ROCCO SCOTELLARO: 7. Un’affacciata alla finestra
Premessa Idella prof. Giulia Dell’Aquila (Forum Italicum, speciale edizione più volte citata: pp. 762-63) al settimo racconto degli inediti di Rocco Scotellaro.
Dalla maturità della scrittura si deduce che il racconto Un’affacciata alla finestra è opera degli ultimi anni di Scotellaro: scritto probabilmente tra il ’49 e il 52, esso è conservato solo attraverso una redazione interamente manoscritta su carta velina, non firmata, composta da tre fogli numerati e vergati su una sola facciata. In prima pagina, in alto di fianco al titolo, compare la dicitura “Appunti”. Sebbene questa definizione collochi il testo in una dimensione preparatoria, è da registrare, una certa compiutezza, soprattutto tematica: il racconto è infatti tutto costruito sul tema del vicinato, di grande rilevanza nella geografia relazionale del paese, come attesta altra produzione scotellariana anche in versi (si pensi alla coeva poesia Il vicinato, del 1951) e come ampiamente testimoniano altre voci provenienti dalla stessa realtà culturale e antropologica. (Il riferimento è qui alle poesie del materano Franco Palumbo pubblicate nel volume U rispir du vicinonz. Canzoniere materano, a cura di Francesco Bruni e Franco Vitelli, Roma, Edizioni della Cometa, 2015). Al vicinato come a un vero e proprio “gruppo” – le cui caratteristiche possono essere analizzate sul piano psico-sociale in relazione a variabili quali il territorio, il clima, il livello socio-economico, il sistema di vita – si è guardato proficuamente da una prospettiva sociologica proprio negli anni in cui la società rurale andava scomparendo per l’espansione di quella industriale. Al riguardo, gli studi di Lidia De Rita sulla comunità dei “Sassi” di Matera tornano assai utili in riferimento anche alla realtà tricaricese, per analogia cioè tra quelle zone rurali del centro-sud in cui la fisionomia topografica dei luoghi e la vicinanza tra alcuni agglomerati di case realizzano “un vero e proprio “gruppo” “che condivide atteggiamenti, modi di dire e convinzioni, differenziandosi dagli altri vicinati (De Rita Lidia_Il vicinato come gruppo. Centro sociale, anno II, n. 1, gennaio-febbraio: pp. 3-10 (3).
Ma la realtà del vicinato, prim’ancora di prestarsi a meticolose indagini sociometriche, è oggetto letterariamente assai forte, per il groviglio di esistenze che vi si avviluppa e per l’adamantina durezza delle regole che lo governano.
A tramandarne usanze e norme sono i vecchi, la vera “Bibbia del vicinato”, secondo una felicissima espressione di Amedeo Serra risalente alla metà degli anni Cinquanta: solo loro sanno “come vanno le cose e la vanità del mondo” (Amedeo Serra_ La Bibbia del vicinato, La civiltà delle macchine, IV,(2): 24-26). È lo stesso Scotellaro che definisce con chiarezza elementare nozione e misure di quella realtà:
Per capire meglio che i vicoli fino a un certo punto fanno parte del vicinato bisogna pensare un momento alle galline: bene, le galline si allontanano, come sapete, fino a uncerto punto, poi tornano indietro. E cosi è per gli uomini e le donne, grandi e piccoli, del vicinato.
Nel testo, cui nuovamente manca un assetto propriamente narrativo, il vicinato è visto con gli occhi dei bambini e degli adolescenti, una componente di residenti che condivide con le donne il dominio di quegli spazi ristretti: “il vicinato è delle donne”, notava Serra, gli uomini non vi hanno quasi “nessun rapporto” (Serra cit., p. 24),anzi subentrando seduti agli usci delle case solo la sera, quando appunto “le donne si sono ritirate” (Serra cit.). Le scorribande avvengono dunque nei pochi vicoli compresi in quella circoscrizione: è li che i ragazzi marcano il loro territorio anche attraverso atteggiamenti padronali nei confronti di bambine e ragazzette, sentite appunto come beni di cui disporre per annessa pertinenza. Non a caso, il gioco preferito è quello di “fare a marito e moglie”, secondo una interpretazione del matrimonio che legge la figura femminile come assoggettata in tutto a quella maschile. La demarcazione dei confini tra vicinati diversi, avviene unitamente alla ricognizione delle donne facenti parte di quel territorio (Mariolina, Tatella, Teresa, Angiolina e Serafina) con allertato senso di vigilanza sugli intrusi: “[. . .] Teresa, la sorella grande di 14 anni che due giorni fa, andando a prendere l’acqua alla fontana, è stata vista parlottare con un cafoncello che non è vicino di casa, sta di casa sotto la piazza”. A Giuseppe, “il capo banda del vicinato”, spetta l’onere e l’onore della cooptazione. Dopo avere respinto da sempre Mariolina “dal portone dei giuochi” e averle fatto innumerevoli dispetti, improvvisamente decide “di farla entrare”, sebbene con l’obbligo di un pesante rito di iniziazione: la “sottile” Mariolina,“nominata serva della casa”, dovrà “lavare per terra nel portone”.
A perimetrare nello spazio il gruppo vicinato vi sono i segni della quotidianità. Il disperdersi di quell’affiatamento si legge nel diradarsi dei dettagli realistici: le stradine che si spopolano, la mancanza delle “voccole nei muri dove attaccano le cavezze delle bestie”, l’assenza delle “bestie ferme cariche di legna e di paglia” e degli animali che dividono il loro cortile con le “immondizie”.
7. Un’affacciata alla finestra
Mariolina era la terza figlia di Antonio, che cresceva subito dopo le altre due e metteva anche lei il pettino.
