere boccone in due soste, una alle nove, una alle
quattordici; solitario, a colloquio con le zolle, con l’asma nel petto ad ogni banco di terra che si dissoda, l’orecchio pronto alla lucertola che striscia nell’erba, al pigolare
del topo dissotterrato; un contadino che pensa ai problemi di casa mentre zappa, e in casa pensa al suo pezzo di terra da lavorare, alle frasche da raccogliere, all’asino da
governare di biada; un contadino dalle brache di velluto unte di sudore, dalla coppola foracchiata e grassa, che mangia pane e cipolla, seduto per terra; che mangia pane e cipolla, seduto per terra, chew dorme sul letto di fogòie di granoturco, alto fino alla volta affumicata; che vive di disgrazie quotidiane; lavoro e figli laceri e mocciosi; fame e malattia; egli può anche un giorno morire senza rimpianto, un contadino così.
Pensa al suo avvenire sempre lontano il contadino in ottobre con la nuvola attesa sulla montagna, ora che il problema è calzarsi e vestirsi, approntare seme, calcolare il grano bastevole fino a marzo, aprile, maggio, giugno, i mesi duri.
Ottobre è il mese che chiude l’annata con la vendemmia e fa il rendiconto delle scarpe rotte, dei medicinali comprati, delle scarpe e dei medicinali ancora da comprare.
La sera che cade più presto porta una estetica amarezza, che solo una felicità procurata può allontanare.
Le cantine si affollano, le case sono cenacoli di gente che vuol discutere e bere.
L’altro giorno è morto un contadino asfissiato nella tina dove rivoltava la vinaccia impregnata di mosto.
Da una finestra bassa, accesa per tutta la notte, è fuggito lo spirito del contadino morto sulla collina dei cipressi, dove si nascondono le anime dei padri, delle madri, dei figli, dei fratelli, delle sorelle e dei compari.
Con la maschera antigas un compagno gli attaccò la corda ai piedi e gli altri tirarono forte, sulla stradetta buia, il corpo esangue.
-Come si muore – qualcuno disse – qui da noi, qualche volta da fessi.
Quello che succede, dopo l`ultimo respiro, è normale. Ti caricano su quattro spalle e ti seguono, mandria dispersa, i conoscenti. Quattro passi svelti per accompagnare una bara: una passeggiata che fa pensare all’inutilità della vita, all’inutilità anche della morte, all’inutilità di noi stessi.
La stretta di mano al superstite significa: -Devi fare da solo, curvare il groppone ancor più, fare due zappate alla volta, una per conto di chi ti ha lasciato.
Cresce la barba e significa appunto che il superstite lavora per due, che non ha tempo per ritornare il sabato sera a sbarbarsi.
E l’uomo, noi uomini che riguardiamo le vicende di ottobre varcato, dettiamo la nostra mozione da incidere sulla lapide “A X… Z. . ., morto e non voleva morire, vissuto e non voleva vivere”.
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Gent.ma Prof. Dell’Aquila, la ringrazio personalmente della pubblicazione di questo racconto.
Io sono l’ultima dei figli (cinque) del padre di famiglia a cui si riferisce il racconto, finora inedito, di Rocco Scotellaro.
Per anni ho cercato, invano, informazioni su una poesia che Rocco aveva scritto, colpito dalla nostra tragedia avvenuta il 3 ottobre 1946. La mamma di Rocco comunicò alla mia che avrebbe cercato la poesia per fargliela leggere. C’è poi da considerare che le due donne sono state colpite duramente e che successivamente, col passare degli anni, non hanno dato molta importanza alla ricerca dello scritto di Rocco.
Ho riletto più volte le poesie pubblicate ed anche l’Uva puttanella, sperando di trovare anche solo un minimo riferimento.
Devo confessare che quando ho visto il titolo del racconto ho subito pensato che potesse essere quello ce cercavo.
Continuerò a seguire le sue pubblicazioni degli inediti di Rocco, sembrerebbe che ci sia ancora molto materiale.
Le auguro un proficuo lavoro!
Cordiali saluti.
Teresa Mestice
Questo commento di Teresa Mestice è la prova concreta della grande utilità di tuoi (Antonio) sforzi di tenerci aggiornati sulle opere di Rocco. E’ tutto un sistema del quale fa bene sentirsi parte integrante, grazie a te.