Giuseppe, il capo banda del vicinato, dopo averla respinta sempre dal portone dei giuochi, e una volta le aveva tirati i capelli, un’altra punta sul ginocchio, ecco che ieri disse a tutti di farla entrare nel portone. Mancava Teresa, la sorella grande di 14 anni che due giorni fa, andando a prendere l’acqua alla fontana, è stata vista parlottare con un cafoncello che non è vicino di casa, sta di casa sotto la piazza. Tra Mariolina e la sorella mezzana Tatella i compagni di Giuseppe e lui stesso vedono subito la differenza in favore della più piccola: Tatella ha sempre le gambe unte di succo di mele, la bocca tagliata agli angoli bianchi e bavosi, poi i capelli sono come una pezza bagnata piena di polvere della rotabile. Con tutto ciò Giuseppe se la tiene contenta perché lei sta a tutti gli scherzi e poi quando tocca a loro di fare a marito e moglie si corica come una grande e chiude gli occhi e gli attira la mano. Ieri la bellezza della sottile Mariolina è stata vista di sfuggita dal gruppo, tanto che, in conclusione, l’hanno nominata serva della casa a lavare per terra nel portone.
Angiolina, Teresa, Serafina sono le altre donne. Ninuccio, Santino, Sebino, Beni, con Giuseppe, sono gli uomini. Ce ne sono ancora ma o che stanno malati oppure -come i figli del Maestro – possono uscire ogni tanto, o che si trovano in mezzo a due vicinati e sicché si fanno vedere or dagli uni or dagli altri. Il vicinato vero e proprio comincia dalla casa di Angiolina, che sta nella strada e sul vico che scende all’altra strada parallela. Nel vico, si capisce, è già un altro vicinato. Ora dalla casa di Angiolina si passa per una, due, cinque, sette case in tutto, nemmeno cinquanta o sessanta metri di strada, e si trova un altro grosso vico dove c`è il forno. Per capire meglio che i vicoli fino a un certo punto fanno parte del vicinato bisogna pensare un momento alle galline: bene, le galline si allontanano, come sapete, fino a un certo punto, poi tornano indietro. E così è per gli uomini ele donne, grandi e piccoli, del vicinato. Tanto per essere più precisi, si tratta di undici dodici famiglie, chiuse in questo pezzo di strada tra i due vichi più grossi, e uno sporto e due vicoli minori. Ai limiti, manco a farlo apposta, ci sono dieci metri di strada, senza una famiglia che si siede per terra al fresco, non c’è in somma una casa terranea, quindi si sente che il nostro vicinato finisce davvero, perché la strada a queste due parti pare deserta, ci sono al limite sinistro i palazzi del notaio e di un proprietario, a destra quella di un impiegato. Ed è deserta lì la strada, non ci sono le voccole nei muri dove attaccano le cavezze delle bestie oppure ci sono, antiche e belle, incavate nelle bocche di mostri di pietra, ma ci vanno i bambini a far la ginnastica, non si vedono bestie ferme cariche di legna e di paglia, non ci sono tante galline e il fumo e i maiali che dormono e che fanno le loffe o che grugniscono e masticano il granoturco sotto il pezzo di sole.
La mattina il sole scende nella strada, che nel suo tratto più largo è tre metri, in quello più stretto è due, proprio con una fatica, perché si vede che liscia la faccia di una fila di case, poi tocca terra sulle galline e i maiali e le immondizie, verso mezzogiorno, poi risale alla faccia delle altre case e se ne va.
Allora arrivano le bestie nel vicinato nero e, scaricate, scendono con fracasso nelle stalle, ce ne sono due negli sporti, altre nei vichi, una nella casa di Antonio, e l’asino di Antonio, bello e pulito, entra con la candela accesa sulla mensola del focolare e va al suo posto in fondo al lamione, intanto la caldaia della pasta bolle e la famiglia subito dopo mangia; caldo d’inverno e fresco d”estate, dice Antonio che sta in quella casa. E la mattina presto, sempre buie, le bestie risalgono dalle stalle sottane e da quelle dei vichi specialmente come se allora tirassero un traino con sopra le case e con tanto rumore.
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Caro Antonio, ho avuto la fortuna di conoscere Franco Palumbo, citato in questa tua comunicazione. Alla presentazione postumo delle sue poesie fu fatta ascoltare la voce di Franco che ne leggeva alcune. Non so se hai avuto modo di leggerle, effettivamente al titolo U RISPIR DU VICINONZ, corrisponde veramente una riproposizione dell’anima del vicinato, quel respiro che in Scotellaro era anche il fiato che i contadini soffiavano sul suo collo.
E’ un argomento del quale nel tuo blog potremmo discuterne.
Mimmo
Caro Mimmo, Non conoscevo la poesia di Franco Palumbo. U RISPIR DU VICINONZ non può non offrire, come tu dici, una riproposizione dell’anima del vicinato e suscitare il mio interesse e la mia emozione. Permettimi di ricordare che nel mio post su Rabatana RITORNO A TRICARICO, racconto la notizia della morte del duca d’Aosta e la fermata del tram davanti la reggia di Capodimonte, dove abitava la madre, la duchessa Elena di Francia. Non avevo ancora compiuto 11 anni e mi colpì che la madre non avesse il conforto del vicinato, soffrisse di questo “mancamento di umanità”. Cercai subito di comperare il libro via email, m non ci riuscii. Allora annotai questo acquisto da fare e tengo bene in vista questa annotazione. Se mi puoi aiutare ti sarò grato. E certamente dell’argomento potremmo discutere su Rabatana, ben volentieri da parte mia.
Un abbraccio, Antonio